Quando studiavo
all’università, avevo messo a punto un delicato e geniale metodo per
spendere soldi in libri. Poco male, verrebbe da dire, i libri son
cultura, son soldi spesi bene. Se se ne hanno in quantità dimostrabili,
sì. Il mio metodo aveva dalla sua una semplicità che non era visibile a
occhio nudo, perché sottostava a complicati calcoli inutili, infatti a
me bastava leggere il programma per innamorarmi di un corso e decidere
di comprare subito tutti i libri in bibliografia, dopo aver
opportunamente calcolato se in quei giorni a quell’ora avrei potuto
frequentare le lezioni, e se fosse possibile scegliere orari solo
pomeridiani, salvo scoprire che quel corso era assolutamente
incompatibile col mio piano di studi, per meri motivi burocratici, o che
quell’esame avrei potuto darlo non prima del terzo anno, tanto valeva
aspettare il terzo anno e la pubblicazione del nuovo programma del
corso, con conseguente nuova bibliografia. E così ben presto mi ritrovai
con un bel po’ di testi interessantissimi,
complice non tanto l’Amore per i libri, personcina volubile, quanto il
Senso del Dovere, compagno di bevute da sempre, che mi porta ancora oggi
a prevenire anziché aspettare conferma, e conseguentemente a fare
acquisti non necessari di interessantissimi testi che però finora non
avevo mai letto, scippata del tempo necessario sempre da qualcosa di più
importante a cui dedicare la mente. In altri casi mi son trovata invece
a depennare un insegnamento dal mio piano di studi ad un passo dal dare
l’esame, perché purtroppo il docente di cui seguivo il corso, programma
allettante a parte, era risultato essere quanto di più fossilizzato e
noioso il sottobosco universitario potesse offrire, impossibile anche
solo pensare di preparare un esame con lui, anzi per lui, perché è questo che distingue un docente in cattedra da uno in gamba, cosa
che però si può scoprire solo seguendo le lezioni, comprando il libro,
leggendolo, e notando che quelle lezioni un po’ fredde, sì, e impostate,
è vero, non sono altro che il riassuntino liceale, con le stesse
parole, ma in numero inferiore, dei capitoli del libro, peraltro l’unico
in bibliografia, ovvero: 25 euro di libro, per non parlare della tassa
universitaria, per farmi fare i riassuntini dalla docente, una tipa
laureata in Lettere, e pertanto convinta del fatto che noi studenti
universitari, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per il sistema scolastico
scadente che ci fa arrivare impreparati all’università, non siamo in
grado di riassumerci un libro
da soli, cosa peraltro inutile ai fini dell’apprendimento. Il programma
allettante offriva anche la possibilità di costruire il proprio esame
scegliendo un testo per ogni genere da una lista di romanzi, racconti,
novelle e poesie della letteratura tedesca, di per sé ingovernabile, per
quanto riguarda il gusto macabro per le periodizzazioni, le quali a
loro volta, per quanto riguarda il mio gusto, sono il motivo per cui a
me in fondo la letteratura da studiare non andava molto a genio,
preferivo leggere romanzi, racconti, novelle, e poesie per il piacere di
leggerle e non per quello di riuscire ad etichettarle, ma così
funzionano gli studi, e se uno vuole laurearsi, deve accettare le
etichette, io infatti non mi sono laureata, ma ho con me un bel bagaglio
di libri. Perciò, dopo anni da questo episodio, mi sono ritrovata in
casa un libro di Heinrich von Kleist, del quale so solo che, se lo
comprai, fu perché in qualche modo mi aveva affascinata più di altri
presenti nella lista, spingendomi a sceglierlo per il mio esame, che mai
diedi. Nel libro di Kleist in mio possesso sono contenuti due racconti,
La marchesa di O… e Michael Kohlhaas.
