L'Apprendista Mago uscì di corsa, il viso stravolto dall'urgenza e in testa un unico pensiero: salvare il mondo dalla distruzione. Poteva sembrare allarmismo puro, ma il Libro Magico aveva parlato chiaro: il Principe del Bene stava per essere ucciso e l'Apprendista Mago doveva assolutamente impedirlo. Sulle prime, a dir la verità, quando il Libro Magico gli aveva mostrato il futuro, l'Apprendista Mago aveva pensato subito: roba da film. Ma lentamente tutti i pezzi erano andati al loro posto e gli avvenimenti dei giorni precedenti gli avevano permesso di confermare quell'unica verità: il Principe del Bene stava per essere ucciso in un complotto che avrebbe permesso al Male di prendere possesso del mondo, e questo sarebbe equivalso alla fine del mondo stesso. L'Apprendista Mago doveva assolutamente impedirlo!
giovedì 31 maggio 2012
mercoledì 30 maggio 2012
Un giorno questo dolore ti sarà utile
"È vero cosa?” ha chiesto. “Che sono disturbato”. Pensavo al significato di questa parola, e che cosa volesse dire veramente, come quando si disturba la quiete o la televisione è disturbata. O quando ci si sente disturbati da un libro o da un film, o dalla foresta vergine che brucia… O dalla guerra in Iraq.”
Con alcuni libri succede. Te li ritrovi in mano alla fine del tuo giretto tra gli scaffali della libreria, o nel tuo cestino virtuale nella tua libreria on-line. E solo una volta a casa prendi coscienza che non hai la minima idea del perché tu abbia fatto quell’acquisto. Leggi il titolo e ti rendi conto che non è il momento, forse, di iniziare una lettura così. “Un giorno questo dolore ti sarà utile”. Immaginavo di trovarmi sepolta sotto un mare di disastri, tra quelle righe. Problemi, ostacoli, impedimenti e tormenti per il nostro protagonista iper analitico. Una lettura del genere presuppone, per il lettore che si appresta a cimentarsi nell’impresa della lettura, uno stato d’animo placido. Privo di quegli scossoni emotivi che, ahimé, nel mio caso erano più che presenti. Quindi da ottobre questo libro è stato a gurdare il flusso dei miei giorni dal ripiano più alto della mia libreria. Mi sono decisa a leggerlo solo prima di natale. L’ho infilato in valigia insieme ad altri due libri. Due letture “leggere” e senza strazi. Che compensassero la pesantezza di queste duecentoseipagine.
Ed è stato adorabile scoprire, con disappunto e meraviglia, che i miei erano solo pregiudizi infondati.
James, il protagonista, è uno di quei ragazzi che avrei tanto voluto conoscere. Anima sensibile e fragile, nascosta dietro ad un sarcasmo brillante e ad una pungente ironia.
Si racconta di lui, questo giovanissimo newyorkese, e delle disavventure appena accennate di una famiglia che Cameron ci svela piano piano, con la spontaneità di un respiro, man mano che gli altri personaggi inciampano sui giorni del protagonista. Nessun dramma, solo le sofferte- a tratti – elucubrazioni mentali di un giovane ragazzo parecchio sensibile e intelligente, taciturno e solitario, che preferisce star solo piuttosto che ritrovarsi tra persone con le quali non condivide neanche gli starnuti. E in una società che rifugge la solitudine come un male mortale, non stupisce che venga considerato disadattato e disturbato.
Lo stile di questa meraviglia di libro è ben calibrato. I periodi sono brevi, concisi, diretti. Cameron arriva dritto al punto, stimolando il lettore. La qualità e lo spessore sono discrete, e la proprietà di linguaggio è notevole. Un romanzo equilibrato fin dal primo capitolo. Le descrizioni delle persone, degli oggetti, dei paesaggi sono tutte molto ben calibrate. Non eccedono nel dettaglio e non sono troppo generiche. Lo scrittore è come se abbozzasse un disegno, facendoti intravedere i contorni e le sfumature, ma lasciando all’immaginazione di chi legge riempire i contorni e scegliere i colori. Fa pensare ad un quadro in via di lavorazione. Quel work’n progress che ti fa avere voglia di girare pagina per scoprire come prenderà forma l’opera. E facendo nascere comunque anche la necessità di appoggiare sul comodino il libro per metabolizzare i pensieri dei personaggi e per aprire google alla ricerca di informazioni per gli input lanciati da chi scrive.
Anche i flashback sono disseminati tra le pagine alla perfezione, e rendono lineare il racconto grazie all’espediente della data a inizio di ogni capitolo. Una sorta di romanzo epistolare che ci fa entrare subito in intimità con il protagonista della storia, che ci parla con una schiettezza notevole, come fossimo custodi di un grande segreto. Lui, silenzioso e riservato, fragile e spaurito, che usa il sarcasmo come spada verso un mondo e una società che sente ostile, al giro di boa della sua crescita, che si pone verso il lettore con disarmante onestà. Anche a rischio di sembrare presuntuoso. Cameron riesce nell’impresa di creare la catarsi. E come prima prova per uno scrittore direi che ci siamo e come. Solo una parola da dire: APPLAUSI.
Harley Queen
Ps. Grazie mille Harley Queen e benvenuta fra le firme che compongono questo blog.
Con alcuni libri succede. Te li ritrovi in mano alla fine del tuo giretto tra gli scaffali della libreria, o nel tuo cestino virtuale nella tua libreria on-line. E solo una volta a casa prendi coscienza che non hai la minima idea del perché tu abbia fatto quell’acquisto. Leggi il titolo e ti rendi conto che non è il momento, forse, di iniziare una lettura così. “Un giorno questo dolore ti sarà utile”. Immaginavo di trovarmi sepolta sotto un mare di disastri, tra quelle righe. Problemi, ostacoli, impedimenti e tormenti per il nostro protagonista iper analitico. Una lettura del genere presuppone, per il lettore che si appresta a cimentarsi nell’impresa della lettura, uno stato d’animo placido. Privo di quegli scossoni emotivi che, ahimé, nel mio caso erano più che presenti. Quindi da ottobre questo libro è stato a gurdare il flusso dei miei giorni dal ripiano più alto della mia libreria. Mi sono decisa a leggerlo solo prima di natale. L’ho infilato in valigia insieme ad altri due libri. Due letture “leggere” e senza strazi. Che compensassero la pesantezza di queste duecentoseipagine.
Ed è stato adorabile scoprire, con disappunto e meraviglia, che i miei erano solo pregiudizi infondati.
James, il protagonista, è uno di quei ragazzi che avrei tanto voluto conoscere. Anima sensibile e fragile, nascosta dietro ad un sarcasmo brillante e ad una pungente ironia.
Si racconta di lui, questo giovanissimo newyorkese, e delle disavventure appena accennate di una famiglia che Cameron ci svela piano piano, con la spontaneità di un respiro, man mano che gli altri personaggi inciampano sui giorni del protagonista. Nessun dramma, solo le sofferte- a tratti – elucubrazioni mentali di un giovane ragazzo parecchio sensibile e intelligente, taciturno e solitario, che preferisce star solo piuttosto che ritrovarsi tra persone con le quali non condivide neanche gli starnuti. E in una società che rifugge la solitudine come un male mortale, non stupisce che venga considerato disadattato e disturbato.
Lo stile di questa meraviglia di libro è ben calibrato. I periodi sono brevi, concisi, diretti. Cameron arriva dritto al punto, stimolando il lettore. La qualità e lo spessore sono discrete, e la proprietà di linguaggio è notevole. Un romanzo equilibrato fin dal primo capitolo. Le descrizioni delle persone, degli oggetti, dei paesaggi sono tutte molto ben calibrate. Non eccedono nel dettaglio e non sono troppo generiche. Lo scrittore è come se abbozzasse un disegno, facendoti intravedere i contorni e le sfumature, ma lasciando all’immaginazione di chi legge riempire i contorni e scegliere i colori. Fa pensare ad un quadro in via di lavorazione. Quel work’n progress che ti fa avere voglia di girare pagina per scoprire come prenderà forma l’opera. E facendo nascere comunque anche la necessità di appoggiare sul comodino il libro per metabolizzare i pensieri dei personaggi e per aprire google alla ricerca di informazioni per gli input lanciati da chi scrive.
Anche i flashback sono disseminati tra le pagine alla perfezione, e rendono lineare il racconto grazie all’espediente della data a inizio di ogni capitolo. Una sorta di romanzo epistolare che ci fa entrare subito in intimità con il protagonista della storia, che ci parla con una schiettezza notevole, come fossimo custodi di un grande segreto. Lui, silenzioso e riservato, fragile e spaurito, che usa il sarcasmo come spada verso un mondo e una società che sente ostile, al giro di boa della sua crescita, che si pone verso il lettore con disarmante onestà. Anche a rischio di sembrare presuntuoso. Cameron riesce nell’impresa di creare la catarsi. E come prima prova per uno scrittore direi che ci siamo e come. Solo una parola da dire: APPLAUSI.
