Due fratelli con gravi problemi finanziari decidono di rapinare la gioielleria di famiglia.
Nulla andrà secondo i loro piani...
"Onora il padre e la madre" (il bellissimo titolo originale è "Before the Devil knows you're dead") si apre con una scena di sesso fra marito e moglie che spiazza lo spettatore. A colpire, però, non è la sensualità della sequenza, ma tutt'altro. Il "giovane" Sidney Lumet (83 anni suonati al momento delle riprese) evita la strada della pornografia e del pruriginoso, e si affida invece al rigore formale della fotografia (una penombra melanconicissima) e alle inquadrature, volutamente asettiche, che in pochi minuti raccontano una storia fatta di incomprensione, tristezze, ferite insanabili. Non c'è amore, bensì solitudine, distacco, rancori sopiti che riemergono in una battuta raggelante di Marisa Tomei: "In questo posto riesco a non sentirmi una merda totale". Pochi minuti, dunque, per raccontare il senso di un film duro, angoscioso, politicamente scorretto, nel quale viene letteralmente fatto a pezzi il concetto di famiglia in un contestosociale che è quello della media borghesia americana (e bianca). L'incipit disegna rapporti interpersonali già compromessi. Eppure, Lumet non dice nulla del passato della famiglia Hanson: permette semmai allo spettatore di intuire, di cogliere, nella cronaca di semplici fatti, dinamiche affettive, contrasti e disagigià ben radicati. L'architettura del film è giocata su incastri temporali, su un puzzle sfasato di avvenimenti che, inizialmente confonde, ma che successivamente diventa parte dell'insieme, perfettamente funzionale a giustificare la spiazzante ( e agghiacciante ) morale che sottende al finale del film.
Al centro del racconto si muove un pugno di personaggi tutti in balia dei propri vuoti interiori, delle proprie carenze affettive, vittime di un egoismo che non appare mai solo frutto dell'indole, ma che è soprattutto determinato dalle contingenze della vita. In tal senso Lumet non fa sconti: il rigore etico è un’eventualità, la famiglia non esiste se non come formale coacervo di sangue e abitudini, i figli sonocondannati a espiare le colpe dei padri, sono vittime e carnefici generati in un alveo di violenza domestica mai rappresentata, ma che prepotentemente permea ogni secondo di pellicola, ogni azione, ogni pensiero, ogni tormento dei suoi personaggi.
Non c'è perdono, nè redenzione: il film vira, sequenza dopo sequenza, verso una tragedia che si percepisce ineluttabile fin dall’inizio, per esplodere poi in un finale sconvolgente, logica conseguenza di un destino già scritto.Un lotto di attori straordinari tiene bordone al grande regista: Philip Seymour Hoffman, dallo sguardo mefistofelico, eppure così terribilmente fragile, è un gigante: roba da spellarsi le mani dagli applausi; Ethan Hawke è straordinario nella parte del fratello fallito (ma chi non lo è tra tutti i personaggi?): trasmette insicurezza a ogni inquadratura ed è perfetto nel rappresentare la supina accettazione innanzi all'ordito del fato; Marisa Tomei è di una bellezza sconfitta e dolente, seduce col corpo e immalinconisce con lo sguardo. Unico neo? Probabilmente Albert Finney, che non accontentandosi di fare trenta, per prendere anche la lode, finisce per essere un pò troppo sopra le righe, a tratti innaturale.
Da non perdere.
Blackswan
"Onora il padre e la madre" (il bellissimo titolo originale è "Before the Devil knows you're dead") si apre con una scena di sesso fra marito e moglie che spiazza lo spettatore. A colpire, però, non è la sensualità della sequenza, ma tutt'altro. Il "giovane" Sidney Lumet (83 anni suonati al momento delle riprese) evita la strada della pornografia e del pruriginoso, e si affida invece al rigore formale della fotografia (una penombra melanconicissima) e alle inquadrature, volutamente asettiche, che in pochi minuti raccontano una storia fatta di incomprensione, tristezze, ferite insanabili. Non c'è amore, bensì solitudine, distacco, rancori sopiti che riemergono in una battuta raggelante di Marisa Tomei: "In questo posto riesco a non sentirmi una merda totale". Pochi minuti, dunque, per raccontare il senso di un film duro, angoscioso, politicamente scorretto, nel quale viene letteralmente fatto a pezzi il concetto di famiglia in un contestosociale che è quello della media borghesia americana (e bianca). L'incipit disegna rapporti interpersonali già compromessi. Eppure, Lumet non dice nulla del passato della famiglia Hanson: permette semmai allo spettatore di intuire, di cogliere, nella cronaca di semplici fatti, dinamiche affettive, contrasti e disagigià ben radicati. L'architettura del film è giocata su incastri temporali, su un puzzle sfasato di avvenimenti che, inizialmente confonde, ma che successivamente diventa parte dell'insieme, perfettamente funzionale a giustificare la spiazzante ( e agghiacciante ) morale che sottende al finale del film.
Al centro del racconto si muove un pugno di personaggi tutti in balia dei propri vuoti interiori, delle proprie carenze affettive, vittime di un egoismo che non appare mai solo frutto dell'indole, ma che è soprattutto determinato dalle contingenze della vita. In tal senso Lumet non fa sconti: il rigore etico è un’eventualità, la famiglia non esiste se non come formale coacervo di sangue e abitudini, i figli sonocondannati a espiare le colpe dei padri, sono vittime e carnefici generati in un alveo di violenza domestica mai rappresentata, ma che prepotentemente permea ogni secondo di pellicola, ogni azione, ogni pensiero, ogni tormento dei suoi personaggi.
Non c'è perdono, nè redenzione: il film vira, sequenza dopo sequenza, verso una tragedia che si percepisce ineluttabile fin dall’inizio, per esplodere poi in un finale sconvolgente, logica conseguenza di un destino già scritto.Un lotto di attori straordinari tiene bordone al grande regista: Philip Seymour Hoffman, dallo sguardo mefistofelico, eppure così terribilmente fragile, è un gigante: roba da spellarsi le mani dagli applausi; Ethan Hawke è straordinario nella parte del fratello fallito (ma chi non lo è tra tutti i personaggi?): trasmette insicurezza a ogni inquadratura ed è perfetto nel rappresentare la supina accettazione innanzi all'ordito del fato; Marisa Tomei è di una bellezza sconfitta e dolente, seduce col corpo e immalinconisce con lo sguardo. Unico neo? Probabilmente Albert Finney, che non accontentandosi di fare trenta, per prendere anche la lode, finisce per essere un pò troppo sopra le righe, a tratti innaturale.
Da non perdere.
Blackswan
1 commento:
Sono d'accordo,il film è stupendo e la società che descrive fa inorridire ma ... purtroppo non è molto lontana.
Ciao Black.
Francesca
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