Ora, io dei sue protagonisti, la marchesa e Kohlhaas, non so chi sia il
più sfigato, ciò che so è che, se si vuole leggere sul treno mentre si
va e si torna dal lavoro, questo non è il libro adatto, perché non c’è
un punto in cui tenere il segno, allo stesso tempo credo che se l’avessi
letto a casa nel mio giorno di riposo, forse non avrei fatto caso alla
sua caratteristica più importante: è scritto tutto d’un fiato, con pochi
accapo, punti sì, ma senza esagerare, virgole e punti e virgole a iosa,
nessuna divisione interna in paragrafi, nemmeno un capoverso che sia
uno, naturalmente nessun discorso diretto a meno che non sia mescolato
all’indiretto, ossia: il discorso inizia coi due punti, a volte seguiti
da virgolette, ma è riportato alla terza persona come discorso
indiretto, almeno nel Michael Kohlhaas, perché ne La marchesa di O… nemmeno
questo, insomma nemmeno aperte virgolette, via una frase dopo l’altra a
botta e risposta dove è lecito supporre chi abbia detto cosa, come
anche sbagliarsi e dover rileggere d’accapo, perché neanche la
punteggiatura classica, punto pausa forte, virgola pausa debole, viene
in aiuto, punto dove capita, virgola se va bene, punto all’interno della
stessa voce, virgola a separare domanda della madre e risposta della
figlia, quasi fosse un tentativo maldestro di stenografare in tempo
reale un dialogo, nonostante la situazione sia così straordinaria che mi
è lecito dubitarne. Io giuro, poiché ciò nonostante c’è bisogno di una
dichiarazione, che la mia coscienza è pura come quella dei miei figli;
la vostra, onoratissima madre, non può essere più pura. Tuttavia vi
prego di lasciarmi chiamare una levatrice, perché io mi convinca di ciò
che è e poi mi tranquillizzi, indipendentemente da che cosa
sia. Una levatrice! esclamò la signora di G… avvilita. Una coscienza
pura e una levatrice! e la voce le mancò. Una levatrice, madre
carissima, ripeté la marchesa, inginocchiandosi davanti a lei, e in
questo stesso istante, altrimenti diventerò pazza. Oh, molto volentieri,
ripeté la moglie del comandante; solo ti prego di non partorire in casa
mia. E con questo si alzò e fece per lasciare la stanza. […] Non
abbandonatemi in questo momento terribile! Che cosa ti inquieta? chiese
la madre. Non è nient’altro che il verdetto del medico? Nient’altro che
una sensazione interiore? Nient’altro, madre mia, replicò la marchesa, e
si portò la mano al petto. Niente, Giulietta? continuò la madre.
Rifletti. E noi che leggiamo riflettiamo concentrati, almeno per capire
chi è la stessa persona di chi, cioè abbiamo la marchesa, la signora di
G, Giulietta, la moglie del comandate, la madre e la figlia, che in
totale fanno due persone che parlano dello stato interessante della
figlia, che è davvero interessante perché lei stessa non saprebbe dire
come sia rimasta incinta, eppure di figli ne ha già due, dovrebbe sapere
come si fanno i bambini, anzi è proprio perché lo sa, che crede di
diventare pazza, la mamma non è che le creda molto, ma è così, intanto
discutono e poi fanno pace e oltre a costruzioni classiche delle frasi
ce ne sono altre che, per forma e significato, sono ancora attuali,
anche se il materiale che le compone è d’epoca: la marchesa cercava di
consolarla con implorazioni e carezze senza fine: ma giunse la sera e
batté mezzanotte prima che le riuscisse, da cui si può notare anche
l’uso dei due punti dove una virgola andava bene, e da cui si immagina
che non sia il caso di ripetere all’infinito i loro botta e risposta,
passiamo al giorno dopo. Nell’insieme infatti, questo stile senza sosta
apparente, è la quintessenza del riassunto veloce ma esaustivo, che fa
passare i giorni e le notti, snocciolando uno dopo l’altro gli
avvenimenti senza perdersi in chiacchiere o, se sì, senza perdersi in
due punti aperte virgolette. Altre espressioni, altrettanto esaustive,
colgono di sorpresa, perché non sembra un racconto che possa contenere
un po’ di poesia, nonostante non arrivi mai ai livelli di un giuramento
davanti al giudice, per questo, il loro cuore batteva talmente forte che
se il fruscio del giorno avesse taciuto, lo si sarebbe sentito, giunge
inaspettato nel bel mezzo di un resoconto. La storia ha di bello, a
parte questo, che quando finisce lascia aperta la via non al finale,
perché quello c’è, ma all’interpretazione che, se non avessi letto
quella bastarda di prefazione, io non so se avrei condiviso perché credo
che a me sarebbe sembrato altro, o forse senza suggerimento,
semplicemente sarei stata più attenta. Per evitare di ripetere l’errore,
non ho letto la postfazione relativa al secondo racconto prima di
leggere il secondo racconto, quello che parla di un certo Kohlhaas e
delle sue disavventure che, devo dire, una dopo l’altra ad un certo
punto cominciavano a sembrare troppe anche a me, che verso Kohlhaas ero
ben disposta, certo un po’ se le andava a cercare ottusamente, un altro
po’ si aggiungevano quasi a voler dire che ad esagerare poi si paga e
agli occhi di tutti si diventa cattivi, ma così sfioro l’interpretazione
scolastica e moralista che avrebbe fatto la docente liceale laureata,
quindi passo oltre perché gli spunti interessanti non mancano, e non si
tratta della mancanza di “colori allusivi e simbolici […] tipici della
prosa romantica tedesca” come dice nelle prime righe la postfazione,
quella che sono riuscita a trattenermi dal leggere giusto in tempo, ma è
semmai il carattere buono e buonista del protagonista ad attirare
l’attenzione, dell’aspetto buono del suo carattere ci viene detto
chiaramente, l’aspetto buonista lo supponiamo noi perché si parla di
scandali e ingiustizie per cose che potrebbero sembrare da poco, eppure
anche al mercante di cavalli Kohlhaas può salire il sangue alla testa, e
gliene fai una e gliene fai due, e gli ammazzi i cavalli e gli ammazzi
la moglie, alla fine al mercante il cuore batteva contro la giubba.