Harley Queen
Ps. Grazie mille Harley Queen e benvenuta fra le firme che compongono questo blog.
martedì 29 maggio 2012
The Faculty
The Faculty
(USA 1998)
Regia: Robert
Rodriguez
Cast: Elijah Wood,
Josh Hartnett, Jordana Brewster, Clea DuVall, Laura Harris, Shawn
Hatosy, Robert Patrick, Famke Janssen, Salma Hayek, Bebe Neuwirth,
Piper Laurie, Christopher McDonald, Usher Raymond, Jon Stewart, Jon
Abrahams, Summer Phoenix, Danny Masterson
Genere: invasione
aliena
Se ti piace guarda
anche: Mars Attacks!, L’invasione degli ultracorpi, La guerra
dei mondi, Super 8, Scream
Ispirato al classico
fordiano L’invasione degli ultracorpi, The Faculty è una rielaborazione
divertita del tema “invasione aliena” in perfetto stile Kevin
Williamson.
Dopo aver destrutturato
ma più che altro preso per il culo il genere horror con Scream e
dopo aver riletto in chiave personale il filone teen con la serie
Dawson’s Creek, nel 1998 gli viene affidato il compito di rivedere
e correggere alla sua maniera addirittura il genere fantascientifico.
Anche qui, così come in
Scream, i protagonisti vivono l’invasione aliena in maniera
post-moderna, tenendo ben presente le regole imparate dalle pellicole
cinematografiche, il citato L’invasione degli ultracorpi in primis.
Ma i riferimenti vanno anche al romanzo Il terrore della sesta Luna,
a La cosa di John Carpenter, a E.T. ai Men in Black e quant’altro
arrivando persino alla Bibbia. Un menù Gran Gourmet servito in
tavola dallo chef Williamson con la sua solita abbondante dose di
ironia.
Il tutto è poi guarnito
da una colonna sonora troppo ’90, davvero troppo ‘90, con
Garbage, Offspring, Creed e addirittura titoli di coda con un pezzo
degli Oasis.
Con una sceneggiatura citazionista del genere servita su un piatto d’argento, uno come Robert Rodriguez s’è divertito un mondo a trasformare le parole di Kevin Williamson in immagini e ad aggiungere la sua piccante dose di salsa messicana.
Per prima cosa,
l’amichetto intimo di Q.T. (per rispetto, ho deciso che d’ora
innanzi chiamerò Quentin Tarantino solo con le iniziali) si è
scelto un cast pure questo un sacco 90s e soprattutto un sacco
variegato: Elijah Wood, futuro Frodo qui per la prima volta chiamato
a salvare i destini del mondo, la fighetta fast & furious Jordana
Brewster, la dark-goth pre-emo Clea DuVall, la M.I.L.F. Famke
Janssen, la sua amichetta latina Salma Hayek (purtroppo neanche
lontanamente caliente come in Dal tramonto all’alba), la biondina
ambigua Laura Harris, il quarterback intellettualoide Shawn Hatosy,
Robert Patrick (reduce da X-Files e Terminator 2), nei panni di un
allenatore di football severissimo che verrà parodiato in maniera
esilarante in Non è un’altra stupida commedia americana.
Non è mica finita: ci
sono pure la sempre inquietante Piper Laurie recuperata da Twin Peaks
e Carrie - Sguardo di Satana, il cantante R&B Usher, persino il
conduttore tv Jon Stewart e poi Josh Hartnett.
Josh Hartnett è uno dei
più grandi misteri recenti di Hollywood. Ha fatto il filmetto horror
sequel ideale per iniziare a farsi conoscere, Halloween 20 anni dopo,
ha interpretato il tipo più figo del mondo per eccellenza ovvero
Trip Fontaine ne Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola,
ha fatto la marketta nel blockbusterone di turno, Pearl Harbor, la
commedia giusta per rivelare la sua versatilità anche in campo
comedy, ovvero il sempre divertente 40 giorni & 40 notti, è
tornato con Rodriguez per Sin City, ha fatto uno pseudo-cult
criminale come Slevin, un thriller sottovalutato come Appuntamento a
Wicker Park e poi una puntata dritta nel cinema d’autore, con Black
Dahlia di Brian de Palma, sul cui set ha pure conosciuto Scarlett
Johansson, con cui ha vissuto una breve quanto paparazzata e glamour
liaison. Insomma, è figo, è bravo, recita con i registi giusti e
finisce su tutti i magazine mondiali. E poi?
Poi gira 30 giorni di
buio e sulla sua carriera cala letteralmente il buio. Non solo per 30
giorni.
Colpa di una serie di
scelte poco fortunate, o magari di un pessimo agente che gli
consiglia i film sbagliati, ma il buon Josh Hartnett negli ultimi
tempi si è visto davvero poco e solo in robe del tutto evitabili con
titoli come Stuck Between Stations e Bunraku (?!?).
Josh, come ti sei ridotto
in questo stato?
Misteri di Hollywood…
Ritornando alla misteriosa invasione aliena di questo The Faculty, dicevamo di quanto Robert Rodriguez si dev’essere divertito a girarlo, con un entusiasmo contagioso e godurioso che è riuscito a trasmettere anche alla pellicola.
The Faculty è un
ultracorpo che visto oggi appare così 90s e proprio per questo lo si
guarda con un filo di nostalgia. Quando una volta guardavi i film
anni ‘80 pensavi: “Cazzo, quanto sono anni ’80!”, adesso
capita che guardi una pellicola come The Faculty e pensi: “Cazzo,
che film anni ’90!”.
Ti rendi così conto che
il tempo passa, le invasioni aliene pure, ma il divertimento resta. E
quello regalato da un film come The Faculty è rimasto (quasi) del
tutto intatto.
(voto 7+/10)
lunedì 28 maggio 2012
Laura Nyro
Eli and the Thirtheen Confession
L’amore per Laura Nyro mi accompagna da anni, fin dalla prima volta che mi capitò di ascoltare un suo disco, nel lontano 1990. Di lei, mi ha sempre affascinato lo sguardo triste e il sorriso aperto, la otale incapacità di rapportarsi allo star system, quell'essere sfuggente non per distaccata superbia, ma a cagione di un'indole malinconicamente solitaria. Era una donna che viveva di contraddizioni: dal lato umano, era una persona timida, insicura, schiva ( si narra che durante la prima audizione per una grande casa discografica, volle suonare al buio, con il piano illuminato solo dalla luce di un televisore ), mentre il suo lato artistico svelava una donna esuberante e passionale, un specie torrente in costante piena di musica, poesia e raffinate fantasie letterarie.
Laura abbatteva continuamente gli standard espressivi del suo tempo, si gettava in una febbrile ricerca, spesso istintuale, per superare i limiti convenzionali del fare arte e del comporre musica. Il suo estro compositivo era tutto tranne che rigoroso, la sua musica era costruita su coordinate talvolta indecifrabili, non apparteneva a un genere o a un contesto, dal momento che la sua ispirazione traeva linfa vitale daun coacervo di moduli, riadattati a uso e consumo di un'inventiva senza freno.Eppure, come spesso accade a chi è capace di guardare oltre, la Nyro non trovò mai in vita il successo che si sarebbe meritata: troppo colta, troppo complessa per il grande pubblico poco aduso al quelle sue canzoni ad incastro, prive dellalinearità che fa vendere dischi e rassicura l'ascoltatore. A lei non fregava proprio nulla della fama, si definiva " sposata alla musica e alla poesia", riteneva che essere artisti significasse essere liberi di fare quel che si vuole, senza compromessi. La sua gloria arrivò postuma, solo dopo il prematuro decesso avvenuto nel 1997 per un tumore alle ovaie (lo stesso male che uccise anche la di lei madre). Come la storia spesso ci ha insegnato, perché il mondo si accorgessedella Nyro, fu necessario che la sua musica venisse a mancare, che la critica si rendesse conto di quanto fosse attuale il suo linguaggio e di quanti artisti,nel corso degli anni, da quella musica abbiano tratto ispirazione.
