lunedì 30 aprile 2012

Saluti ad Alice


ANTEFATTO: verso le 11 di sera del 12 Marzo, in radio ci sono una ventina di compagni, tra cui Flebo, Turbominchia e Bananastorta; si discute della bravata di Turbo che ieri mattina ha fischiato dietro al passaggio della Granduchessa Diosiacontè, in Piazza Purgatorio, proprio davanti al Palazzaccio. Tutti sanno che il Granduca si incazza come una bestia se qualcuno gli tocca la sua compagna: solo Turbo poteva fare una minchiata del genere. Adesso tutti i compagni temono una rappresaglia delle armate del Granduca contro la radio.
Naturalmente tutti i compagni danno dello stronzo a Turbo, che però si difende dicendo di non aver riconosciuto la Granduchessa, ma tutti sanno perfettamente che Turbo sta mentendo e che se dipendesse da lui, visto che una gonna è una gonna e se anche dentro ci fosse sua zia, meriterebbe comunque una mano sul culo o almeno un apprezzamento che inizia con "Bella fi" e finisce con "ga".

domenica 29 aprile 2012

Shame

 

Non siamo cattive persone.
È solo che veniamo da un brutto posto.


Trama: Brandon ha trentanni, vive a New York ha un bel lavoro, un aspetto invidiabile e tutte le donne che vuole. Ma è incapace di instaurare una relazione sana a causa di una dipendenza dal sesso. L'arrivo di Sissy, sua sorella minore, fragile sbandada ed incapace di controllarsi, sconvolgerà per sempre il suo seppur malsano equilibrio.

Controverso, difficile, emozionale, persino pornografico, di "Shame" si è detto tutto e su "Shame" si è fatto molto rumore. Per nulla? Probabilmente si.
Il meglio di "Shame" sono senza dubbio loro, i due protagonisti.

Michael Fassbender, premiato con la Coppa Volpi a Venezia, con questa interpretazione si conferma come uno dei più bravi, e probabilmente più coraggiosi attori di oggi. Il suo Brandon è una bomba inesplosa dietro ad una maschera di freddo perbenismo, e a lui basta uno sguardo, una lacrima, per raccontarci la miseria di un uomo prigioniero delle proprie ossessioni, capace di concepire il sesso solo come pulsione, come sfogo, e così estraneo ad ogni coinvolgimento emotivo che, quando si avvicina al nascere di un sentimento, l'incontro con la segretaria, non riesce ad andare fino in fondo.
Carey Mulligan al contrario, in "Shame" è una donna fragile, affettivamente dipendente ed alla continua ricerca dell'amore, e sarebbe quasi sufficiente la sequenza in cui interpreta "New York, New York" per convincerci della sua bravura.
McQueen, regista di indubbio talento, porta i suoi personaggi così estremi in una New York quasi spettrale fotografata anche nei suoi angoli più sordidi in maniera magnifica, realizzando un film curato nei minimi dettagli, formalmente impeccabile, con una colonna sonora stupenda, ma che finisce quasi con il somigliare di più ad una perfetta opera d'arte visiva che ad un prodotto di puro cinema. "Shame" non spiega cosa si cela dietro il comportamento patologico di Brandon e Sissy, non scopriamo mai perché i due fratelli stanno così male, non analizza, non cerca comprensione, si limita, se così si può dire, a mostrarci ciò che accade, come si trattasse di una sorta di documentario di lusso, e finendo con lasciarci clamorosamente indifferenti. Forse meno perfezione e più cuore ne avrebbero fatto un film stupendo.


Sicuramente era questo lo scopo di McQueen, in fondo la sua è una storia di vuoto esistenziale ed incomunicabilità, ma a me ha lasciato parecchio l'amaro in bocca; perché nonostante due interpreti meravigliosi, e non mi stancherò mai di ribadirlo, mi sono trovata di fronte ad un film che non genera reazioni di nessun tipo.
Niente emozione, empatia, dolore, rabbia, sdegno, nonostante la presenza di scene forti non ci si scandalizza neppure, si resta lì, inerti e freddi, a guardare.
Francamente troppo poco.


Newmoon

sabato 28 aprile 2012

Tracce nel deserto


 Il freddo non mi faceva paura, c’ero abituato ma non vedevo l’ora che si facesse giorno. Quel figlio di puttana di un segugio mi aveva odorato e mi era toccato starmene rintanato in quella buca dietro quel dirupo con i rospi che gracidavano e la faccia incollata alla terra umida. Col chiaro di luna e il cielo che sembrava un cuscino coperto di spilli ci vedevo meglio, avrei solo dovuto aspettare il momento propizio per passare quella cazzo di linea. Ma quella notte non mi fu possibile per cui restai vigile e attento ai minimi dettagli perché sono loro che poi ti fottono. Ero pronto anche a morire pur di andarmene.


venerdì 27 aprile 2012

Ilenia Volpe - Radical chic un cazzo



Bigotti, benpensanti, perbenisti e schizzinosi si fermino qui, non ci provino nemmeno, perchè ora si inserisce il cd nello stereo e da qui in avanti saranno rabbia e tremendo realismo le parole d’ordine, frasi schiette e senza il minimo filtro, rovesciate come un travolgente fiume in piena da una ragazza di casa nostracon una voce e uno spirito rock che non si sentiva da troppo tempo....

giovedì 26 aprile 2012

l'arte delle cover e del prenderla poco sul serio...


Premesso che condivido in pieno il pensiero di Blackswan nell'incipt del suo post sul disco di cover dei Counting Crows credo che ci sono cover e cover cioè c'è chi si limita a rileggere con il proprio stile pezzi di altri e c'è invece chi riarrangia completamente il pezzo, magari uscendo anche dalle proprie e consuete sonorità... e soprattutto c'è chi si prende poco sul serio o almeno dà questa impressione e allora riesce a creare qualcosa di godibile e divertente sia da vedere che da ascoltare... i Walk Off the Earth sono un esempio di quello che sto dicendo... canadesi, suonano insieme dal 2006, sono diventati famosi sul web per i loro video, uno su tutti la cover del pezzo pop-tormentone di Gotye, dove oltre a eseguire cover ben riarrangiate si esibiscono in performance carine e divertenti... musica leggera leggera per farci passare qualche minuto con il sorriso...
Cherotto






mercoledì 25 aprile 2012

Hanno tutti ragione



Tony Pagoda è un cantante melodico con tanto passato alle spalle. La sua è stata la scena di un’Italia florida e sgangheratamente felice, fra Napoli, Capri, e il mondo. È stato tutto molto facile e tutto all’insegna del successo. Ha avuto il talento, i soldi, le donne. E inoltre ha incontrato personaggi straordinari e miserabili, maestri e compagni di strada. Da tutti ha saputo imparare e ora è come se una sfrenata, esuberante saggezza si sprigionasse da lui senza fatica. Ne ha per tutti e, come un Falstaff contemporaneo, svela con comica ebbrezza di cosa è fatta la sostanza degli uomini, di quelli che vincono e di quelli che perdono. Quando la vita comincia a complicarsi, quando la scena muta, Tony Pagoda sa che è venuto il tempo di cambiare. Una sterzata netta. Andarsene. Sparire. Cercare il silenzio. Fa una breve tournée in Brasile e decide di restarci, prima a Rio, poi a Manaus, coronato da una nuova libertà e ossessionato dagli scarafaggi. Ma per Tony Pagoda, picaro senza confini, non è finita. Dopo diciotto anni di umido esilio amazzonico qualcuno è pronto a firmare un assegno stratosferico perché torni in Italia. C’è ancora una vita che lo aspetta. 

