la sua lettera ha suscitato in me una vera emozione perché, attraverso quella lettera, ho rivisto me stesso a quattordici o quindici anni, nella grigia Lima della dittatura del generale Odría, esaltato dall’illusione di potere, un giorno o l’altro, diventare scrittore, e depresso da non sapere in quale direzione muovermi, da come cominciare a cristallizzare in opere quella vocazione che sentivo come un mandato perentorio: scrivere storie che abbagliassero i lettori come io ero stato abbagliato da quelle degli scrittori che cominciavo a collocare nel mio pantheon privato.”
Inizia così l’immaginaria corrispondenza tra uno scrittore famoso e un giovane aspirante scrittore che trova il coraggio di chiedergli un consiglio. Inizia così Lettere a un aspirante romanziere, e prosegue per un totale di dodici lettere che Mario Vargas Llosa scrive in risposta alle (altrettante? non lo sappiamo) lettere del giovane amico, rivelando man mano quanto la forma epistolare sia efficace per veicolare indicazioni teoriche, altrimenti alquanto noiose, sullo scrivere romanzi e racconti, ovvero opere di fantasia che coinvolgano il lettore come se le vivesse realmente.
Il libercolo si potrebbe dire diviso, non visibilmente, in due parti la seconda delle quali, più tecnica, è quella che viene resa digeribile dalla forma epistolare, la quale salva il lettore dal tedio di etichette e definizioni teoriche, pur non comprendendo mai, nella sostanza, informazioni di carattere personale non funzionali alle spiegazioni: si tratta pur sempre di lezioni e consigli pratici per corrispondenza. Si parla infatti di punto di vista temporale, di punto di vista spaziale, addirittura di punto di vista del livello di realtà, e dei loro spostamenti più o meno visibili all’occhio nudo del lettore, spostamenti che sono appunto più efficaci quanto meno riconoscibili e individuabili: un banale passaggio dal racconto del narratore ad un botta e risposta senza nulla aggiungere alle battute dei personaggi, ad esempio, rappresenta uno “spostamento del punto di vista spaziale”, ossia dal punto di vista del narratore a quello dei personaggi, e per mettere in pratica questo “spostamento” è sufficiente eliminare gli incisi, quegli “egli rispose” oppure “ella esclamò all’improvviso” oppure “e poi rimasero in silenzio” che spesso accompagnano i discorsi messi nero su bianco. La cosa sembrerebbe quindi più complicata rispetto alla banale e famosissima distinzione tra narratore “esterno” e narratore “interno alla storia”, perché una volta individuato un narratore, non è ancora detto che sarà lui l’unico ad avere voce in capitolo in tutta la storia.
Nella prima parte del libercolo (e sono 120 paginette indice dei nomi compreso) Vargas Llosa parla invece del seme, ovvero da cosa nasce non solo un romanzo ma anche, e prima di tutto, l’esser romanziere. Ad esempio può essere molto utile avere, sin da piccoli, una vita di merda, perché la necessità di ribellarsi e di evadere dalla vita reale, stimola la fantasia tramite il bisogno di fantasticare su un mondo migliore, che sia un’alternativa ma anche una critica a ciò che si vive. Si entra così in un circolo vizioso, che ora vi spiego a parole mie: l’utilità conclamata di questo fantasticare ai fini del miglioramento dell’umore del fantasticante spinge lo stesso a fantasticare ancora e ancora, e a mettere nero su bianco queste sue fantasie, e lo scriverle a sua volta alimenta l’entusiasmo del fantasticante scrivente, che dall’entusiasmo così alimentato è spinto a scrivere ancora, e ad un certo punto, quasi senza rendersene conto, lo scrivente sarà ormai un fantasticante schiavo imperituro della scrittura. Tutta la sua vita ruoterà infatti attorno alla scrittura, non nel senso di tempo messo a sua disposizione anziché a disposizione della vita in sé, né intesa come atto dello scrivere costituente il nucleo attivo della vita stessa, ma nel senso che ogni gesto, ogni pensiero, ogni avvenimento diventerà funzionale alla scrittura: scrittura intesa come scrigno in cui quegli eventi verranno custoditi, esposti, trasformati.