Eli And The Thirteenth Confession è uno dei dischi che ho regalato maggiormente nella mia vita ed è incredibile come, chiunque abbia ascoltato queste canzoni, sia rimasto folgorato dall’attualità di suoni che sembrano figli legittimi dei nostri tempi. "Bravissima! Ma chi è ? Non l'ho mai sentita! Ma il cd è uscito quest'anno?" le reazioni più frequenti. Appunto… La Nyro era un artista che guardava al futuro e per questo vive nel presente. In virtù di un’estensione vocale non comune, la sua voce potrebbe essere paragonata ad un mustang che galoppa brado per la prateria: una corsa sbrigliata e mai doma verso orizzonti che si aprono all’infinito. Un timbro unico, un’esplosione di ottave da far tremare i cristalli, una capacità interpretativa multiforme e inimitabile. Prendete, ad esempio, l'iniziale Luckie e domandatevi quante volte nella vostra vita abbiate ascoltato qualcuno prendere tutte quelle note, con così tanta disinvoltura. La stessa disinvoltura concui si sviluppa la trama musicale di queste tredici gemme di perfetta, e osereidire sublime, armonia. Tredici canzoni che si rincorrono per bellezza interpretativa e compositiva, che spaziano fra jazz, musical, pop, blues, soul, e sono sostenute da un'architettura che incastra le ottave impossibili della singer newyorkese con un'imprevedibile sequenza di cambi tempo, improvvisi rallenty e repentine accelerazioni. Il tutto impreziosito ed esaltato dagli arrangiamenti scintillanti di Charlie Calello, innovativi, freschi, elegantissimi. Dall'iniziale, già citata, Luckie, con le sue aperture orchestrali, al blues strapazzato di Povertry Train (attenzione al flauto, please), alle atmosfere jazzy di Lonely Women (con la voce della Nyro che si tuffa senza rete nel profondo dell'anima di tutte le donne) attraverso il soul sixties di Eli's Comin' (che chiama in causa l'immensa Aretha) e le scale impazzite di Timer , fino all'ingovernabile energia di Once It Was Alright Now, col suo incedere altalenante e il groove irresistibile, non c'è un istante di questo disco che non faccia palpitare di emozioni.
Un’opera imprescindibile, pervasa da sbrigliata inventiva e inesauribili intuizioni, fondamentale per comprendere da dove nascano tutte le Amy Winehouse delnostro secolo. Era il 1968, ma riascoltato ora, a più di quarant'anni di distanza, Eli sembra addirittura un avamposto avanguardistico. Insieme al più melodicoTapestry di Carole King ed al più introspettivo Blue di Joni Mitchell, il capolavoro di Laura Nyro segna il crocevia da cui passerà tutto il cantautorato femminile negli anni a venire.
Laura Nyro - Lu by Xavierr
Blackswan
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Laura Nyro
venerdì 25 maggio 2012
L'OrablùBar
L’OrablùBar non è la sintesi di un progetto costruito a tavolino né l’estemporanea occasione colta al balzo per ragioni di profitto. È semmai una tappa nel lungo cammino di un gruppo di amici che da anni, con passione, dedizione e anche tanti sacrifici, cerca di cambiare il volto alla propria città,
di arricchire il territorio di iniziative ed eventi, di dare una
possibilità di realizzazione e di crescita alle numerose pulsioni
culturali che spesso non trovano il giusto rilievo.
È una tappa, si diceva, una sorta di traguardo intermedio, e non un punto d’arrivo. La strada che intendiamo percorrere è ancora lunga ed è proprio dalla nascita di questo locale, che aprirà ufficialmente i battenti sabato 26 maggio 2012 alle ore 19.00 (Centro Sportivo InSport, via Dante 67 a Bollate) con aperitivo e dj set, che L’Orablù ricomincia il proprio percorso.
Un percorso che ci accingiamo a intraprendere con rinnovato entusiasmo, con tante idee originali e con una struttura stabile che consentirà finalmente la realizzazione di quei propositi rimasti a lungo nel cassetto a maturare.
L’OrablùBar non sarà quindi solo un posto dove potrete gustare dell’ottima pizza, bere la nostra birra alla spina e godere di un servizio amichevole e informale anche per un semplice aperitivo. La differenza la farà invece lo spirito con cui intendiamo affrontare la gestione del bar, quel valore aggiunto di partecipazione e condivisione che da sempre suona nelle nostre corde e che rappresenterà il quid con cui desideriamo affrancarci dalla logica che sottende ai locali più convenzionali.
Questo sarà soprattutto un luogo di idee, di scambio di opinioni, di arricchimento reciproco, una piccola oasi dove chiunque potrà trovare refrigerio ai ritmi frenetici dell’esistenza. Cercheremo di farvi sentire a casa vostra, sostituendo al brusio di fondo il nitore della conversazione, all’assordante martellio di musica plastificata il piacere di un ascolto più ragionato, all’invasiva presenza di televisori sintonizzati sul digitale l’emozionante esperienza di un reading o la seducente compagnia di un libro.
Tutto questo per voi e insieme a voi.
Non il solito locale, ma il VOSTRO locale. L’OrablùBar.
giovedì 24 maggio 2012
Quella casa nel bosco
Questa volta torno nei campi a me più congeniali e vi invio il mio parere su "Quella casa nel bosco":
Ci sono cinque amici: la bionda svampita, l'atleta, lo studioso, il nerd, la vergine innocente (basta accontentarsi...) che vanno in vacanza una casa isolata in mezzo al bosco...di nuovo?? Un'altro film su "gruppo di pirla e casa delle torture"? Insomma, la solita storia... che conosciamo tutti...o forse no.
Ci sono cinque amici: la bionda svampita, l'atleta, lo studioso, il nerd, la vergine innocente (basta accontentarsi...) che vanno in vacanza una casa isolata in mezzo al bosco...di nuovo?? Un'altro film su "gruppo di pirla e casa delle torture"? Insomma, la solita storia... che conosciamo tutti...o forse no.
Parlare di "Quella casa nel bosco" senza rivelare nulla è difficile ma doveroso, perchè se si vuole apprezzarla per davvero, meno sappiamo di "The cabin in the woods" (titolo originale) meglio è.
Gli sceneggiatori Joss Whedon e Drew Goddard, il secondo anche regista del film, da bravi ragazzacci scatenati hanno fatto una cosa che, nella sua semplicità, ha il sapore della genialata.
Prendere tutti i clichè, gli stereotipi e le situazioni più trite di cui l'horror si è nutrito negli ultimi anni, metterli dentro una sola pellicola, e smontarli pezzo per pezzo.
Attraverso due ambienti, due contesti e due differenti punti di vista, Whedon e Goddard ci fanno credere tutto ed il contrario di tutto. Il racconto varia di continuo, i personaggi cambiano, i buoni diventano cattivi, i cattivi paiono buoni, la partita con lo spettatore è apertissima.
E proprio quello spettatore ormai assuefatto da anni di appiattimento di genere, abituato a sequel, remake e reboot finalmente capirà il motivo di tutto questo, il senso del rituale e si renderà conto che, d'ora in poi, nulla sarà più come prima.
Nella seconda parte poi, così diversa dalla prima, tutta la somma delle nostre paure sarà liberata, in un circo splatter in cui i mostri, si ribelleranno ai loro creatori, ma sarà solo l'inizio.
Originale, intelligente nella sua apparente banalità, ironico ed in alcuni momenti, la scena della festa finale con il video sullo sfondo, francamente divertente, "Quella casa nel bosco" è una vera e propria sorpresa.
Imperdibile per i veri appassionati del genere, con un cast perfetto, così ha voluto "il Direttore", "Quella casa nel bosco" possiede un finale quasi epocale.
Perchè se, come dice uno dei personaggi "questa società ha bisogno di sgretolarsi", forse anche il genere ha la necessità di ripartire, e "Quella casa nel bosco" può essere il suo punto zero.
Gli sceneggiatori Joss Whedon e Drew Goddard, il secondo anche regista del film, da bravi ragazzacci scatenati hanno fatto una cosa che, nella sua semplicità, ha il sapore della genialata.
Prendere tutti i clichè, gli stereotipi e le situazioni più trite di cui l'horror si è nutrito negli ultimi anni, metterli dentro una sola pellicola, e smontarli pezzo per pezzo.
Attraverso due ambienti, due contesti e due differenti punti di vista, Whedon e Goddard ci fanno credere tutto ed il contrario di tutto. Il racconto varia di continuo, i personaggi cambiano, i buoni diventano cattivi, i cattivi paiono buoni, la partita con lo spettatore è apertissima.
E proprio quello spettatore ormai assuefatto da anni di appiattimento di genere, abituato a sequel, remake e reboot finalmente capirà il motivo di tutto questo, il senso del rituale e si renderà conto che, d'ora in poi, nulla sarà più come prima.
Nella seconda parte poi, così diversa dalla prima, tutta la somma delle nostre paure sarà liberata, in un circo splatter in cui i mostri, si ribelleranno ai loro creatori, ma sarà solo l'inizio.
Originale, intelligente nella sua apparente banalità, ironico ed in alcuni momenti, la scena della festa finale con il video sullo sfondo, francamente divertente, "Quella casa nel bosco" è una vera e propria sorpresa.
Imperdibile per i veri appassionati del genere, con un cast perfetto, così ha voluto "il Direttore", "Quella casa nel bosco" possiede un finale quasi epocale.
Perchè se, come dice uno dei personaggi "questa società ha bisogno di sgretolarsi", forse anche il genere ha la necessità di ripartire, e "Quella casa nel bosco" può essere il suo punto zero.