La bellezza di " Hanno tutti ragione " risiede nell'imperfezione. Una scrittura sui generis e ricca di neologismi, un massimalismo tracotante, una verbosità che a tratti dilata il ritmo all'inverosimile, una propensione torrenziale alla sentenza, potrebbero trasformare questo libro in un fastidioso guazzabuglio di fesserie. Eppure gli innumerevoli difetti inaspettatamente rendono l'opera prima di Sorrentino bellissima. Perchè è vera, sentita, emozionante e scorretta oltre ogni limite. Onesta,s oprattutto. Come Tony Pagoda, il personaggio che innonda con la sua esuberante presenza queste 320 pagine. Cocainomane, puttaniere, nichilista, cinico, furbo, volgare, infettato da una malsana propensione all'orgasmo del sangue.
Lo si dovrebbe odiare,ma si finisce per venerarlo. Perchè dotato di un'etica forse cialtrona e primordiale ma inoppugnabile, di una visione della vita così disincantata e verace da farti apparire ovvia anche l'intuizione e la riflessione più arguta.Tony ci fa incazzare e ci fa ridere. Spesso, quando meno ce lo aspettiamo, ci commuove alle lacrime. Con una malinconia che ti afferra la gola e non molla la presa. Amicizia, amore, sesso, morte, violenza.E vita, secchiate di vita in piena faccia, che hanno il potere di svegliarci dal torpore delle nostre abitudini (esistenziali e letterarie).
Da non perdere. 


martedì 24 aprile 2012

L’ora cult: Fuori orario


Per proseguire, più o meno volontariamente, nel viaggio dentro al cinema di Scorsese partito da newmoon nel suo post su Hugo Cabret, torniamo indietro nel tempo con le lancette dell’ora cult per un altro (in tutti i sensi) Scorsese.





Fuori orario
(USA 1985)
Titolo originale: After Hours
Regia: Martin Scorsese
Cast: Griffin Dunne, Rosanna Arquette, Linda Fiorentino, Teri Garr, Catherine O’Hara, Verna Bloom, John Heard, Will Patton, Cheech Marin
Genere: tutto in una notte
Se ti piace guarda anche: Collateral, Eyes Wide Shut, Tutto in una notte, Frantic

C’è qualcosa di magico, nella notte. Il sogno prende il sopravvento sulla percezione del reale. Il lato oscuro si impossessa della nostra parte più buona. Il razionale diventa irrazionale.
C’è qualcosa di magico, nei film ambientati di notte, meglio ancora quelli da tutto in una notte. La narrazione si concentra su poche ore nella vita dei personaggi. Poche ore che possono cambiare tutta un’esistenza.
Fuori orario appartiene in pieno ai tutto in una notte, è il pezzo di diamante del genere, però non percorre la strada esistenziale. La nottata folle vissuta dal protagonista è come un sogno. A tratti un bel sogno. A tratti un incubo. Però non ci è dato sapere se gli cambierà davvero la vita. Probabilmente no.


C’è qualcosa di magico, in un film come Fuori orario.
Il protagonista Paul Hackett è un programmatore di computer che decide di passare una serata fuori. Dopo una stancante giornata di lavoro, cosa c’è di meglio di una tranquilla uscita?, deve aver pensato. Purtroppo, o per fortuna, si rivelerà invece la nottata più pazzesca che ha mai vissuto e che, probabilmente, mai vivrà. Una nottata in cui incontrerà non una, non due, non tre, bensì quattro bionde. E ATTENZIONE SPOILERONE non farà sesso con nessuna delle quattro!
A muovere o meglio smuovere il protagonista da una parte all’altra della city, ça va sans dire, è una ragazza. La prima bionda che mette in moto tutto. Una Rosanna Arquette all’apice della sua stupendosità. Da quello che sembrerebbe l’incontro galante preludio di un’altra solita ennesima commedia romantica 80s style, parte invece un’avventura nel cuore della notte che non ha mai fine, che non ha mai fine, che non ha mai fine e Paul Hackett rimane così come intrappolato in un incubo kafkiano da cui non riesce a uscire.


Il meccanismo di ripetizione che si instaura non è un semplice modo per rimpiazzare la mancanza di altre idee. O, almeno, non credo fosse questa l’intenzione dello sceneggiatore qui esordiente Joseph Minion. La ripetizione è un elemento tipico dei sogni, la riformulazione di cose che abbiamo visto e vissuto durante la veglia riproposte in una forma leggermente differente.
La dimensione onirica ci tiene compagnia per tutta la notte, per tutta la visione del film. Con questo non intendo che ci accompagni tra le braccia di Morfeo. Tutt’altro. Fuori orario è un’auto che viaggia fuori giri, a un ritmo indiavolato come quello del taxista pazzo che traghetta il protagonista dalla parte “normale” della New York diurna, fino a quella pazza, assurda e da sogno di Soho. Ricreata da Scorsese attraverso improvvise accelerazioni e zoomate, come una giostra da luna park che parte lenta e poi quando non te ne sei nemmeno accorto viaggia già a una velocità insana e tu a quel punto non puoi scendere. Hai paura. Ti stringi stretto alla maniglia. Sarai sollevato quando tutto sarà finito. Eppure in quel momento non c’è altro posto dove vorresti essere. Quell’adrenalina ti fa sentire vivo e tu scendere non vuoi. Non adesso. Paul Hackett ci accompagna sulla giostra scorsesiana. E nemmeno lui vuole scendere. Non fino a che la notte sia finita. Alla faccia della serata tranquilla. Alla faccia del relax post lavoro.