Aveva voglia di gettare lo spregevole trippone nel fango e di premere il
piede sulla sua faccia di bronzo. Ma il suo senso della giustizia, che
assomigliava al bilancino di un orefice, esitava ancora; e sbuffare è
facile, fallo, dagli almeno un pugno, verrebbe da urlargli, ma niente,
finché il gran giorno arriva, quello in cui Kohlhass, il mercante di
cavalli, riscatta tutti gli sfigati che nella vita hanno avuto a che
fare con colleghi coglioni, che chiamarli colleghi è un’offesa al mondo
del lavoro onesto, infatti entrando nella sala Kohlhaas prese per il
petto un nobiluomo, che gli andava incontro e lo scaraventò in un angolo
della sala così che battendo contro la pietra il cervello ne schizzò
fuori. Come se non bastassero la carenza di punti fermi, l’assenza di
accapo e di paragrafetti, ecco che anche la sintassi ci giura che la
vita non aspetta e non è semplice, il principe elettore, che a quelle
parole il nobiluomo aveva guardato sgomento, si volse arrossendo in
tutto il volto e andò alla finestra, dove le parole che provocano
sgomento nel nobiluomo sono del principe elettore, al quale si rivolge
appunto lo sguardo sgomento del nobiluomo, non lo stesso che prima è
stato scaraventato a terra, perché con il cervello di fuori non avrebbe
potuto indirizzare uno sguardo sgomento a chicchessia, è chiaro. Da un
certo punto in poi si discute appunto di questa violenza inaudita, e
dell’opportunità di lasciar circolare Kohlhaas liberamente, e a tal
proposito giunge una risposta governativa del seguente tenore: “la sua
richiesta di lasciapassare per Kohlhassenbrück
sarebbe stata sottoposta al serenissimo Principe Elettore; non appena
giungesse la di lui altissima autorizzazione, gli verrebbero inviati i
lasciapassare”, dove il contenuto indiretto è presentato formalmente
come diretto, tramite i due punti aperte virgolette che ogni tanto, in
questo secondo racconto, fanno capolino, cosicché appena ci si abitua a
questa forma, la lettura prosegue liscia e senza pause, come previsto
dall’assenza di accapo. La presa di distanza verbale all’interno del
discorso riportato, nonché la stessa forma del discorso riportato sono
segnali che ci insinuano il dubbio che si tratti di una storia che
l’autore semplicemente riporta così come l’ha sentita, come quando gli
spedì un uomo con una lettera del seguente tenore, scritta in un tedesco
appena comprensibile: “Se voleva venire nell’Altenburg a riprendere la
guida della banda…” e così via, e alla forma si aggiungono aperte
dichiarazioni a ricordarci che il racconto è vero, “da un’antica
cronaca”, diceva infatti il sottotitolo!, ma poiché non sempre la
verosimiglianza cammina al fianco della verità, accadde che si era
verificato quello che adesso racconteremo: ma dobbiamo concedere la
libertà di dubitarne a chiunque lo desideri: il ciambellano aveva
commesso il più terribile degli errori, frase che conferma che Kohlhaas
era sfigato all’inverosimile, però non preoccupiamoci di dove si recasse
effettivamente e se si fosse diretto a Dessau, perché le cronache che
abbiamo messo a confronto per questa relazione su questo punto si
contraddicono e si annullano reciprocamente in modo singolare,
affermazione, questa, che diventa più frequente più avanti nel racconto,
come dire che mentre Kohlhaas faceva il bello e il cattivo tempo,
abbiamo dati certi, immagino i racconti popolari, quando si tratta di
ricostruire i passaggi storici, prevalgono invece i dubbi, infatti
Kohlhaas incontra la Storia, nella persona di Lutero, che entra in
contatto con lui con una lettera autografa, senza dubbio molto notevole,
che però è andata perduta. Nell’ultima parte del racconto, infine,
arriva un elemento magico e misterioso a spezzare l’avventura
rocambolesca di Kohlhaas, e attorno a questo mistero, che non sto a