Newmoon
La vita, tra sfumature e poesia
Segnaliamo un'iniziativa curata e promossa dal nostro amico e insegnante d'arte Adriano Minora:
La vita, tra sfumature e poesia
Racconti, disegni, acquarelli, poesie, dipinti
di Paola Sonnante
La mostra si aprirà coi
“Canti d’amore”
eseguiti dal Corello Aquilante
sabato 26 maggio, dalle 18.00 alle 20.00
presso il centro artistico “L’ALTROSPAZIO”
via Madonna in campagna 30 a Bollate
la mostra sarà visitabile fino al 10 Giugno
da mercoledì a domenica, dalle 18.00 alle 20.00
mercoledì 23 maggio 2012
Lupo solitario
Mi ero imbottito di quei blues scontrosi e poco confortanti, che amavo ascoltare quando volevo fare chiarezza con me stesso. E siccome queste cose mi accadono sempre di notte, per dimostrare quanto ero forte, mi ero lavato le ferite e stavo sprofondato nell’ombra, in attesa dei primi colori dell’alba, che chissà perché tardava a venire. Avrei dovuto sistemare quella porta del bagno che cigolava fastidiosamente ad ogni colpo di vento, pensai, intanto che accendevo una sigaretta e tiravo qualche boccata. Era una notte anonima e senza sfondo, una delle tante notti che avrei preso volentieri a calci se le mie ossessioni non avessero deciso di assalirmi e vendicarsi per i soprusi e le angherie a cui le sottoponevo.
martedì 22 maggio 2012
La febbre del sabato sera
La
febbre del sabato sera
(USA
1977)
Titolo
originale:
Saturday Night Fever
Regia:
John Badham
Cast:
John Travolta, Karen Lynn Gorney, Donna Pescow, Barry Miller, Joseph
Cali, Paul Pape, Sam Coppola, Fran Drescher
Genere:
Disco Stu
Se
ti piace guarda anche:
Footloose, Flashdance, The Last Days of Disco, Jersey Shore
Nuovo
appuntamento (spero per voi anche l’ultimo, per il momento) con il
“cinema danzereccio” e così, dopo Flashdance, ecco quello che
è forse il primo vero super cult del genere, per lo meno
nell’accezione moderna (Fred Astaire quindi escluso): Saturday
Night Fever. Oooooh yes.
Translation:
La febbre del sabato sera. Oooooh sì.
Atmosfera
anni Settanta a manetta. Disco strobo ogni 3 x 2. Musica dei Bee Gees
(R.I.P. Robin Gibb). Poster di Al Pacino appeso in cameretta come
modello esistenziale. Poster di Farrah Fawcett come modello per
altro…
La
febbre del sabato sera è un racconto sociale sugli italo americani
pizza pizza marescià, nonché un affresco storico su un’epoca che
ha visto l’ascesa della Disco Music e di un certo tipo di vita. Il
voler arrivare, non si sa dove basta che sia da qualche parte, la
voglia di emergere, di uscire da un destino già segnato. La parabola
di Tony Manero anticipa in qualche modo gli yuppie che di lì a poco
sbucheranno fuori come funghi purtroppo non allucinogeni, e denota
qualche caratteristica preoccupante che poi, esasperata, porterà a
“mostri” attuali come i protagonisti di Jersey Shore o
Tamarreide, di cui lui è un po’ il Padrino.
Apparenza
e attenzione al look sono ok, ma con Tony Manero assumono i connotati
della cura maniacale della superficialità e un gusto preoccupante
per il trash, per l’ostentazione, per la truzzaggine più
imbarazzante. Nel suo caso questi aspetti sono ancora in nuce e hanno
un che di naive e innocente, come il continuo lisciarsi indietro i
capelli, cosa che verrà poi ripresa anche dal grande Mouth/Corey
Feldman nei Goonies e che, più tardi, porterà agli ingellati da far
schifo “Guido” di Jersey Shore. In fondo il tamarro è sempre in
voga perché non è di moda mai.
John
Travolta è perfetto nella parte e non si fa troppa fatica a
immaginare una sua adolescenza simile a quella del Tony Tamarro,
mentre il resto del cast non si fa troppa fatica a dimenticarlo.
Efficacissima la colonna sonora che tra Bee Gees, Tavares, Kool &
The Gang, KC & The Sunshine Band, Trammps (con “Disco Inferno”)
e gli altri pesi massimi della Disco mette in scena un greatest hits
che per i patiti del genere dev’essere pura goduria. Dico
dev’essere perché io personalmente non mi annovero tra questi
patiti assoluti, però in effetti era difficile assemblare una
soundtrack più adatta per fotografare questo ambiente e questa
epoca. Anche se qualcuno riuscirà a posteriori riuscirà a fare
persino di meglio: Whit Stillman, con l’enorme colonna sonora del
suo splendido The Last Days of Disco.
Se
la visione procede su ritmi ballabili e godibili per quasi tutta la
sua durata, peccato per il finale del film, davvero tra i più
tremendi che io ricordi: uno dei suoi amici cade dal ponte, finisce
in fiume, quasi sicuramente morto, e Tony Manero senza versare una
lacrima e senza nemmeno far finta di fregarsene un minimo prende la
metro e raggiunge in uno stato pietoso la tipa che appena poche ore
prima aveva cercato di stuprare. Lei lo perdona per il quasi stupro e
gli dice che possono essere amici, in quello che è un finale nemmeno
romantico, solo stucchevolmente buonista. Ma dell’amico scomparso
non gliene frega un cazzo a nessuno? Proprio su quell’incidente il
film avrebbe potuto giocare la carta della perdita dell’innocenza
di quegli anni, invece rimane sospeso e manca di coraggio proprio
quando avrebbe potuto assestare il colpo finale.
I
titoli di coda lasciano con l’amaro in bocca per quello che rimane
comunque un interessante affresco di un’epoca e la fotografia
perfetta di una determinata, e a suo modo importante, categoria
sociale: il tamarro.
(voto
6,5/10)
lunedì 21 maggio 2012
Reset
La casa, quella che dicevano fosse infestata dai fantasmi, dal vivo sembrava soltanto una vecchia villa un po’ malmessa. Ciò che toglieva letteralmente il fiato era il panorama intorno: un mare talmente azzurro da accecare, circondato da montagne altissime dal colore delle rocce di luna. E proprio guardando quel panorama capì di aver fatto la cosa giusta. Sparire per un po’ era la decisione più folle che avesse mai preso in tutta la sua vita. Lo aveva detto anche a lui nel corso di quella telefonata: era stata costretta ad avvertirlo per evitare di trovarsi, suo malgrado, al centro dell’attenzione. Starò via per un po’… Non preoccuparti, te la caverai benissimo.
Lui aveva urlato, chiedendole se fosse impazzita, ma una volta che nonostante tutto lei non avrebbe mai fatto marcia indietro, aveva capito e accettato la situazione. In fondo, quello che era successo era anche colpa sua…E tanto poi sarebbe tornata. Di questo era certo. E così era partita, sola. Per la prima volta nella sua vita. Giunta a destinazione, come prima cosa, un appuntamento dal parrucchiere, assurdo no? Quasi surreale, soprattutto perché ne era uscita irriconoscibile, nonostante non si fosse mai piaciuta così tanto. Aveva fatto lunghe passeggiate, immersa nel silenzio totale. In quei momenti la mente si ripuliva sempre più e le idee si facevano mano a mano più chiare, come l’acqua che circondava l’isola. Aveva festeggiato l’ultima notte dell’anno sulla terrazza della sua camera d’albergo, in compagnia di un libro e un buon bicchiere di vino, brindando a ciò che l’aspettava. E anche a quello che si era lasciata alle spalle. Era stato il più bel Capodanno della sua vita. Così il tempo era scivolato via, i giorni erano volati, il momento delle decisioni era arrivato, con quella casa sempre lì, figura senza epoca immersa in una cartolina. E proprio guardando quell’incredibile panorama, nell’unico giorno di pioggia che invase l’isola, il cerchio finalmente si chiuse. La casa era in vendita e lei poteva acquistarla: ciò che era successo, quanto meno, l’aveva resa benestante. L’avrebbe sistemata con calma come stava facendo con se stessa del resto…
Fanculo, qualcosa da fare per vivere l’avrebbe trovato, si era sempre saputa adattare, sempre.
E lui… Lui era adulto, se ne sarebbe fatto una ragione, la parola “tornerò” in fondo, non l’aveva mai pronunciata.Non sarebbe mai più tornata, aveva deciso. Ne era convinta. Il tasto reset era stato definitivamente premuto. Tutto sarebbe ricominciato da quel luogo di mare e di luna.
Newmoon
venerdì 18 maggio 2012
giovedì 17 maggio 2012
Edward Bunker
Edward Bunker non ha avuto una vita facile, tutt’altro. Per rendersi conto di quanto sia vera questa affermazione è sufficiente leggere il toccante “Little Boy Blue”, traducibile con piccolo ragazzo triste, autobiografia dello scrittore che copre il periodo dell’infanzia fino ai 17 anni, età alla quale Bunker verrà condannato e rinchiuso a San Quentin ottenendo il primato di più giovane recluso in assoluto del penitenziario. Nonostante Bunker si sia fatto svariati anni di carcere per errori che realmente ha commesso, non si può non provare pena per quel ragazzino che, azione dopo azione, abuso dopo abuso, errore dopo errore, si trasformerà nella sua versione adulta.
