Scrivere una recensione è difficile, si sa. Esistono vari tipi di recensioni, di cui cito i primi tre che mi vengono in mente.
1) Recensione obiettiva
ed esperta con paragoni con altre opere dello stesso autore e con opere
simili di altri autori, all’interno di un filone o del panorama
nazionale di tutti i tempi, se invece si tratta di un’opera prima,
analisi dettagliata di pregi e difetti dello stile, della lingua, dei
contenuti, ricerca di tracce di plagio, ovvero di spunti malriusciti,
ricerca di un eventuale autore maestro, scelta di un soprannome che
inizi con “novello..” e grido per questa nascita infine, se il maestro
non si vede, e soprattutto se si vede che ce ne sarebbe stato bisogno,
consiglio dell’esperto su come migliorare, se non addirittura parere in
odor di stroncatura.
Una
recensione del genere io non riesco a scriverla, innanzitutto perché non
conosco i predecessori proprio di nessuno, col panorama nazionale sono
ferma a Dante e non l’ho nemmeno letto tutto, e per cogliere somiglianze
in quanto già letto non dico che dovrei ricordarmi di cosa parlava il
libro, ma almeno saper citare autore e titolo mi sarebbe utile.
Ad esempio ho appena finito di leggere Non ti muovere
e, all’inizio mentre leggevo, obiettivamente pensavo: “Uh, bellissimo
questo inizio, la scelta di raccontare proprio questa scena e proprio in
questo modo, con questi spazi bianchi fra punti chiave del racconto
(peraltro sempre azzeccati da qui alla fine del libro), e questo punto
di vista che sembra giungere dall’alto, ma subito avvolge e penetra il
racconto, come se il narratore fosse presente, invece non c’è ancora ma
questo si scopre dopo, quando la scena è già cambiata, quando lui si
materializza nella storia, ed esce dalla premessa pronto ad entrare nel
vivo del suo racconto, ed è chiaro anche se non esplicito il motivo per
cui inizia a raccontare (su questo mi sono ricreduta, il vero motivo,
più sottile, si scopre alla fine), cioè l’inizio è una sorta di scusa
(non una cornice, ma proprio un la) per una storia più lunga e più
intensa, quasi una confessione (mi pareva, all’inizio, ma non lo è) di
un uomo che si vuole raccontare e però basta con queste storie di
borghesi insoddisfatti, che se queste cose non le aveste le vorreste, ve
lo dico io, e cosa credi tu, che se fossi povero e ignorante
apprezzeresti la tua povertà e ignoranza? La seconda non sapresti
nemmeno di averla e la prima te la terresti proprio perché da ignorante
non immagineresti mai di avere anche tu diritto alla ricchezza, fermo
restando il dubbio sulla tua capacità di ottenerla, e poi di quale
ricchezza vogliamo parlare? No, perché per essere davvero ricco ti
basterebbe sfruttare la tua (ipotetica) intelligenza per far fruttare la
tua ricchezza (di qualunque tipo sia) in maniera costruttiva, anziché
piagnucolare perché vorresti un’altra vita altrove, sappi che per fare
il medico senza frontiere, se il tuo problema è davvero che in ospedale
guadagni troppo, ti basta girare l’angolo della tua città e sei in una
periferia, che da quando esistono le città (e ti sto parlando del 1200
al più tardi) sono piene di cenciosi, loro sì, che sono in questa
situazione contro la loro volontà e non sanno come uscirne, non tu che
non vorresti l’attico in centro, la moglie bellissima e la carriera
avviata ma puoi sempre scegliere di lasciare tutto, le palle, ti mancano, solo quelle”.
Ma veniamo al secondo tipo di recensione.
2) Recensione
soggettiva, ovvero l’insieme di sensazioni che il libro stimola, ovvero
una recensione inutile, se è vero che le recensioni vengono lette da chi
vuole avere un’idea generica della trama e della qualità del libro, per
poterlo leggere e farsi emozionare, innanzitutto perché le emozioni
sono soggettive, e poi perché nello stesso soggetto possono variare in
base al periodo in cui si legge un romanzo (e dico “periodo” per
semplificare perché le variabili, anche nello stesso periodo, sono
tante).