dirvi se valesse la pena svelare oppure no, si attorcigliano gli ultimi
fili del racconto, portandoci fino ad un passo dalla conclusione con un
ulteriore lettera che ci lascia col fiato sospeso, e una scena che molti
film a colori hanno copiato, ossia quella in cui qualcuno in fin di
vita sta per rivelare un grande segreto, ma muore prima di finire la
frase: nei film di solito dà inizio alle peripezie del protagonista,
oppure, nel mezzo del film, gliele complica, oppure, nelle telenovele,
aggiunge un migliaio di puntate e non verrà mai svelato perché nel
frattempo ci si dimentica di quella mezza frase, con buona pace degli
autori che in realtà la fine non l’avevano mai pensata, in ogni caso non
sarebbe servita perché la persona morta a metà della frase resuscita
almeno due volte nelle mille puntate successive, mentre in questo
racconto nessuno muore a metà della frase, anche se forse qualcuno
resuscita, perciò Kohlhaas, girandosi estremamente turbato verso il
custode, gli chiese se conoscesse la strana donna che gli aveva
consegnato il biglietto. Tuttavia il custode rispose: “Kohlhaas, la
donna…” e si fermò stranamente in mezzo alla frase, egli, trascinato via
dal corteo che in quel momento si mise in moto, non poté capire cosa
disse l’uomo, che sembrava tremare in tutto il corpo, cioè dopo pagine e
pagine di cavilli giudiziari, pendenze, amnistie, pene e colpe, ecco un
piccolo tocco di vita che viene bloccato sul nascere, e siccome si
tratta dell’unica volta, a parte un racconto lungo che fa Kohlhaas in
risposta ad una domanda, in cui le virgolette indicano un discorso in
cui l’interrogato risponde direttamente al suo interlocutore a parole
sue, chiamandolo addirittura per nome e arrivando al dunque, credo che
Kleist si sia preso paura di questo azzardo e non abbia concluso la
frase per pura ansia da prestazione, il racconto continua pertanto in
terza persona, ma a quel punto Kohlhaas e l’uomo che aveva visto la
donna vengono separati dalla folla, e anche se un’idea ce la siamo
fatti, noi ancora non possiamo esser messi a parte del segreto.
La marchesa di O… / Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, tradotto da Silvia Bortoli (introduzione di Dacia Maraini, postfazione di Silvia Bortoli)
Citazioni dai due racconti.
da La marchesa di O…:
1)
“nonostante la situazione sia così straordinaria che mi è lecito
dubitarne. Io giuro, poiché ciò nonostante c’è bisogno di una
dichiarazione” ecc.. fino a “rifletti”;
2)
“la marchesa cercava di consolarla con implorazioni e carezze senza
fine: ma giunse la sera e batté mezzanotte prima che le riuscisse”;
3) “il loro cuore batteva talmente forte che se il fruscio del giorno avesse taciuto, lo si sarebbe sentito”;
da Michael Kohlhaas:
4) “al mercante il cuore batteva contro la giubba” ecc.. fino a “esitava ancora”;
5)
“entrando nella sala Kohlhaas prese per il petto un nobiluomo, che gli
andava incontro e lo scaraventò in un angolo della sala così che
battendo contro la pietra il cervello ne schizzò fuori”;
6)
“il principe elettore, che a quelle parole il nobiluomo aveva guardato
sgomento, si volse arrossendo in tutto il volto e andò alla finestra”;
7) “giunge una risposta governativa” ecc.. fino a ”gli verrebbero inviati i lasciapassare”;
8) “spedì
un uomo con una lettera del seguente tenore, scritta in un tedesco
appena comprensibile: ‘Se voleva venire nell’Altenburg a riprendere la
guida della banda…’”;
9) “ma poiché non sempre la verosimiglianza” ecc.. fino a ”il più terribile degli errori”;
10) “non preoccupiamoci di dove si recasse” ecc.. fino a “in modo singolare”;
11) “con una lettera autografa, senza dubbio molto notevole, che però è andata perduta”;
12) “Kohlhaas, girandosi estremamente turbato” ecc.. fino a “sembrava tremare in tutto il corpo”.
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