In “Little Boy Blue” seguiamo l’infanzia di Alex Hammond, alter ego di Bunker stesso, figlio di una madre che di lui si disinteressa completamente e di un padre che, pur affezionato al ragazzo, non riesce a mantenerlo. Così Alex passa da un collegio militare all’altro, cambia famiglie affidatarie e prova l’esperienza dei riformatori. Le crisi violente, manifestazione del rifiuto e del dolore procuratogli da questa situazione, lo portano a dover scontare spesso punizioni da lui ritenute ingiuste. Il ragazzo sviluppa un’avversione per le autorità che gli porterà altro dolore e gli alienerà la possibilità di un reinserimento nella società. Le esperienze che Alex/Bunker dovrà affrontare sono terribili per un bambino di undici anni o poco più e faranno male anche al lettore di questo libro. Sul passaggio a San Quentin si chiude l’autobiografia della prima parte della vita di Bunker. Verrà in seguito ripresa nel libro “Educazione di una canaglia”.
Lo stile di Bunker è denso e corposo, non facile ne scorrevole, maturato con la lettura in carcere di moltissimi libri e da una particolare predisposizione dello scrittore per la letteratura russa.
I libri di fiction scritti da Bunker hanno qualcosa di indefinibile.
Leggendo “Come una bestia feroce”, racconto di un’ipotetica seconda possibilità trasformatasi nel tentativo di rapina a mano armata, si ha l’impressione di star leggendo la realtà. Bunker evita ogni spettacolarità, ogni esagerazione, i personaggi sono veri le situazioni veritiere.
Ottima prova anche in “Animal factory”, romanzo d’ambientazione carceraria. Anche qui la sensazione che si ha leggendo le pagine di Bunker è quella di estremo realismo.
Dopo il successo letterario, arrivato verso la metà degli anni ’70, arriverà anche la possibilità di una vita tranquilla grazie anche ai molteplici incarichi ricevuti come consulente nel settore cinematografico. Anche il suo volto è ormai diventato popolare grazie all’interpretazione di Mr. Blue ne “Le iene” di Quentin Tarantino, grande fan dei romanzi di Bunker. Dopo la morte di Bunker (2005) sono usciti ancora due romanzi postumi, “Stark” del 2006 e “Mia è la vendetta” del 2009.
La Firma Cangiante
In “Little Boy Blue” seguiamo l’infanzia di Alex Hammond, alter ego di Bunker stesso, figlio di una madre che di lui si disinteressa completamente e di un padre che, pur affezionato al ragazzo, non riesce a mantenerlo. Così Alex passa da un collegio militare all’altro, cambia famiglie affidatarie e prova l’esperienza dei riformatori. Le crisi violente, manifestazione del rifiuto e del dolore procuratogli da questa situazione, lo portano a dover scontare spesso punizioni da lui ritenute ingiuste. Il ragazzo sviluppa un’avversione per le autorità che gli porterà altro dolore e gli alienerà la possibilità di un reinserimento nella società. Le esperienze che Alex/Bunker dovrà affrontare sono terribili per un bambino di undici anni o poco più e faranno male anche al lettore di questo libro. Sul passaggio a San Quentin si chiude l’autobiografia della prima parte della vita di Bunker. Verrà in seguito ripresa nel libro “Educazione di una canaglia”.
Lo stile di Bunker è denso e corposo, non facile ne scorrevole, maturato con la lettura in carcere di moltissimi libri e da una particolare predisposizione dello scrittore per la letteratura russa.
I libri di fiction scritti da Bunker hanno qualcosa di indefinibile.
Leggendo “Come una bestia feroce”, racconto di un’ipotetica seconda possibilità trasformatasi nel tentativo di rapina a mano armata, si ha l’impressione di star leggendo la realtà. Bunker evita ogni spettacolarità, ogni esagerazione, i personaggi sono veri le situazioni veritiere.
Ottima prova anche in “Animal factory”, romanzo d’ambientazione carceraria. Anche qui la sensazione che si ha leggendo le pagine di Bunker è quella di estremo realismo.
Dopo il successo letterario, arrivato verso la metà degli anni ’70, arriverà anche la possibilità di una vita tranquilla grazie anche ai molteplici incarichi ricevuti come consulente nel settore cinematografico. Anche il suo volto è ormai diventato popolare grazie all’interpretazione di Mr. Blue ne “Le iene” di Quentin Tarantino, grande fan dei romanzi di Bunker. Dopo la morte di Bunker (2005) sono usciti ancora due romanzi postumi, “Stark” del 2006 e “Mia è la vendetta” del 2009.
La Firma Cangiante
mercoledì 16 maggio 2012
Una scatola al giorno...
Vi ricordate il nostro primo evento di quest'anno vero? Sì esatto, Non Rompete Le Scatole...in Villa, bravi... beh in effetti non è passato tanto tempo... Per chi non ha avuto la possibilità di venirci a trovare in quei giorni per vari motivi segnalo che il sito di b-artcomporary, la galleria che ha curato la mostra insieme a Piscina Comunale - Spazio d'arte in copisteria, sta proponendo, una al giorno, le foto di tutte le scatole presenti... Ecco il link.
martedì 15 maggio 2012
Pleasantville
Pleasantville
(USA 1998)
Regia: Gary Ross
Cast: Tobey Maguire, Reese
Witherspoon, William H. Macy, Joan Allen, Jeff Daniels, Paul Walker,
Marley Shelton, Don Knotts, J.T. Walsh, Jenny Lewis, Marissa Ribisi,
Jason Behr, Marc Blucas, Danny Strong, Denise Dowse
Genere: retrò
Se ti piace guarda anche: The
Artist, The Truman Show, Ritorno al futuro, Ricomincio da capo,
Cambia la tua vita con un click
Come sarebbe vivere dentro la tua serie
tv preferita?
È quello che scopre Tobey Maguire
nelle vesti di protagonista di questo Pleasantville.
Il mio telefilm preferito è Twin
Peaks, però devo ammettere che avrei un po’ paura ad andarci a
vivere. Più che un sogno, sarebbe un incubo che diventa realtà.
Bob…
la faccia di Bob…
i capelli unti di Bob…
No, grazie.
Se potessi scegliere di trasferirmi
dentro una serie, preferirei di gran lunga Baywatch. È possibile,
omino della tv di Pleasantville? Non mi sembra una richiesta poi
tanto eccessiva…
Per uno di quegli incanti che succedono
solo nei film, vedi anche Freaky Friday, Jumanji o Cambia la tua vita
con un click, tanto per dirne alcuni, Tobey Maguire e pure sua
sorella Reese Witherspoon vengono allora risucchiati dentro
l’apparecchio televisivo e vengono trasformati nei giovani
protagonisti della serie anni ’50 Pleasantville. Un telefilm
fittizio, ma in cui possiamo vedere i riflessi dei rassicuranti
serial vecchio stile, così come anche il buonismo di Happy Days.
I due vivono il “trasloco” in
maniera parecchio diversa: Tobey è un retrò-nerd che sa tutto della
serie e quindi per lui finire in quel mondo è un’esperienza
fantastica un po’ come ritrovarsi a Disneyland per un bambino di 6
anni o per il mio blogger rivale Bimbo Gigi Ford.
Per Reese Witherspoon, tipica liceale ribelle e pure un po’
zoccoletta - diciamolo -, ritrovarsi in quell’epoca tanto rigida e
politically correct si rivelerà una prova ardua. Ma le cose, questo
Pleasantville ce lo racconta magnificamente, possono cambiare. E
persino una realtà in bianco e nero può prendere colore.
Al di là di una meraviglia di storia,
Pleasantville incanta per le interpretazioni fenomenali di tutto il
cast. Oltre ai due ottimi protagonisti, Joan Collins e Jeff Daniels
con la loro romanticissima storia d’amore fanno illuminare di rosso
anche il cuoricino del più insensibile tra gli spettatori, mentre fa
uno strano effetto assistere a un leccatissimo e precisino William H.
Macy, dopo che negli ultimi tempi l’abbiamo visto nei panni opposti
del padre di famiglia barbone e ubriacone nella serie Shameless. Se
c’è una famiglia che sta agli antipodi rispetto a Pleasantville, è
proprio quella di Shameless. Menzione d’onore poi per la splendida
Marley Shelton, per Paul Walker che scopre il sesso fast &
furious con la smaliziata Witherspoon, e in alcune particine
compaiono pure Jenny Lewis, la cantante della band indie-rock-country
Rilo Kiley (se non li conoscete andatevi a recuperare subito tutti i
loro dischi!), e futuri amici televisivi come Marc Blucas e Danny
Strong di Buffy, più Jason Behr di Roswell.
Ciliegina sulla torta, una colonna
sonora magnifica, con una “At Last” di Etta James che piove su
una scena che definire poetica è limitativo.