Vogliamo cercare di dare un’interpretazione sociale a questo film? Vogliamo vederlo come un inno al posto di lavoro come porto sicuro contrapposto all’incognita e ai pericoli dell’avventura nella notte? La routine della vita ordinaria del giorno contro il caos degli incontri sessuali, dei locali punk, della criminalità della notte, per cui provare repulsione eppure venirne attratti come da un’irresistibile forza di attrazione?
Nah, domande troppo razionali e questo film è meglio viverlo come si fa con i sogni. Quando dormi, non stai a chiederti cosa succederà. Ti lasci semplicemente trascinare dentro dagli eventi. Reali o folli che siano. Tutto nei sogni è possibile. Come nei film. Come di notte. Come nei film da tutto in una notte.
(voto 9/10)


lunedì 23 aprile 2012

Viaggiatori nella notte

L’aria sapeva di temporale. Camminavo di sbieco con le mani nel soprabito, attraversando la notte. Guardai l’orologio Erano le due passate da un quarto. Il cuore mi batteva come fosse un motore ingolfato e gorgogliava nostalgie brucianti. In qualche modo, ognuno di noi si porta appresso le proprie menzogne, riflettei, senza le quali è impossibile tirare avanti...

domenica 22 aprile 2012

Warren Zevon


Sicuramente molti di voi avranno avuto modo di ascoltare qualcosa di Warren Zevon; per altri invece il nome suonerà nuovo e magari potrebbe essere interessante sapere alcune cose su di lui.
Queste mie poche righe non vogliono certo essere una recensione musicale dei suoi album (di quelle in giro ne troverete tante e scritte da persone ben più titolate di me); non voglio nemmeno segnalare la sua discografia essenziale, che un buon amante della musica deve assolutamente conoscere (fate un giro in Internet e ascoltate quello che preferite).
Vorrei solo ricordare una persona tranquilla, che nel 1986 intitolava  “A Quiet Normal Life: The Best of Warren Zevon”, la sua prima raccolta di brani.  

sabato 21 aprile 2012

Hugo Cabret



"Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!"


Complimenti al grande Martin Scorsese. Arrivato ad un’età in cui parecchi suo colleghi rifanno sempre lo stesso film, lui cambia genere, mettendosi in gioco con un’opera completamente differente, un film per famiglie che è anche un tributo al cinema. Risultato, 11 candidature agli Oscar e pubblico ferocemente diviso.


Per quanto mi riguarda, la partita Scorsese l’ha vinta, ed anche alla grande. Ben lontano da essere la sua opera migliore, ci mancherebbe, ma “Hugo Cabret” è una festa per gli occhi e riesce anche ad emozionare. Non mi piace il 3D, devo però ammettere che quella offerta da “Hugo Cabret” è una esperienza visiva davvero particolare. Un affresco ipertecnologico necessario per apprezzare al meglio una favola pensata per i ragazzi, ma forse più adatta agli adulti che non hanno paura, qualche volta, di ritornare bambini. Ma se la storia di Hugo (un bravo Asa Butterfield), orfano che cerca disperatamente di aggiustare l’automa ultimo ricordo del padre perché pensa vi troverà nascosta la ragione della sua solitudine, è a tratti effettivamente un pochino “disneyana”, è nel tributo alla settima arte ed al genio di George Melies (un intenso Ben Kingsley) che il film mostra la sua anima migliore.

Scorsese ama il cinema, e in “Hugo Cabret” omaggia questa splendida arte e colui che fu, all’epoca, uno dei suoi esponenti più visionari.
Noi possiamo decidere di restarne fuori ad osservare il tutto con il consueto disincanto, oppure tuffarci dentro, come Alice quando entra nel paese delle meraviglie.
Se, come chi scrive, optiamo per la seconda strada, finiremo avvolti da una narrazione incantata e poetica, confortante come una calda coperta di lana in queste gelide giornate invernali.


Quando i Lumiere inventarono il cinema, credevano sarebbe presto passato di moda, non pensavano certo di aver dato vita a quella che sarebbe diventata la fabbrica dei nostri sogni.
Celebrandola, Scorsese ci emoziona invitandoci a tenerceli stretti questi sogni e a credere, perché no, nel lieto fine.
Hugo Cabret” non è certo un film perfetto, ma è un bel regalo che ci fa un grande regista, un dono da guardare non tanto con gli occhi della ragione, quanto con quelli del cuore, come se fosse “l’isola che non c’è, l’isola del tesoro ed il mago di Oz messi insieme”.


Ps. la settimana degli esordi qui sul blog de l'orablù si sta per concludere con una nuova firma che accogliamo volentieri... ci auguriamo di vederla presto qui tra noi, grazie Newmoon



venerdì 20 aprile 2012

Neil Young - Tonight's the night


Rock, rock e ancora rock, distorsioni elettriche che cavalcano sulla pelle, emozioni che corrono a trecento all’ora nelle vene, alcol, droghe e un costante stato di follia emotiva in bilico tra nuovi orizzonti e pesanti ricordi, rabbia, frustrazione, nervi e sudore, potenza e disperazione, tremendi fantasmi e una pellaccia dura come poche segnata da un viaggio dal Canada all’inferno e ritorno. Tutto questo ha un volto e un nome, quelli del “Solitario” Neil Young, e Tonight’s the night è l’album più viscerale, sofferto e oscuro del cowboy di Toronto. Siete pronti alla discesa negli inferi?...

Altri scatti da Non Rompete Le Scatole (in Villa...)


grazie a Riccardo di b-artcontemporary per averci inviati alcuni scatti fatti sabato scorso durante la performance di Giovanna Rossi...


mercoledì 18 aprile 2012

Per scrivere: leggere.

A gennaio, decisissima a riprendere letture costanti, ho iniziato a dar seguito  al mio proposito con Lezioni americane di Calvino, un libro di testo che “dovevo ” leggere, e il dovere, purtroppo, si è fatto sentire sin da subito. Il primo ca pitolo, infatti, fa troppi riferimenti ad opere e autori che non conosco, ad ese mpio Lucrezio e Ovidio e poeti moderni (inglesi?), ma a parte il vago ricordo di qualcosa in Lucrezio e in Ovidio che mi era piaciuto quando preparavo (inutilme nte) l’esame di letteratura latina, io di loro non so nulla che mi aiuti a capir e i riferimenti alle loro opere. Calvino li nomina nel primo capitolo a proposit o della “leggerezza”, perché entrambi parlerebbero in qualche modo di atomi, mat eria e trasformazione. Nel secondo capitolo invece parla della “rapidità”, ed io ho cominciato lentamente a dimenticare il mio “dovere” di leggere e di capire,  perché Calvino cita esempi di prosa nei quali io riesco a riconoscermi meglio, i nfatti anch’io scrivo in prosa: e quell’inizio di comprensione mi ha aiutata a t rasformare questa lettura in un piacere. E  quando Calvino precisa che preferire un’esposizione “rapida” non significa che le digressioni non siano utili o nece ssarie, io mi sono sentita addirittura in pace con me stessa. Anche se nel mio c aso io parlerei più di “divagazioni fuorvianti”. Ma è poi vero? O è solo una mia impressione?
 