Ad esempio a me forse
ultimamente capitano solo storie di persone che stanno ferme, eppure si
lamentano perché vorrebbero essere altrove, sanno addirittura dove, però
non si muovono, proprio come il protagonista, nonché voce narrante, di Non ti muovere,
frase, questa, che lui ripete a tutti nel corso del romanzo, vorrebbe
che tutti si fermassero, invece quello fermo è lui, ne è pienamente
consapevole, anzi proprio per questo vorrebbe che tutti si fermassero:
vorrebbe averli vicino, e non farli soffrire, eppure sembra proprio che
tutto ciò che renderebbe felice lui quando lo vuole lui, farebbe però
soffrire gli altri, allora sta fermo, non si muove, o si muove
pochissimo quasi senza impegno, ma quel poco basta a cambiare le cose, a
cambiarle dall’interno, in maniera invisibile ad occhio nudo,
soprattutto all’occhio degli altri (o questo lo crede lui).
È l’ennesimo esempio di
qualcuno che ha quasi raggiunto, già in giovane età (ha 40 anni o poco
meno), l’apice della sua vita: studi universitari e carriera, in
quest’ordine; amicizie consolidate e inspiegabili, con annesso divieto
di porsi domande, perché se si tratta di persone apparentemente
obiettivamente raccomandabili non importa che ci si senta diversi o
addirittura estranei, si è amici da sempre e questa è una garanzia;
infine l’amore e il matrimonio, con conseguenza di suoceri e figli,
questi ultimi spesso sono prima di tutto tanto attesi nipotini. Alla
pensione ci pensiamo poi, se proprio vogliamo pensarci, per ora
preoccupiamoci di allevare i nostri figli secondo la sana educazione che
abbiamo ricevuto dai nostri genitori, quella che ancora oggi ci
opprime, solo che con l’età adulta abbiamo imparato a sorridere
ciononostante, e anche se il nostro sorriso sembra vero, noi sappiamo
che non lo è, ma anche questo è previsto dall’educazione che abbiamo
ricevuto, e ci tranquillizza sapere che i nostri figli, che ora si
ribellano al sorriso forzato e tengono il broncio, un giorno finalmente
impareranno a proprie spese a sorridere sempre, e ci tranquillizza
pensare che quel giorno ci diranno “avevi ragione”.
E allo stesso tempo ci
opprime sapere che noi stiamo insegnando ai nostri figli ad
auto-opprimersi consapevolmente, a non muoversi dal solco nel solco del
solco dei secoli nei secoli e così sia.
3) Oppure,
molto più semplicemente, si fa un elenco dei personaggi, anche dei
minori, se è ramificato di considerazioni sui loro rapporti è meglio,
così sembra che abbiamo letto e capito il libro, si traccia un filo
dello svolgimento, aggiungendo qualche commento se questo non è
cronologico e se i salti nel tempo appesantiscono e confondono, infine
si cita una frase preferita o esemplificativa del romanzo, si aggiungono
i propri buoni propositi per l’anno nuovo, ad esempio leggere più libri
di questo autore, e si augura a tutti buona lettura, sperando che basti
questa scheda a far prendere in considerazione l’idea di leggere il
romanzo con tante grazie a noi per il consiglio.
Io ad esempio ho scelto due frasi preferite e esemplificative da Non ti muovere.
“Il tempo lavora così,
Angela, con sistematica gradualità. Un invisibile ma implacabile
movimento di usura. La trama dei tessuti si allenta e si riassesta sul
telaio delle ossa, e un giorno, senza che nessuno ti abbia avvisato,
indossi la faccia di tuo padre”.
“Ognuno di noi, Angela,
sogna qualcosa che scardini il suo mondo ordinario. Lo sogni seduto sul
divano, sbracato in mezzo ai benefit che la vita ti aggiunge ogni
giorno. D'improvviso, spinto da un ridicolo moto di rivolta, cerchi
l'osso dell'uomo che ti sarebbe piaciuto essere. Ma per tua fortuna sei
avvolto da un bendaggio di adipe che si è ben assestato intorno a te per
proteggerti dagli spigoli, e dalle stronzate che ogni tanto ti
racconti”.
In entrambe le frasi, ciò che mi ha colpito di più è quel nome per inciso: “Angela”.
Fra i personaggi del
romanzo infatti c’è pure lei, eppure non verrebbe da includerla nella
lista, se non forse all’ultimo posto, perché non parla mai, non si muove
mai, c’è e non c’è, ed effettivamente non c’era all’epoca dei fatti
raccontati; è quasi sempre solo una parentesi nel racconto, solo ogni
tanto vengono nominate alcune sue caratteristiche che suo padre, nonché
voce narrante, ricorda. E se non fosse la protagonista di quella
primissima scena e, forse proprio per questo, la destinataria del
racconto successivo (nonché di quello stesso riepilogo di fatti a lei
accaduti), Angela non esisterebbe come personaggio, nemmeno come scusa
per un incipit stilisticamente perfetto.