Memorabile poi il finale sulle note di
“Across the Universe”, perla john lennoniana, dal testo perfetto
per la pellicola e qui riletta dalla sola e unica Fiona Apple. Dopo
aver sentito la sua interpretazione nel lontano 1998, ma poi non
tanto lontano quanto l’epoca di Pleasantville, ho deciso che Fiona
Apple era la mia cantante preferita di sempre e ancora oggi non ho
cambiato idea. Il video della song poi è diretto da Paul Thomas
Anderson, mica il primo pirla che passa.
L’opera prima di Gary Ross, futuro
regista del blockbuster Hunger Games,
è un incanto di pellicola. Innocente, idealista e sognatrice. Una
gemma più che piacevole che ci trascina dritti dentro un’altra
epoca, proprio come capita ai due protagonisti.
Nominato agli Oscar 1998 in 3 categorie
minori (scenografia, costumi e musiche), Pleasantville non si è
portato a casa manco una statuetta. Per quanto paradossale sia da
dire, un film in b/n ambientato negli anni ’50 forse era troppo
avanti per l’epoca. Fosse uscito oggi, magari avrebbe fatto incetta
di premi proprio come capitato a The Artist, film muto e ambientato
negli anni ’30 e diverso per un sacco di altri aspetti, ma che con
Pleasantville condivide lo stesso gusto retrò, nostalgico fin che si
vuole, ma che sa guardare anche al futuro. Il tema portante di
entrambe le pellicole è infatti il cambiamento, il sapersi evolvere
e adattare ai tempi che mutano. È sempre bello dare un’occhiata
indietro al passato, ma saper guardare avanti è ancora meglio.
Perché chissa cosa cosa succederà
domani?
Io non lo so.
(voto 8+/10)
lunedì 14 maggio 2012
Onora il padre e la madre
Due fratelli con gravi problemi finanziari decidono di rapinare la gioielleria di famiglia.
Nulla andrà secondo i loro piani...
"Onora il padre e la madre" (il bellissimo titolo originale è "Before the Devil knows you're dead") si apre con una scena di sesso fra marito e moglie che spiazza lo spettatore. A colpire, però, non è la sensualità della sequenza, ma tutt'altro. Il "giovane" Sidney Lumet (83 anni suonati al momento delle riprese) evita la strada della pornografia e del pruriginoso, e si affida invece al rigore formale della fotografia (una penombra melanconicissima) e alle inquadrature, volutamente asettiche, che in pochi minuti raccontano una storia fatta di incomprensione, tristezze, ferite insanabili. Non c'è amore, bensì solitudine, distacco, rancori sopiti che riemergono in una battuta raggelante di Marisa Tomei: "In questo posto riesco a non sentirmi una merda totale". Pochi minuti, dunque, per raccontare il senso di un film duro, angoscioso, politicamente scorretto, nel quale viene letteralmente fatto a pezzi il concetto di famiglia in un contestosociale che è quello della media borghesia americana (e bianca). L'incipit disegna rapporti interpersonali già compromessi. Eppure, Lumet non dice nulla del passato della famiglia Hanson: permette semmai allo spettatore di intuire, di cogliere, nella cronaca di semplici fatti, dinamiche affettive, contrasti e disagigià ben radicati. L'architettura del film è giocata su incastri temporali, su un puzzle sfasato di avvenimenti che, inizialmente confonde, ma che successivamente diventa parte dell'insieme, perfettamente funzionale a giustificare la spiazzante ( e agghiacciante ) morale che sottende al finale del film.
Al centro del racconto si muove un pugno di personaggi tutti in balia dei propri vuoti interiori, delle proprie carenze affettive, vittime di un egoismo che non appare mai solo frutto dell'indole, ma che è soprattutto determinato dalle contingenze della vita. In tal senso Lumet non fa sconti: il rigore etico è un’eventualità, la famiglia non esiste se non come formale coacervo di sangue e abitudini, i figli sonocondannati a espiare le colpe dei padri, sono vittime e carnefici generati in un alveo di violenza domestica mai rappresentata, ma che prepotentemente permea ogni secondo di pellicola, ogni azione, ogni pensiero, ogni tormento dei suoi personaggi.
Non c'è perdono, nè redenzione: il film vira, sequenza dopo sequenza, verso una tragedia che si percepisce ineluttabile fin dall’inizio, per esplodere poi in un finale sconvolgente, logica conseguenza di un destino già scritto.Un lotto di attori straordinari tiene bordone al grande regista: Philip Seymour Hoffman, dallo sguardo mefistofelico, eppure così terribilmente fragile, è un gigante: roba da spellarsi le mani dagli applausi; Ethan Hawke è straordinario nella parte del fratello fallito (ma chi non lo è tra tutti i personaggi?): trasmette insicurezza a ogni inquadratura ed è perfetto nel rappresentare la supina accettazione innanzi all'ordito del fato; Marisa Tomei è di una bellezza sconfitta e dolente, seduce col corpo e immalinconisce con lo sguardo. Unico neo? Probabilmente Albert Finney, che non accontentandosi di fare trenta, per prendere anche la lode, finisce per essere un pò troppo sopra le righe, a tratti innaturale.
Da non perdere.
Blackswan
"Onora il padre e la madre" (il bellissimo titolo originale è "Before the Devil knows you're dead") si apre con una scena di sesso fra marito e moglie che spiazza lo spettatore. A colpire, però, non è la sensualità della sequenza, ma tutt'altro. Il "giovane" Sidney Lumet (83 anni suonati al momento delle riprese) evita la strada della pornografia e del pruriginoso, e si affida invece al rigore formale della fotografia (una penombra melanconicissima) e alle inquadrature, volutamente asettiche, che in pochi minuti raccontano una storia fatta di incomprensione, tristezze, ferite insanabili. Non c'è amore, bensì solitudine, distacco, rancori sopiti che riemergono in una battuta raggelante di Marisa Tomei: "In questo posto riesco a non sentirmi una merda totale". Pochi minuti, dunque, per raccontare il senso di un film duro, angoscioso, politicamente scorretto, nel quale viene letteralmente fatto a pezzi il concetto di famiglia in un contestosociale che è quello della media borghesia americana (e bianca). L'incipit disegna rapporti interpersonali già compromessi. Eppure, Lumet non dice nulla del passato della famiglia Hanson: permette semmai allo spettatore di intuire, di cogliere, nella cronaca di semplici fatti, dinamiche affettive, contrasti e disagigià ben radicati. L'architettura del film è giocata su incastri temporali, su un puzzle sfasato di avvenimenti che, inizialmente confonde, ma che successivamente diventa parte dell'insieme, perfettamente funzionale a giustificare la spiazzante ( e agghiacciante ) morale che sottende al finale del film.
Al centro del racconto si muove un pugno di personaggi tutti in balia dei propri vuoti interiori, delle proprie carenze affettive, vittime di un egoismo che non appare mai solo frutto dell'indole, ma che è soprattutto determinato dalle contingenze della vita. In tal senso Lumet non fa sconti: il rigore etico è un’eventualità, la famiglia non esiste se non come formale coacervo di sangue e abitudini, i figli sonocondannati a espiare le colpe dei padri, sono vittime e carnefici generati in un alveo di violenza domestica mai rappresentata, ma che prepotentemente permea ogni secondo di pellicola, ogni azione, ogni pensiero, ogni tormento dei suoi personaggi.
Non c'è perdono, nè redenzione: il film vira, sequenza dopo sequenza, verso una tragedia che si percepisce ineluttabile fin dall’inizio, per esplodere poi in un finale sconvolgente, logica conseguenza di un destino già scritto.Un lotto di attori straordinari tiene bordone al grande regista: Philip Seymour Hoffman, dallo sguardo mefistofelico, eppure così terribilmente fragile, è un gigante: roba da spellarsi le mani dagli applausi; Ethan Hawke è straordinario nella parte del fratello fallito (ma chi non lo è tra tutti i personaggi?): trasmette insicurezza a ogni inquadratura ed è perfetto nel rappresentare la supina accettazione innanzi all'ordito del fato; Marisa Tomei è di una bellezza sconfitta e dolente, seduce col corpo e immalinconisce con lo sguardo. Unico neo? Probabilmente Albert Finney, che non accontentandosi di fare trenta, per prendere anche la lode, finisce per essere un pò troppo sopra le righe, a tratti innaturale.
Da non perdere.
Blackswan
domenica 13 maggio 2012
Il mistero della perla scomparsa
Venerdì 11 maggio si è svolto il saggio degli allievi dei due corsi di circo-teatro che L'Orablù organizza dal 2006. Il saggio è un momento importante per i ragazzi che dimostrano davanti alla platea composta da amici e parenti ciò che hanno costruito durante l'anno insieme agli insegnanti Alessandra Pasi e Alessandro Vallin.
Gli allievi del corso base si sono esibiti in una breve rappresentazione di giocoleria mentre quelli del corso avanzato, che da qualche anno hanno composto una specie di mini compagnia teatrale chiamate Le Bollicine - Il teatro dei bambini (per i precedenti vedere qui), hanno realizzato un vero e proprio spettacolo dove gli insegnanti hanno proposto un testo base e i ragazzi si sono divertiti a comporlo in base alle loro caratteristiche: Il Mistero della Perla Scomparsa.