Le sei lezioni americane, Calvino le scrisse come sei conferenze (che doveva ten ere in America, appunto) su sei proposte per il nuovo millennio, ovvero proposte di mantenere nel nuovo millennio alcuni elementi della letteratura che a suo av viso sono fondamentali per scrivere, per fare letteratura, perciò cita molti aut ori del passato o a lui contemporanei che secondo lui hanno saputo sfruttare e r appresentare questi elementi. Io, come ho detto, della leggerezza opposta a (ma  anche un po’ affiancata da) pesantezza all’inizio non avevo capito molto. Per il resto del saggio ho cercato nel mio modo di scrivere un esempio di quanto dice  Calvino, perché ricondurre una lettura a qualcosa di noto è sempre utile per cap ire, ma per “leggerezza” non riuscivo a capire cosa intendesse: di contenuti? di forma? di termini? Avevo perciò deciso di rileggere l’inizio alla luce del rest o dell’opera.
Un motivo per il quale potrei abbandonare una lettura, infatti, è non riuscire a d entrare nello stile e nell’argomento al punto da capire. Molte volte, solo giu nta con tenacia un po’ più avanti, sono riuscita finalmente a capire il ritmo di un’opera, chiamiamolo così, come quando sentiamo una musica dalla melodia fuori dal comune, e alziamo il volume convinti che sia questo che ci impedisce di aff errarla, e invece è proprio il ritmo inusuale che ci confonde; dobbiamo riascolt arla più volte, finché anche lei non entra nel repertorio del conosciuto, ci div iene familiare, e possiamo capire se ci piace o no. Altre volte, io nemmeno così capisco.
A partire dal capitolo di Lezioni americane che parla della “rapidità” (il secon do), io ho ritrovato il Calvino piacevole e fluido che conoscevo, e sono riuscit a a seguire il suo discorso anche quando è tornato ad esempi letterari a me scon osciuti. Rileggendo allora il primo capitolo, ho pensato che, forse, Calvino int endesse con “leggerezza” l’assenza di una propria interpretazione nelle cose di  cui si racconta, quindi la semplice descrizione e, come dice esplicitamente, la  “precisione e la determinazione”, opposte alla vaghezza che invece, e solo se ho capito bene, determina pesantezza  per incomprensione.

Ma i capitoli più utili a me sono stati i successivi.
Io devo scrivere un racconto. Breve. Nel secondo capitolo sulla rapidità Calvino usa come esempio le fiabe. Le fiabe mi piacciono. Quando preparai l’esame di li nguistica italiana, dovevo portare due argomenti a piacere ed io scelsi la lingu a delle fiabe e la lingua della burocrazia. Delle fiabe mi affascinano anche i m eccanismi e i personaggi, soprattutto dopo un confronto che avevamo fatto in let teratura fra l’eroe di una fiaba che compie il suo percorso di formazione e i du e viaggi di Renzo dei Promessi sposi a Milano, simili ma diversi in quanto a esp erienze e insegnamenti. Del linguaggio burocratico mi affascinano i giri di paro le lunghissimi che, tradotti in italiano, si riducono a poche semplici parole, e il mio primo approccio con il burocratese fu proprio attraverso un articolo di  Calvino, che negli anni Sessanta coniò per lui il nome “antilingua”, e naturalme nte sono d’accordo con Calvino, che il burocratese non è una vera lingua ma l’op posto della lingua, e porta perciò all’opposto della comunicazione. Però mentre  leggevo sulla rapidità, ovvero sul susseguirsi delle scene di un racconto senza  troppo divagare che è tipico delle fiabe, io pensavo anche all’effetto comico (i n quanto rallentante) del burocratese nel bel mezzo della descrizione incalzante di una scena fiabesca, o ad un suo eventuale ruolo di ostacolo al percorso dell ’eroe.
Poi ho pensato che io il racconto che devo scrivere lo preparo tutti i giorni co l mio blog: ho un contesto abbastanza curioso eppure ben definito, ho i personag gi, devo solo scegliere la scena fra le tante che voglio raccontare; il ritmo in calzante è uno di quelli che uso nel mio blog, benché io eccella nelle divagazio ni che non portano a nulla (o è ancora una volta la mia impressione?); ho anche  pensato che il protagonista del racconto potrebbe essere uno spirito sfigato, di cui racconto in terza persona.
L’incipit che ho annotato a matita sul libro, appena l’ho pensato è: “Da quando era morto, aveva perso tutte le sue certezze.” Più rapido di così!


Nel terzo capitolo (quindi per la terza conferenza), Calvino parla dell’esattezz a. Questa è semplice da capire, perché si ricollega alla struttura che si vuole  dare ad uno scritto, alle varie correzioni sia della forma che, ad esempio, dell e scelte lessicali, che fanno parte del processo di avvicinamento a quello che s i vuole scrivere.

La visibilità invece è il rapporto tra ciò che scriviamo e l’immagine mentale: u na sorta di dare e avere, perché prima è l’immagine che da il via alla scrittura , successivamente è la scrittura che stimola nuove immagini che, a loro volta, m andano avanti la scrittura. Così come la fame vien mangiando, anche la scrittura vien scrivendo, e si crea da sola solo mentre scriviamo: in astratto funziona s olo il la, tutte le altre note sono prodotte dalla trascrizione di quella prima, non da una musica non ancora scritta. Ma allo stesso tempo, per Calvino è impor tante “pensare per immagini” e imparare a definirle e descriverle, soprattutto o ra che siamo bombardati da immagini (era il 1985, quindi oggi vale molto di più) : la “visibilità” consiste quindi nell’essere in grado di rappresentare e isolar e un’immagine con le parole.

Per la molteplicità vengono citati molti autori (credo dell’Ottocento, o già del Novecento?) che iniziarono opere enciclopediche in forma di romanzo, cercando d i metterci dentro tutto ciò che era conosciuto e spesso lasciando il romanzo inc ompiuto. La molteplicità di un’opera letteraria è importante, secondo Calvino, p erché la vita stessa è molteplice e include una pluralità di cose, luoghi e pers one, nella vita di uno solo. Molteplicità però non significa confusione o generi cità, ma anzi deve rientrare in precise regole entro le quali comunque il ventag lio di possibilità è vasto. Sembra quasi che per Calvino iniziare un romanzo fic candoci dentro un po’ di tutto, e ad un certo punto perdersi e non sapere più do ve si voleva andare a parare e addirittura lasciarlo incompiuto (ma come capolav oro, non come fallimento) sia vera letteratura. Questo mi consolerebbe, quando i o non mi ricordo più che minchia volevo dire in un post, e penso di cancellarlo, se non ci fosse quella precisazione che io, furba, vi ho messo fra parentesi, o ssia che il romanzo incompiuto deve essere ciononostante un capolavoro, insomma  non basta che non porti a nulla e che non sia finito, va bene?

Infine c’è un capitolo intitolato “cominciare e finire”, che è messo come append ice del saggio perché era stato pensato da Calvino come introduzione al ciclo di conferenze, e poi da lui stesso escluso, mentre manca la sesta lezione (tale “c onsistency”), che avrebbe compreso, dicono, anche parti di questa prima lezione  poi scartata. Calvino è morto allora, perciò nella raccolta manca questa parte. Quest’ultimo capitolo però mi ha dato altre idee, perché tratta di incipit e fin ali, le due parti più importanti di uno scritto, anche se solo la prima può acqu istare fama (anche perché esistono romanzi incompiuti, ma romanzi senza inizio m i pare proprio di no). L’incipit è importante perché ci introduce nella storia,  che può essere vera o no, ma rappresenta comunque un altro mondo in cui stiamo e ntrando. Il tipo di incipit a quanto pare ha seguito le mode dei vari periodi, f ino all’epoca moderna (almeno rispetto a quando scrive Calvino), quando si diffo nde l’inizio in media res, ossia nel bel mezzo dello svolgersi dei fatti o di un dialogo, senza preambolo descrittivo o di presentazione dei personaggi, dei luo ghi o delle vicende, come succede invece nei Promessi sposi in cui entriamo quas i in elicottero, e abbiamo la descrizione del ramo del lago di Como eccetera dal l’alto (questa dell’elicottero non credo di averla inventata io, ma nemmeno Calv ino in questo libro). Ci può essere anche una cornice, esterna all’opera in sé,  ma dalla quale l’opera prende avvio, come nel caso del Decameron. I vari esempi di incipit mi sono piaciuti molto e sulla loro scia, e seguendo an che la mia predilezione per la fiaba, mi sono inventata un altro incipit per il  mio racconto (anche in questo caso per incipit intendo la prima frase, ma l’inci pit è in realtà la prima “scena” di un romanzo, espressa in righe o in pagine),  che ho subito annotato al margine della pagina: “Come quell’altra, anche questa storia comincia con…”