Ci si dimentica di lei
per pagine e pagine, finché la narrazione incontra un rigo bianco che ci
catapulta tutti di nuovo nella stanza in cui si trova suo padre da
quando ha iniziato a raccontare, a pochi metri da lei, che è lì e non si
muove. Fra uno di questi ritorni dal flash back e l’altro spuntano qui e
lì solo piccoli incisi, questi “Angela” fra virgole che danno la pelle
d’oca, perché ci ricordano che lei, Angela, c’è ancora, c’è di nuovo,
c’è già, nonostante la storia sia un’altra, e fino alla fine
continueremo a chiederci cosa c’entra Angela, qual è il suo segreto? C’è
un segreto, o suo padre vuole semplicemente raccontare questa storia,
vuole confessarsi e ha scelto lei perché il caso l’ha portata in quella
stanza dalla quale non può muoversi?
“Non sto
cercando pietà, non sto cercando nulla, Angela, credimi, non so nemmeno
io perché ritorno a queste cose”. Questo dice Timoteo, ossia la voce
narrante, verso la fine del libro, e per me la lista dei personaggi
potrebbe finire qui, perché nonostante la storia che Timoteo racconta ad
Angela sia un’altra, e questa a sua volta possa essere vissuta e quindi
analizzata secondo almeno tre differenti aspetti della vita di un uomo,
e nonostante mi sia chiesta più volte se davvero un uomo pensa queste
cose, se davvero le racconterebbe a sua figlia, se davvero le direbbe
così, e pur essendo convinta che il motivo per cui le racconta questa
storia sia un altro (e lo si scopre solo alla fine), o forse proprio per
questo, per me questo romanzo è semplicemente la storia del rapporto di
un padre con sua figlia: un rapporto a distanza in cui non è il fatto
che sua figlia in questa storia non c’entri nulla a determinare lo
spazio fra loro, né il tentativo di avvicinamento è dato dalla mera
confessione di fatti che potrebbero macchiare l’immagine che una figlia
ha di suo padre: senza peccato, antico, responsabile, palloso, nobile e
rassicurante, venerabile e proprio per questo irrimediabilmente
distante.
Questa è una storia che
parla di padri, perché pur con tutta la buona volontà data da tutto il
senso di inadeguatezza che determina tutto un voluto apparente
disinteressamento, un uomo quando diventa padre smette di essere un
uomo. Non in assoluto, bensì agli occhi di un figlio, o meglio: agli
occhi di un figlio non è mai un uomo, ma nasce (con lui), e muore, come
padre. Uno impiega una vita di delusioni e fatica a costruirsi come
uomo, o un’estate di consapevolezza determinante a rinascere come uomo,
ma i suoi figli, sia che lo chiamino “papo” sino al giorno del proprio
matrimonio sia che lo mandino affanculo già dalla quinta elementare, lo
vedranno sempre come un padre circoscritto in un ventaglio di
caratteristiche predeterminate, dal quale “scegliere” che tipo di padre
essere, ad esempio un padre che si accontenta di guardare crescere la
figlia convincendosi che le basti la complicità con la madre. Invece
dietro questa immagine di padre c’è sempre un uomo e, cosa più assurda
per una figlia (o per un figlio), c’era anche prima, quando lei non
c’era, non era desiderata né pensata.
Sin da subito, in gesti
minuscoli e parole semplici si avverte il legame di questo padre con la
figlia. Non ti muovere, Angela, non ti muovere. Di solito il colpo mi
arriva, se mi arriva, inaspettato nel finale, questa è la prima volta
che una storia mi fa piangere nelle prime pagine, e poi ancora ogni
volta che quel padre torna dal suo racconto lontano a quel capezzale di
figlia, e questo nonostante le sensazioni per la gran parte del romanzo
siano altre: fastidio, disgusto, disapprovazione. Ogni volta che dice
“Angela”, ogni volta che la chiama “figlietta mia”, indipendentemente da
quello che vuole dire (il mio amore era un altro, figlietta mia, non
tu, non tua madre), traspare tutto il suo essere padre, io vedo tutta la
loro complicità, il loro affetto reciproco abitualmente nascosto dalla
quotidianità. E ogni volta, ho sentito tutte le mie lacrime agli occhi.
Elle