Vi lasciamo con una carrellata di foto scattate durante le prove generali e l'esibizione finale.
sabato 12 maggio 2012
Viaggio in Sardegna
Negli ultimi giorni ho constatato come buona parte della mia vita, dai contatti umani alle ricette di dolci, dalle curiosità alla necessità di informazioni, fino alle preziosissime foto delle vacanze, si svolga tramite il computer e internet. Per quanto riguarda le foto delle vacanze da mostrare ai congiunti, potevo anche risparmiarmi la visione di una madre che sonnecchia, due o tre fossili che con lo sguardo fisso commentano "mm", e uno zio che da un sassolino nascosto sotto la sabbia nella foto del mare tira fuori l'ennesimo racconto di vita vissuta (con l'infanzia e la vecchiaia da pensionato come estremi temporali del raccontabile) e distrae tutti dalla presentazione delle foto. E dire che dopo il problema tecnico avevo convinto tutti dell'urgenza di riavere al più presto il mio computer proprio con la promessa delle foto! Non potevano cambiare argomento per farmi capire che le foto no, piuttosto ti paghiamo la riparazione così ti chiudi di nuovo in camera?
Per quanto riguarda gli aggiornamenti, invece, dopo mail, pagine di curiosità, voci depennate sulla lista mentale, letture, scritture e cervicale parlante, io sono stanca di avere di nuovo il computer, innanzitutto perché mi distrae dalla lettura del secondo libro che mi sono regalata al rientro dalle vacanze, a cui mi dedicherò dopo questo post. In secondo luogo perché rischiava di rallentarmi nella lettura del primo libro che mi sono regalata al rientro dalle vacanze (mi raccomando non mandatemi all'ipermercato con più soldi di quelli necessari per pane e companatico), ovvero Viaggio in Sardegna, un bellissimo quadro geografico, storico, culturale della Sardegna, che accompagna il lettore lungo undici percorsi sconosciuti alla sua fama di isola bellissima, e protegge dai "falsi amici" che questa procura agli incauti turisti. Della serie: non è tutto mare porchetto banditi e il-sardo-è-una-lingua-non-è-un-dialetto.
Mi è piaciuto perché spiega anche la storia, e la preistoria!, e le tradizioni, ma anche l'attualità (che rinnega le prime, dove può), e la cultura!, inoltre suggerisce posti incantevoli da vedere, ma svela anche cosa in Sardegna è impossibile o difficile da trovare (ad esempio negozi, al di fuori dei centri commerciali, che facciano orario continuato). Solo alla fine l'autrice si è persa del tutto, con un finale assurdo che non so se riportarvi o no ma... Insomma, ditemi voi se dopo aver descritto la Sardegna come un luogo dove ancora oggi, inconsciamente, persistono pratiche mentali ancestrali come considerare la donna il capo famiglia, l'elemento principale della società o, al massimo, un personaggio paritario rispetto all'uomo; se dopo aver detto a tutti che nell'arte del racconto tutti i sardi sono maestri, le donne anzitutto, grazie a quella loro necessità di tenere per sé il privato e raccontare solo il fantastico, ditemi se poteva concludere così: "Il racconto del focolare [...] ha rappresentato per secoli il diversivo alla quotidianità di cui la televisione ancora da venire avrebbe poi preso il posto, con i suoi quiz, le sue fiction e le sue scosciate veline, il nuovo emblema della femminilità isolana, in ordine di tempo le ultime janas* su cui fantasticare".
Ha spezzato l'incantesimo così.
Ma si può?
Ma è lo 0,001% di un libro che per il resto mi è piaciuto molto, un libro diverso dai soliti libri sulla Sardegna - e ve lo dice una che ne ha letti quasi tre, compreso questo.
Mi è piaciuto molto e ho pure sottolineato alcune frasi che mi hanno incuriosito, e che ora vi riporto perché voglio consigliarvi di leggerlo e poi vi lascio, e mi dedico al mio secondo libro, stavolta un romanzo.
Sul mistero che avvolge i nuraghe e la loro funzione:
"Nei racconti degli anziani è presente la memoria di un tempo in cui da ogni nuraghe se ne vedevano sempre altri due".
Sulla civiltà nuragica:
"Dallo studio delle statuine bronzee emerge nitidamente un altro elemento interessante: la pari considerazione dell'uomo e della donna nella società nuragica".
Sull'identità e sulle apparenze: ovvero sul legame tra la voglia d'indipendenza dell’isola e la "libertà di essere sardi solo per se stessi, senza sospingersi a vicenda a 'fare i sardi' per gli altri".
Sulle usanze: a quanto pare i sardi usano ancora oggi distribuire "a vicini e conoscenti le eccedenze di ogni grazia alimentare".
Sulla fama dell'isola:
"Quello che maggiormente determina il successo o l'insuccesso dell'impatto con la Sardegna, trattandosi di uno dei luoghi più presenti e delineati nell'immaginario comune, è la corrispondenza tra ciò che si vede e le aspettative di chi guarda".
Sull'insicurezza dei sardi camuffata da autoironia:
"E si finisce per ridere di ciò che di se stessi si crede appaia ridicolo agli occhi degli altri".
Sulle donne scrittrici:
"Non c'era praticamente nulla di strano che una donna divenisse narratore, anche di enorme fama, in un mondo in cui praticamente ogni focolare era a suo modo un circolo letterario".
Un errore finale (potevo non farci caso?):
"la volontà [...] di voler testimoniare".
Siccome il termine "volontà" esprime già il concetto di "volere" e viceversa, bastava dire "la volontà di testimoniare". Ma in questo era maestro il mio professore di informatica con i suoi “la capacità di poter essere capaci di riuscire”.
Infine, come biglietto da visita non della Sardegna ma del libro, vi riporto un brano più lungo sul mare, perché penso che, nonostante la Sardegna secondo me non sia "uno dei luoghi più presenti e delineati nell'immaginario comune", è senz'altro un luogo che, quando è presente nell’immaginario comune, è delineato attraverso il suo mare:
"Avere milleottocento chilometri di coste incantevoli, tutte diverse, può essere una fortuna molto meno invidiabile di quanto non sembri a prima vista alle migliaia di turisti incantati che vengono ogni anno in vacanza in Sardegna. Lungo i secoli i sardi sono diventati piuttosto consapevoli del fatto che il mare possa portare cose peggiori di turisti in bermuda e pesce fresco, e i più anziani conservano spesso nei suoi riguardi una sana diffidenza, al punto che anche nei paesi costieri è molto frequente trovare persone che si vantano di non aver mai imparato a nuotare".
Se volete scoprire il perché di questa particolarità, leggete Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede di Michela Murgia.
Per quanto riguarda gli aggiornamenti, invece, dopo mail, pagine di curiosità, voci depennate sulla lista mentale, letture, scritture e cervicale parlante, io sono stanca di avere di nuovo il computer, innanzitutto perché mi distrae dalla lettura del secondo libro che mi sono regalata al rientro dalle vacanze, a cui mi dedicherò dopo questo post. In secondo luogo perché rischiava di rallentarmi nella lettura del primo libro che mi sono regalata al rientro dalle vacanze (mi raccomando non mandatemi all'ipermercato con più soldi di quelli necessari per pane e companatico), ovvero Viaggio in Sardegna, un bellissimo quadro geografico, storico, culturale della Sardegna, che accompagna il lettore lungo undici percorsi sconosciuti alla sua fama di isola bellissima, e protegge dai "falsi amici" che questa procura agli incauti turisti. Della serie: non è tutto mare porchetto banditi e il-sardo-è-una-lingua-non-è-un-dialetto.
Mi è piaciuto perché spiega anche la storia, e la preistoria!, e le tradizioni, ma anche l'attualità (che rinnega le prime, dove può), e la cultura!, inoltre suggerisce posti incantevoli da vedere, ma svela anche cosa in Sardegna è impossibile o difficile da trovare (ad esempio negozi, al di fuori dei centri commerciali, che facciano orario continuato). Solo alla fine l'autrice si è persa del tutto, con un finale assurdo che non so se riportarvi o no ma... Insomma, ditemi voi se dopo aver descritto la Sardegna come un luogo dove ancora oggi, inconsciamente, persistono pratiche mentali ancestrali come considerare la donna il capo famiglia, l'elemento principale della società o, al massimo, un personaggio paritario rispetto all'uomo; se dopo aver detto a tutti che nell'arte del racconto tutti i sardi sono maestri, le donne anzitutto, grazie a quella loro necessità di tenere per sé il privato e raccontare solo il fantastico, ditemi se poteva concludere così: "Il racconto del focolare [...] ha rappresentato per secoli il diversivo alla quotidianità di cui la televisione ancora da venire avrebbe poi preso il posto, con i suoi quiz, le sue fiction e le sue scosciate veline, il nuovo emblema della femminilità isolana, in ordine di tempo le ultime janas* su cui fantasticare".