Come inizio mi piace perché rimanda a qualcosa che c’è già stato, che è stato gi à raccontato, che è già noto all’ascoltatore (perché le fiabe nascono come racco nto orale), ma che non viene precisato, lasciando mistero e curiosità dietro di  sé. E anche un po’ davanti a sé, come apripista misterioso per l’ascoltatore del la storia che racconterò.
Fra i contenuti che mi son venuti in mente per il mio racconto breve, non ce n’è uno che sia preciso, ma ci si potrebbero mettere pochi personaggi chiave, un pe rcorso da fare (qualcosa da cercare? o da capire?), ostacoli nel mezzo e un fina le inaspettato. Proprio come nelle fiabe. Altro elemento delle fiabe che mi affa scina è la ripetitività di gesti o parole, che per i bambini sono l’ideale, perc hé loro apprezzano i ritmi che si ripetono, ma è stato un adulto a suggerirmi qu alcosa: il Nonno da giorni prende le sue monetine dalla tasca, le fissa, forse l e conta, poi le mette sul tavolo e dice “toh se ti servono, a me non mi servono” . Dopo un po’ (la sera o il giorno dopo), cerca le monetine nella tasca e non le trova, chiede dove son finite, e qualcuno (di solito la persona a cui le ha reg alate) gliele restituisce dicendo “guarda, sono qui”. E la scena si ripete ogni  giorno. Ora, mentre scrivo, è successo a me: ho ricevuto le monete con la frase  magica “toh se ti servono, a me non mi servono” e mi aspetto che domani mi chied a se le ho viste perché non le trova.
A me sembra un rito da fiaba, di quelli che danno il via alle peripezie dell’ero e, le quali porteranno alla risoluzione del mistero delle monete. Chi è quel vec chio che appare in sonno e offre monete che il giorno dopo ci sono e il giorno d opo ancora non ci sono più, ma la seconda notte il vecchio appare ancora in sonn o e chiede indietro le sue monete? E le monete dove vanno a finire? E qui inizia il viaggio dell’eroe. Vedete che il filo di un racconto sta già venendo fuori?

Bene, nella mia difficoltà ad esser breve quando scrivo, ho pensato anche che po trei scrivere il mio racconto immaginando di raccontarlo a voce alta: quando si  parla per raccontare qualcosa si tende a dire l’essenziale (rapidità) e a dirlo  in maniera accattivante e stimolante (visibilità), a metterci dentro quante più  cose in cui può rivedersi l’ascoltatore (molteplicità), senza aggiungere nulla d ella nostra interpretazione che possa confonderlo e fargli perdere il filo della comprensione (leggerezza), e siccome non possiamo perder tempo a ripetere per s piegare meglio e per farci capire, perché rischiamo di annoiare l’ascoltatore e  di fargli perdere interesse al racconto, sarà bene che scegliamo le parole giust e, non necessariamente le più semplici, ma semmai quelle più appropriate (esatte zza). Il modo in cui iniziamo il racconto è importante per ancorare l’attenzione dell’ascoltatore, e il modo in cui lo concludiamo è importante per lasciargli u n buon ricordo e chissà, forse, anche un insegnamento per sé.

(questo è quello che ho capito io, Elle, di: Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio di I. Calvino)


un grazie infinito a Elle che con questo post segna l'inizio della collaborazione con L'Orablù

martedì 17 aprile 2012

Battle Chicken Royale


Battle Royale
(Giappone 2000)
Titolo originale: Batoru rowaiaru
Regia: Kinji Fukasaku
Cast: Tatsuya Fujiwara, Aki Maeda, Takeshi Kitano, Chiaki Kuriyama, Taro Yamamoto, Kou Shibasaki, Masanobu Ando
Genere: ammazzatutti
Se ti piace guarda anche: The Hunger Games, Arena, Battle Royale II: Requiem

È da tanto tempo che io non riesco a fidarmi degli adulti.”

Ci sono film che riescono a catturare alla perfezione lo spirito dei tempi.
Battle Royale è uno di questi.
A dirla tutta, tutto parte con l’omonimo romanzo scandalo di Koushun Takami, uscito in Giappone nel 1999 con grande scalpore e in grado di generare poi anche un popolare manga e due film. Il primo dei quali è questa pietra miliare, uscito in varie versioni, alcune parecchio censurate vista la natura molto splatter di numerose scene.

Cos’ha di così figo Battle Royale?
In pratica è come un reality-show, solo un po’ (un po’ tanto) estremizzato fino alle massime conseguenze. Guardando il Grande Fratello o L’isola dei famosi (per quanto vi possiate vergognare, ammettelo di averli visti almeno una volta!) vi siete mai chiesti cosa succederebbe se i concorrenti portassero la competizione un filo più in là rispetto alla consueta sequela di strategie, bugie, alleanze, amorucoli e sotterfugi messi in atto?
Vi siete mai chiesti insomma cosa capiterebbe se uno dei personaggi si mettesse a uccidere gli altri?
È da uno spunto del genere che (forse) dev’essere partita l’idea di Battle Royale, diventato poi spunto e punto di riferimento neanche tanto velato di Hunger Games, romanzo diventato la pellicola super campione di super incassi dell’anno negli Usa e a breve in arrivo anche da noi.


Ambientato in un Giappone sottoposto a un regime totalitario immaginario, ma in cui è possibile intravedere echi del fascismo giapponese, una classe di terza media sorteggiata a caso tra tutte quelle del paese viene spedito, senza possibilità di replica, su un’isola. In quest’isola, tutti gli studenti sono costretti a scannarsi a vicenda fino a che non ne rimarrà soltanto uno. Come in Highlander.
L’unico studente che si salverà tornerà alla sua vita normale, potrà andare al liceo, sposarsi, avere figli che rischieranno di partecipare a una futura Battle Royale e si porterà questo piacevole ricordo per sempre dentro il suo cuore. Tutti gli altri moriranno. E se non si uccideranno a vicenda in questo gioco al massacro per la sopravvivenza, un congegno stretto intorno al loro collo li farà saltare per aria.
Perché, tutto questo?