Trasformati, sì, perché è questo che fa un romanziere: nessuno può partire dal nulla, ogni scrittore parte da fatti che ha sperimentato sulla propria pelle, ma li trasforma, fantasticandoci su a tal punto che, alla fine della storia, neppure lui sarà più in grado di dire quale fosse l’evento originario né quale fosse la sua versione originale. E in fondo un vero romanziere non cerca il successo, perché tutto ciò di cui ha bisogno per vivere è proprio trasformare in storie episodi della sua vita che, a voler essere ottimisti, son banali. Il bravo romanziere non cerca un argomento che abbia successo di pubblico, perché mostrerà bravura solo scrivendo di qualcosa che gli esce spontaneamente dalla penna perché lo conosce, ma la verità è che nessun argomento in sé è buono, è come viene raccontato che fa la differenza: e infatti, come vi dicevo, anche questo libercolo sarebbe noioso se a Vargas Llosa non fosse venuta in mente la forma epistolare – che sia partito da un’esperienza personale? da una lettera che avrebbe voluto trovare il coraggio di scrivere “a quattordici o quindici anni, nella grigia Lima”?
Ciò che si racconta e come lo si fa sono fra loro indivisibili, eppure la loro unione è efficace solo quando invisibile: l’efficacia delle parole, della struttura, dei meccanismi interni sta proprio nel mescolare queste componenti così bene fra loro da far dimenticare al lettore che una storia è fatta anche di questo. A tal proposito ho trovato esaustivo, nella sua semplicità, un brano nel romanzo che leggevo contemporaneamente a questo libro, Bambini nel tempo di Ian McEwan: “Pensate con quanto piacere un bimbo […] si abbandona completamente al fascino di un romanzo di avventure. Quel che vede non sono parole, segni di interpunzione o regole grammaticali, ma la barca, l’isola, il losco figuro che si nasconde dietro la palma”. Un vero romanziere, pertanto, deve conoscere la grammatica della lingua in cui scrive, deve avere fantasia da ricamatrice annoiata, deve conoscere i meccanismi narrativi e saperli usare con efficacia. Un fatto omesso è solo un dato mancante, ma se sfruttato sapientemente, se messo al confine tra il detto e il non detto, se lasciato trasparire qua e là, può diventare il motore di tutta la storia, l’unico motivo per il quale il lettore, che a sua volta ha fantasia e immagina e suppone, desidera continuare a leggere quella storia. Il racconto ad incastro può essere una snervante divagazione dal filo oppure un gioco intrigante di trame che crea dipendenza, costringendo il lettore a proseguire nella lettura, desideroso solo di scoprire come andrà a finire e incurante del fatto che, se interrogato, non saprebbe dire in che modo è arrivato al punto della storia in cui si trova in quel momento, ripeterà solo “è magnifico, questo romanzo è magnifico!”, e tutto ciò dipende dal talento del romanziere.
Ah, già, il talento. E per il talento come si fa? Non basta avere fantasia, non basta conoscere la grammatica, non basta padroneggiare le etichette, infatti per amalgamare il tutto in maniera sapiente ed efficace è necessario avere del talento. La risposta di Vargas Llosa apre e chiude il libro. Il segreto del talento scrittorio è quanto di più banale possa esistere, così banale che non ci si crede finché non lo si prova: disciplina e perseveranza, è questo il segreto di un bravo romanziere, perché “nessuno può insegnare a un altro a creare, ma tutt’al più può insegnargli a leggere e scrivere. Il resto, ognuno lo insegna a se stesso inciampando, cadendo e rialzandosi, incessantemente”.
Elle
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