Ha spezzato l'incantesimo così.
Ma si può?
Ma è lo 0,001% di un libro che per il resto mi è piaciuto molto, un libro diverso dai soliti libri sulla Sardegna - e ve lo dice una che ne ha letti quasi tre, compreso questo.
Mi è piaciuto molto e ho pure sottolineato alcune frasi che mi hanno incuriosito, e che ora vi riporto perché voglio consigliarvi di leggerlo e poi vi lascio, e mi dedico al mio secondo libro, stavolta un romanzo.
Sul mistero che avvolge i nuraghe e la loro funzione:
"Nei racconti degli anziani è presente la memoria di un tempo in cui da ogni nuraghe se ne vedevano sempre altri due".
Sulla civiltà nuragica:
"Dallo studio delle statuine bronzee emerge nitidamente un altro elemento interessante: la pari considerazione dell'uomo e della donna nella società nuragica".
Sull'identità e sulle apparenze: ovvero sul legame tra la voglia d'indipendenza dell’isola e la "libertà di essere sardi solo per se stessi, senza sospingersi a vicenda a 'fare i sardi' per gli altri".
Sulle usanze: a quanto pare i sardi usano ancora oggi distribuire "a vicini e conoscenti le eccedenze di ogni grazia alimentare".
Sulla fama dell'isola:
"Quello che maggiormente determina il successo o l'insuccesso dell'impatto con la Sardegna, trattandosi di uno dei luoghi più presenti e delineati nell'immaginario comune, è la corrispondenza tra ciò che si vede e le aspettative di chi guarda".
Sull'insicurezza dei sardi camuffata da autoironia:
"E si finisce per ridere di ciò che di se stessi si crede appaia ridicolo agli occhi degli altri".
Sulle donne scrittrici:
"Non c'era praticamente nulla di strano che una donna divenisse narratore, anche di enorme fama, in un mondo in cui praticamente ogni focolare era a suo modo un circolo letterario".
Un errore finale (potevo non farci caso?):
"la volontà [...] di voler testimoniare".
Siccome il termine "volontà" esprime già il concetto di "volere" e viceversa, bastava dire "la volontà di testimoniare". Ma in questo era maestro il mio professore di informatica con i suoi “la capacità di poter essere capaci di riuscire”.
Infine, come biglietto da visita non della Sardegna ma del libro, vi riporto un brano più lungo sul mare, perché penso che, nonostante la Sardegna secondo me non sia "uno dei luoghi più presenti e delineati nell'immaginario comune", è senz'altro un luogo che, quando è presente nell’immaginario comune, è delineato attraverso il suo mare:
"Avere milleottocento chilometri di coste incantevoli, tutte diverse, può essere una fortuna molto meno invidiabile di quanto non sembri a prima vista alle migliaia di turisti incantati che vengono ogni anno in vacanza in Sardegna. Lungo i secoli i sardi sono diventati piuttosto consapevoli del fatto che il mare possa portare cose peggiori di turisti in bermuda e pesce fresco, e i più anziani conservano spesso nei suoi riguardi una sana diffidenza, al punto che anche nei paesi costieri è molto frequente trovare persone che si vantano di non aver mai imparato a nuotare".
Se volete scoprire il perché di questa particolarità, leggete Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede di Michela Murgia.
*Le janas (iànas) sono fate leggendarie (però io di fate storiche non ho mai sentito) o anche streghe che, dalle loro grotte scavate nella roccia (le domus de jana, ancora oggi visibili a occhio nudo in Sardegna, basta sapere dove guardare), uscivano solo di notte per non rovinare la loro pelle bianca.
venerdì 11 maggio 2012
Adler's Appetite
I Guns N'Roses, per chi
il ha amati, non sono stati soltanto un enorme fenomeno di vendita,
non sono mai stati una band come le altre, sono stati un'esplosione
di adrenalina mai vista, l'apoteosi di una tamarraggine spaventosa e
di una rabbia incontrollata verso quella sorta di snobismo artistico
che nemmeno il punk nella sua violenta ondata era riuscito a spazzare
via. Sono stati lo specchio di una generazione stanca e incazzata, ma
anche desiderosa di divertirsi e fare casino, "Generazione di
sconvolti che non han più santi nè eroi", come diceva Vasco
quando ancora sapeva colpire nel segno. I Guns sono stati tutto
quello che la loro generazione avrebbe voluto essere e hanno sempre
suonato quello che la loro generazione avrebbe voluto suonare, con
tanta elettricità, riff fulminanti, ritmi da tachicardia, una voce
come se ne trovano davvero poche e la sfacciataggine senza filtro di
chi se ne fotte davvero.
La musica dei Guns, per
chi se n'è innamorato e per chi fa parte di quella generazione è
diventata in qualche modo l'essenza della visione del rock, una
specie di metro comparativo con il resto della musica, con generi,
artisti e gruppi nuovi. Non che ciò impedisca di apprezzare il resto
della musica nè tantomeno trasformi i Guns nel più grande gruppo di
sempre, certo è però che Axl e soci hanno lasciato un segno
indelebile nella storia della musica e nei cuori dei fans. Lo stesso
segno, o probabilmente uno ancora più marcato, è rimasto
sicuramente nel cuore di Steven Adler, storico batterista della band
cacciato nel 1990 per abuso di droghe (ed è tutto dire....) e che
per questo ha pure intentato cause e fatto un bel po' di casino, ma
che nonostante tutto dello stampo da gunner proprio non si riesce a
liberare, e dopo parecchi anni e non pochi problemi dovuti agli
eccessi di una vita a mille all'ora, nel 2003 forma una nuova band,
gli Adler's Appetite, nome chiaramente ispirato a quell'Appetite for
destruction che nell'87 si divorò in un sol boccone l'intero mercato
discografico e che è in parte anche una sua creatura. Con gli
Appetite Steven si lancia in una densissima attività live in cui
propone principalmente i pezzi dei Guns, alcuni (pochi) nuovi brani e
tante cover. Nel 2005 esce il primo lavoro del gruppo, un EP omonimo
di 6 brani tra cui le cover di "Hollywood" dei Thin Lizzy e
di "Draw the line" degli Aerosmith. Da allora più niente
se non concerti su concerti in giro per il mondo e cambi di
formazione repentini e quasi compulsivi, finchè nel 2010 Steven e
soci se ne escono con tre singoli, "Alive", "Stardog"
e "Fading", che proprio quest'anno sono stati inseriti,
insieme alla versione strumentale del primo, in un EP intitolato
"Alive" e che anticipa un probabile nuovo lavoro inedito.
C'è tanto dei Guns
N'Roses in questo album, c'è tanto di "Appetite For
Destruction", nel nome della band quanto nel sound cattivo e
graffiante del disco, che fin dalle prime note della title track
lancia watt a destra e a manca, con Steven seduto sul seggiolino
della sua batteria a pestare un ritmo incalzante e ad accompagnare
un'intro di chitarra rock anni '80 fino nel midollo, fulminante e
carico di elettricità. Il resto lo fa la voce di Patrick Stone,
frontman del gruppo dal 2011 che certo non è Axl Rose, ma nemmeno
prova ad esserlo, canta senza strafare con uno stile rabbioso che
denota una predilezione per l'hardcore punk e che in ogni caso non
guasta affatto. La successiva "Stardog" resta fedele alla
linea, batteria a bpm alti, riff decisi e voce a squarciagola, tracce
di assoli chitarristici alla Slash qui e là e un alto tasso di
adrenalina lungo tutta la durata del pezzo. C'è anche spazio per
"Fading", ottima ballata che chiude il cerchio: non ci sono
soltanto ritmi veloci e rock spinto nella musica degli Adler's
Appetite, e "Fading" ne è la dimostrazione. In chiusura
dell'album c'è una versione strumentale della title track, bella
anche se forse poco sensata visto che non si scosta minimamente dalla
versione cantata, ma tant'è, sono comunque 4 minuti di hard rock
eighties bello deciso e non sarò certo io a levare il cd dallo
stereo....
Insomma, niente di nuovo
per questo EP, ma tanta, tanta, tanta carica e un pizzico di
nostalgia, perchè Adler e soci se la cavano, fanno un solido rock
anni '80 che piace e che sa tanto, tantissimo di Guns N'Roses, forse
un po' troppo e non che ci sia nulla di estremamente male, soltanto
la nostalgia si fa sentire, perchè la carica e la voglia di fare
rock di Steven è rimasta la stessa nonostante gli anni e una
carriera ed una vita non proprio limpide e facili, di questo gli va
dato atto e tanto di cappello, ma senza stare sul palco a battere il
tempo per Slash, Izzy, Duff e Axl non è la stessa cosa. "Alive"
è un buon album, ma Steven lo sa che i Guns, i suoi Guns, quelli che
vi verrà voglia di infilare nello stereo alla fine di "Alive",
erano tutta un'altra storia....
Voto: 6,5
Tracklist:
1. Alive
2. Stardog
3. Fading
4. Alive (Instrumental
version)
Lozirion
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