Domanda che potremmo fare anche per quanto riguarda i reality-show. Perché esistono? Perché è nato Survivor, generando poi tutte le isole dei famosi e altre cazzate varie?
Belle domande.
Perché la vita in fondo altro non è che una lotta per la sopravvivenza, tanto per gli uomini quanto per gli altri animali. E questo “gioco”, come spiega un perfido Takeshi Kitano nel film, è la maniera migliore che gli adulti hanno deciso di impartire come lezione alle nuove generazioni.
Battle Royale ci mette davanti a una riflessione spinta al limite sui meccanismi di educazione, in maniera non troppo distante anche dal greco Kynodontas, così come sul contrasto tra vecchie e nuove generazioni. Inoltre, spinge a chiedersi cosa saremmo disposti a fare pur di sopravvivere. Domande del tipo: “Per sopravvivere, arriveresti a uccidere il tuo compagno di banco o persino il tuo migliore amico?”.
Facile capire perché un romanzo poi un manga poi un film del genere abbia creato tante polemiche.
Una storiona di quelle potenti e pazzesche ancora oggi a più di una decina d’anni di distanza dalla sua uscita.

Anche da un punto di vista cinematografico, Battle Royale è una pellicola di ottimo livello. Il regista Kinji Fukasaku, purtroppo scomparso nel corso delle riprese del non memorabile sequel del film, sa il fatto suo e sa dosare a dovere la violenza che esplode in scene ben più che splatter, con momenti dolci e delicati. La vecchia tecnica della carezza in un pugno. Notevole in proposito l’uso delle musiche. Anziché utilizzare, chessò, pezzi metal o techno per le scene più violente e concitate, Fukasaku propone brani di musica classica, creando un forte quanto efficace effetto di contrasto. Dolcezza VS violenza. Bambini VS adulti. Amore VS follia. Il contrasto: il grande punto di forza della riuscita di questo adattamento cinematografico.
Se proprio vogliamo trovare un limite al film, è quello di presentare troppi personaggi, troppe storie, risultando a tratti un po’ confuso. È qui che invece sta l’arma vincente escogitata da Suzanne Collins, l’autrice di Hunger Games, dove abbiamo una storia survival analoga, ma vista attraverso il punto di vista di una protagonista principale: la ragazza cacciatrice Katniss, un personaggione della Madonna, tra l’altro. Non che in Battle Royale non emergano comunque un paio di protagonisti, che infatti ci regalano i momenti emotivante più intensi di una visione che non è solo sangue sangue sangue e morte morte morte come si potrebbe immaginare. È molto di più.


La vita è un gioco. Battle Royale spinge questo assunto alle sue estreme conseguenze. Siete pronti ad affrontarle? Il consiglio è quello di recuperare, se non l’avete ancora fatto, questo cult nipponico assoluto. Perché ci sono pochi film in grado di catturare alla perfezione lo spirito dei tempi.
Battle Royale è uno di questi.
(voto 8/10)


È con enorme piacere che ospitiamo per la prima volta il ragazzo cannibale con una sua recensione inedita che inaugura la nostra sezione L'Ora Cult...

lunedì 16 aprile 2012

Siamo riusciti a non rompere le scatole...


conclusa la due giorni di Non Rompete le Scatole (in Villa..) ed ennesimo riscontro positivo verso le iniziative della nostra associazione. Questa volta però non eravamo da soli per cui ne approfittiamo per ringraziare Adriano Pasquali (Piscina Comunale - Spazio d'arte in copisteria), Riccardo Bianche e Fabrizio Fortini (b-artcontemporary, Fake Gallery), Giovanna Rossi, Silvia Caldarulo, l'Assessorato e l'Ufficio Cultura del Comune di Bollate e tutti coloro che si sono fermati ad ammirare le opere dei 140 artisti espositi e l'eposzione "I gioielli del riciclo".

domenica 15 aprile 2012

La mano e il cuore

Stavo in sella alle mie illusioni in un alba rosso prugna. Mi fermai in un area di servizio e feci colazione con un doppio caffè e brioche. Comprai una cartolina e in un angolo scrissi “Ti Amo”. Gliel’avrei spedita da qualche punto lungo il tragitto. Poco prima che andassi, lei mi disse, abbracciandomi: - Non mi spezza re il cuore, se puoi non farlo mai -. Guidavo e non riuscivo a dimenticare la su a ultima frase, era quella che mi rimbombava nella testa come una palla da biliardo: - Lo sai che il tempo prima o poi porta tutto alla luce, lo sai che è cosi.
Non fingere su questo neanche con te stesso -. Mi domandavo perché mai mi avesse detto quelle cose. Forse le mie ombre, i miei buchi erano visibili. La muffa sul mio cuore mi aveva sovrastato.Cosa mi era successo? Perché non avvertivo più quel segnale che mi aveva sempre messo in allerta? Avrei disinfettato e guarito definitivamente le mie ferite. Avrei tenuto fede ai miei propositi prima che, ancora una volta, fosse troppo tardi. Ma tutto ero stagnante. Mi guardavo come fossi un passante davanti ad una vetrina di un negozio che, gettata un occhiata veloce, proseguiva dritto per la propria strada. Un visitatore frettoloso di me stesso. Ecco cos’ero diventato. St. James Infirmary suonata da Allen Toussaint in “The Bright Mississippi” un disco che è un tributo ai grandi del jazz come Louis Armstrong, Sidney Bechet, Jelly Roll Morton, e Joe “King” Oliver, reggeva quei pensieri cullando i mie deliri.
La strada era rivestita dei sogni frantumati di tutti quei randagi che l’avevano attraversata. Mentre lo scenario che mi circondava toglieva il fiato, ebbi quasi paura che disturbassi quell’immensa bellezza con il mio passaggio. La strada era da sempre l’unico luogo dove riuscivo a fare chiarezza, sin da ragazzo era stato così. Sanguinavo sotto il cielo che era un tappeto di sogni usati, ma era anche il luogo da dove lei era sbucata tutto ad un tratto riempiendo la mia vita.
Dopo, lentamente si era trasfusa nelle vene e il muro era crollato. Adesso era l’essenza di tutti i miei sogni. Adesso avevo ricominciato a vivere dopo essere scivolato nel regno dei morti. Sistemo nel lettore il cd “One foot in the Ether” dei The Band Of Heathens che è un disco dove il gospel, il blues e certo funky&roll si attorcigliano come serpenti, alle tre voci dei leader che accompagnate da chitarre slide che sanno di polvere e fango si intersecano in canzoni avvolgenti che ti ronzano nelle orecchie fino a diventare appiccicose come le zanzare. L.A. Country Blues ha lo spirito fiero del rock di strada e germoglia di libertà narrando la storia dello scrittore Hunter S. Thompson morto suicida mentre era al telefono con la moglie. Ma in realtà assassinato per le sue inchieste dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle. Let Your Heart Not Be Troubled è una ballata alla Stones, Shine a Light un gospel con slide e organo e le voci che si inseguono, What’s this world è la canzone che Steve Earle non scrive più da quando ha lasciato il Sud e la Gibson. Ancora oggi pur in pellegrinaggio dal vecchio Hank Williams non gli gira più come un tempo. Torna indietro Steve! Say è un R&B che mi riporta alla mente i Semi-Twang di Salty Tears, ma anche gli ultimi arrivati Statesboro Revue. Ad eccezione di Look at Miss Ohio di Gillan Welch è tutta farina del sacco dei leader: Ed Jurdi, Gordy Quisty e Colin Brook. La luna sottile è un cerino pronto a dar fuoco al cuore di tutti i soul lovers che bazzicano ancora le terre cattive del rock e Golden Calf con il suo incedere voodoo è perfetta per andare incontro alla notte.
Cosa avrà provato il piccolo Willie Johnson quando quel liquido tossico lo accecò, cosa fece dopo che quel secchio da bucato gettato con rabbia durante una lite tra suo padre e la matrigna gli bruciò le pupille. Forse avrà corso con le mani sugli occhi piangendo per il dolore e la disperazione attraversando i campi di Marlin in Texas senza riuscire a fermarsi mentre il mondo si oscurava per sempre. Avrei voluto essere li e tenerlo forte, abbracciarlo sorreggerlo ed avrei pregato Dio in qualche modo affinché gli restituisse la vista. Avrei voluto esserci quando scisse “Dark was the night And Cold The Ground “ un blues strumentale che esprimeva il dolore la sofferenza, il bene e il male, con note raschiate sulle corde della chitarra da un coltellino usato come slide, mentre spargeva tutto il suo tormento. Avrei voluto vederlo suonare per strada mentre predicava, perché era nella fede che si era rifugiato per trovare ristoro ad una vita fatta di stenti e miseria. Avrei voluto conoscerlo ed essergli amico. “Gesù Cristo era un uomo e aveva viaggiato in lungo e in largo. Era un lavoratore coraggioso e instancabile. Diceva ai ricchi: “Date la vostra roba ai poveri”. Così hanno fatto il funerale a Gesù Cristo” (Jesus Christ - Woody Guthrie) Blind Willie Johnson si fece predicatore battista e iniziò a divulgare il credo per le strade del Sud. Era un abilissimo chitarrista, dal suo strumento traeva suoni limpidi e puliti che lo differenziavano da tutti gli altri bluesman che bazzicavano l’area del Delta. La sua musica era un misto di gospel blues e folk dai toni caldi e seducenti ed aveva un canto che scuoteva l’animo come un fuscello.
La sua voce, potente e roca ma velata di tristezza, era il suo grido profondo, per una vita durissima, che sapeva donare comunque consolazione a chi gli prestava ascolto. Willie, come tanti altri bluesman ciechi, si guadagnava da vivere suonando per le strade in cambio dell’elemosina. ”Well, who's that a-writing?/ John The Revelator/ Who's that a-writing?/ John The Revelator/ Who's that a-writing?/ John The Revelator/ A book of the seven seals ” (John the Revelator)
Quando conobbe Angelina, un’ex cantante gospel, si sposa e va a vivere a Dallas. Ed è in Texas che inizia ad incidere le sue canzoni, una trentina in tutto, che nel tempo diventeranno pietre miliari del blues. If I Had My Way, Let YourLlight Shine On Me, You’re Gonna Need Somebody On Your Bond, Motherless Children Have A Hard Time, Make Up Dying Bed. Canzoni spesso accompagnate dal controcanto di Angelina che diedero alla sua musica un fascino tutto particolare. Un uomo sensibile e toccato nel profondo dagli eventi ingrati che lo perseguitarono. Una vita passata nell’indigenza, dove solo la musica riuscì a lenire il suo profondo dolore, un musicista sincero e speciale, ma sfortunato, anche nell’orribile morte che fece. “Qualcuno qui mi può dire che cosa è l'anima di un uomo?/ Ho viaggiato in diversi paesi/ Ho viaggiato per terre straniere/Non ho trovato nessuno che mi dica che cosa è l'anima di un uomo.” (Soul of a Man). La sua casa andò in fumo e Willie Johnson, che non sapeva dove andare, restò a dormire tra quelle macerie. Quella sera il cielo lampeggiò e faceva un freddo cane. Si rannicchiò su se stesso e si addormentò. A testa in giù, nella fredda terra sprofondò. Quando Ry Cooder suonò Dark Was The Night nella colonna sonora di Paris Texas di Wim Wenders sono certo che ogni nota che ha centellinato, scolpito con la sua chitarra, è stata guidata dalla mano e dal cuore di Blind Willie Johnson.
Eccomi in cammino, con il tempo che mi spia, cercando di mettere in chiaro quello che non so. Ho le mani sudate e il cuore che mi martella mentre salgo le scale del Motel. Ho con me la mia piccola chitarra da viaggio, getto la sacca da marinaio sul letto e cerco la melodia per quei versi che da tutto il giorno mi frullano nel cervello: ”A meta strada sto tra le tue braccia/ correndo nella notte/ guidando contromano/ ho trovato la chiave/ Se piovono stelle vienimi vicino/ non guardarti indietro/ in fondo siamo vivi ed è quel che conta/ Trattieni il respiro/ manda giù la promessa/ non lasciamoci più/ non lasciamoci più/ non lasciamoci più/ Ci si abitua a tutto anche a morire/ Oggi come allora/ prendi la mia mano tienimi cosi/ Oggi come allora/ prendi la mia mano tienimi cosi.” (Come Allora) 
Il giorno dopo scrissi quelle strofe sulla cartolina e prima di ripartire la imbucai.

giovedì 12 aprile 2012

Counting Crows - Underwater Sunshine


Si, lo so, è l'ennesimo disco di cover, ultimamente ne escono a decine, e francamente non se ne può più. L'impressione è quella di essere innanzi ad un vuoto generazionale di creatività, come se ormai quasi più nessuno fosse capace di scrivere canzoni nuove, e affidarsi a un repertorio già collaudato fosse molto più produttivo (o meno richioso) di rilasciare un album originale. Però loro sono i Counting Crows, uno dei più grandi gruppi di americana di sempre, e meritano totale e incondizionata fiducia. Tra l'altro, queste sono cover di canzoni che prevalentemente non conosce nessuno. Certo, c'è un Dylan minore (You Ain't Going Nowhere), c'è un luminoso Gram Parsons (The Return Of The Grevious Angel) c'è la chiosa con il ripescaggio di The Ballad Of El Goodo dei Big Star, ma il restante lotto di canzoni è stato acciuffato per i capelli e salvato in extremis da un ingeneroso oblio. Tanto che i nostri eroi sono andati addirittura a ripescare brani scritti prima di divenire Counting Crows, quando portavano il nome disturbante di Sordid Humor (la convincente Jumping Jesus). Motivi di interesse, quindi, ce ne sono: non siamo di fronte al solito parco di cover consumate dal tempo e riproposte ad libitum da chiunque, ma a una scaletta che per certi versi suona quasi come quella di un disco originale. E soprattutto, c'è una band che sta vivendo una sorta di seconda giovinezza e che suona con voglia, quasi con smania. Il disco è autoprodotto e questo risulta decisamente un merito, dal momento che l'idea che sta alla base della produzione è quella di trasmettere la sensazione della presa diretta, della jam, del "buona la prima", degli strumenti sbrigliati. Il suono è quindi caldo, avvolgente, come se queste canzoni prendessero vita in un piccolo pub, dove la gente se ne sta gomito a gomito a bere birra e ad ascoltare musica, mentre fuori l'aria calda della notte coccola le sponde della San Francisco Bay. È da un pò che suonano dannatamente bene questi alfieri di un country rock venato di suggestioni soul e melodie decisamente pop. Lo si era già capi to ascoltando il cd dal vivo dello scorso anno, August & Everything After: Live At Town Hall, con cui i Counting Crows celebravano il ventennale d'attività, riproponendo per intero, e completamente riarrangiata, la scaletta del loro mitico esordio. Coloro che avevano amato quel live, magari anche con una lacrimuccia di malinconia ad accompagnare l'ascolto, non resteranno quindi delusi da questo nuovo Underwater Sunshine, nel quale, a parere di chi scrive, Adam Duritz ha fatto l'ennesimo salto di qualità come cantante, relegando a sfumature quelli che un tempo erano i suoi eccessi di teatralità, e misurando con sapienza tanto il timbro quanto il trasporto interpretativo. Certo, in fin dei conti,questo è solo un disco di Americana, non ci sono nè sorprese nè novità: il suono è quello consueto di una tradizione che, se riproposta con cura artigianale, sa ancora farci sognare spazi aperti, narrare l'epopea dell'on the road e riprodurre i colori di un'America provinciale, rurale e tecnologicamente arretrata. In questo, i Counting Crows sono dei maestri: convincono ed emozionano senza colpi di scena e artifici, limitandosi semmai a declinare con rinnovato entusiasmo una formula arcinota, ma che non mostra assolutamente il logorio del tempo. È proprio questo il motivo per cui Underwater Sunshine è un buon disco: è pregno di aromi e sapori antichi, evoca ricordi e nostalgie come se fosse un luogo a cui siamo affezionati e al quale amiamo tornare dopo un lungo viaggio. Dedicategli ripetuti ascolti, magari in cuffia e sorseggiando un bicchiere di corroborante bourbon. Non ne resterete delusi.

VOTO : 7


Scritto da Blackswan

mercoledì 11 aprile 2012

Non Rompete Le Scatole (in Villa...),
il catalogo

Mentre fervono i preparativi per la mostra di sabato ecco in anteprima il catalogo di Non Rompete Le Scatole (in Villa...)!



Vi aspettiamo!

venerdì 6 aprile 2012

Spy Rock a Bollate: il Carta Vetrata


Primo post extra attività de L'Orablù... ringraziamo Blackswan che ha scritto e pubblicato qualche giorno fa sul suo blog di Bollate e di un certo locale che ora non c'è più...

Bollate, centro urbano collocato a nord ovest di Milano, è la classica cittadina dormitorio, senza particolari attrattive (se si eccettua un noto mercatino dell’antiquariato), ma tutto sommato ancora a misura d’uomo. Nonostante l’anonima vita di provincia sia talvolta scossa da qualche fatterello di sangue (nulla al confronto delle limitrofe Quarto Oggiaro e Baranzate) e l’architettura del luogo (un pasticcio mal riuscito fra un paesone degli anni ‘70 e una periferia da cementificio selvaggio) non induca al buon umore, Bollate ha stranamente dalla sua una consolidata tradizione musicale. Appena fuori dalla cerchia cittadina, nel borgo medievale di Castellazzo, si svolge uno dei festival musicali più noti d’Italia, Il Festival di Villa Arconati, sul cui palco sono passati artisti del calibro di Paul Weller, Morrissey, Gogol Bordello, Damien Rice e Tinariwen, per citarne solo alcuni. Ma Bollate, agli inizi degli anni ’70, è anche stata la sede del Carta Vetrata, storico rock pub nel quale hanno suonato alcuni dei maggiori gruppi italiani (e stranieri) dell’epoca. Chi ha avuto modo di vedere il discusso film di Marco Tullio Giordana, Romanzo Di Una Strage, conoscerà per grandi linee la storia che sottende alla nascita della discoteca, visto che se parla con una certa insistenza durante le sequenze iniziali della pellicola.

Il locale nasce da un’idea di Enrico Rovelli (poi anche fondatore del Rolling Stones di Milano) che oltre ad essere un giovane con una grande passione per la musica, nel 1969 era molto attivo politicamente, dal momento che bazzicava gli ambienti anarchici milanesi e in particolare il circolo della Ghisolfa, a cui faceva capo la figura del povero Pino Pinelli. Senza entrare nel merito di una ricostruzione storica assai farraginosa e molto controversa, è lo stesso Rovelli (che come informatore prese il nome in codice di Anna Bolena) a sostenere di essere stato ricattato prima dal commissario Calabresi e in seguito dai Servizi Segreti, che pretendevano delazioni sulle sue frequentazioni politiche in cambio del rinnovo periodico della licenza per il locale. Sulle natura delle informazioni passate dal Rovelli alle forze dell’ordine si possono fare solo delle ipotesi (vedi anche il flm poc’anzi citato), ma certamente dovevano essere state tali da consentirgli una florida gestione del locale per parecchi anni. Nonostante mi sia prodigato in ricerche sul web, le notizie a proposito del Carta Vetrata sono pochissime e frammentarie, ed è stato impossibile rinvenire foto dell’epoca (le immagini che ho trovato sono tutte recentissime e risalgono ai mesi immediatamente precedenti alla demolizione dello stabile, sede della discoteca).

Da quel poco che sono riuscito a mettere insieme, il locale per qualche anno fu il classico ritrovo di tendenza per i giovani rockers milanesi, dal momento che non solo sul suo palco fecero la gavetta alcuni dei più grandi gruppi e artisti italiani degli anni ’70  PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Lucio Dalla, Antonello Venditti), ma si esibirono anche stelle di prima grandezza dello star system internazionale (ho trovato un riferimento certo a un live act dei Van Der Graaf Generator tenutosi il 1 giugno 1973, mentre sembrano assolutamente privi di fondamento  quelli relativi a un concerto dei Genesis e a uno dei Deep Purple).

Ultima annotazione di colore : nel 1996 è uscito uno spettacolare cofanetto della PFM, intitolato 10 Anni Live 1971 – 1981, contenente quattro cd che testimoniano di quattro diversi tour intrapresi dal gruppo nel decennio  a cui si riferisce il titolo. Il primo cd è relativo al tour italiano tenutosi fra il 1971 e il 1972 e contiene parecchi brani suonati proprio al mitico Carta Vetrata ( ci sono anche una Bollate Guitar Jam e una Bollate Keyboard Jam ). Da quel che mi sembra di capire, ma non ho alcuna certezza in merito, la discoteca cessò la propria attività più o meno nel 1981, quando l’attenzione di Rovelli si concentrò tutta sull’allora nascente Rolling Stones.
Aggiungo questo video ( ma è solo un file musicale ) n cui la PFM si esibisce al Carta Vetrata con una versione, a dire il vero non imperdibile, di My God dei Jethro Tull.