venerdì 30 novembre 2012

Torneo Open di Milano

L'Associazione Culturale L'Orablù
in collaborazione con
Federazione Italiana Carrom e il Carrom Club Milano
presenta
TORNEO OPEN DI MILANO

Sabato 1/12/2012

Torneo di DOPPIO A COPPIE
iscrizioni ore 13.30 - inizio ore 14.00
Per l'occasione dalle ore 21 sarà possibile assistere
ad un'esibizione musicale degli allievi de
L'OFFICINA DELLA MUSICAdi Diego Centurione

Domenica 2/12/2012
Torneo di SINGOLO
iscrizioni ore 09.30 - inizio ore 10.00

Il torneo è aperto a tutti
Info e iscrizioni
paolo@carromclubmilano.it

Ingresso gratuito con tessera L'Orablù
L'OrablùBar - Piscina Comunale Via dante 67 Bollate - 02/83412369

giovedì 29 novembre 2012

Leggendo di leggende eccetera

Durante le mie vacanze di agosto ho letto un libro tra l’interessante e il noioso. Noioso (prima le notizie brutte) perché è una raccolta di racconti popolari e leggende, argomento non del tutto affascinante, perché si tratta di uno di quegli ambiti in cui tutto il mondo è paese, perciò le storie si ripetono. Sono racconti in qualche modo già sentiti, assomigliano sempre a qualcos’altro, anche quando sono tipici di una regione lontana. Ma non c’è nulla di strano in questo, infatti la peculiarità principale del genere “racconto popolare, fiaba, leggenda” è proprio la ripetitività, necessaria per poter tramandare le storie oralmente. Interessante per due motivi: innanzitutto perché si tratta di leggende e racconti della Lombardia, e non c’è modo migliore per conoscere una regione e la sua cultura che leggere, o ancor meglio, sentir raccontare, i suoi racconti popolari; in secondo luogo perché l’autrice, Lidia Beduschi, è una dialettologa e demologa quindi rispetta tutta la tradizione orale, cioè dialettale, traducendo fedelmente i racconti così come le sono stati raccontati, oppure precisando nelle note il tipo di modifica apportato al testo: il più delle volte si tratta di omissioni delle ripetizioni tipiche del racconto orale, come l’introduttore di discorso “dice”. Altri testi sono stati presi da riviste o da raccolte precedenti, e l’autrice riporta anche l’introduzione al testo fatta dagli studiosi che li raccolsero e pubblicarono allora.



L’introduzione a quest’opera è ciò che mi ha affascinata di più, molto tecnica e allo stesso tempo illuminante. Il lavoro del demologo non è affatto facile, e da quando questa disciplina si è sviluppata, sono stati fatti fior di studi sulla metodologia della raccolta di testimonianze popolari, ma anche sulla loro “popolarità”. Cosa significa che un racconto è “popolare”? Secondo me va bene dire che non rientra nella letteratura ufficiale, scritta, studiata a scuola, ma nel tempo è sorto agli studiosi anche un altro dubbio, infatti si era sempre considerato “popolare” ciò che era riconducibile al popolo, e si era sempre pensato che il “popolo” fosse la gran massa dei poveracci, separati da lor signori. In generale, quindi, la cultura popolare è stata sempre considerata come subalterna alla cultura alta, facendo sì che la frammentazione della documentazione apparisse come una caratteristica peculiare del genere, in quanto prodotto di un livello sociale basso e non istruito, quindi incapace di tramandare precisamente e omogeneamente le proprie storie, la propria cultura.

La frammentarietà non è la sola caratteristica che distingue la produzione orale da quella scritta, perché la prima e più evidente è naturalmente l’essere una produzione orale e non scritta, che sembra banale ma è fondamentale: un testo scritto è, secondo la Beduschi, un prodotto individuale dell’autore che se lo pensa e se lo scrive, poi qualcuno leggerà ma anche no, e in effetti non è necessario che ci siano lettori, per poter dire che un libro è stato scritto. Ma provate a raccontare una storia senza avere ascoltatori: chi non vi prenderebbe per matti? Io ad esempio lo penserei subito che siete fuori di testa. Un testo orale è, pertanto, un prodotto collettivo, le cui peculiarità sono determinate dall’esistenza di un pubblico e dal suo essere un testo orale. Mentre in un testo scritto le espressioni tipiche dell’oralità sono una scelta di stile (scelta di imitare lo stile orale), quelle stesse espressioni rappresentano il genere orale: servono per presentare la storia al pubblico, per coinvolgerlo, per stupirlo spaventarlo tranquillizzarlo; e non solo le espressioni hanno questo ruolo, bensì anche l’intonazione o i gesti di chi racconta la storia. Si tratta di un codice linguistico di difficilissima traduzione, perciò spesso la ripetitività e la povertà d’espressione (che ci sono sempre) all’interno di una fiaba saltano all’occhio solo quando questa viene messa per iscritto. Chissà se vi è mai capitato di sentire il racconto di un nonno o di una nonna, anche un banale racconto di vita quotidiana: gli viene data quell’aura di mistero antico che non riusciamo a riprodurre, quando raccontiamo a nostra volta la storia, anzi improvvisamente il racconto ci sembra così banale che ci chiediamo cosa ci avesse colpito nel sentirlo la prima volta; tutto sta nell’arte del raccontare, secondo me, che non è genetica né tipica dei vecchi, ma semmai tradizionale, e noi bambini moderni l’abbiamo persa. Con i racconti popolari infatti, secondo me non venivano tramandate solo le leggende del posto, o quelle della famiglia, ma anche la capacità di raccontare le storie nel modo giusto, in modo che, benché banali e stranote, risvegliassero sempre la stessa curiosità nel suo ascoltatore. Curiosità diversissima da quella di un lettore che legge per se stesso e in solitudine il suo libro, e al massimo dopo lo consiglia ad un amico, il quale a sua volta potrà provare lo stesso piacere di lettura, se lo leggerà per sé stesso. Invece un racconto orale non ha molta ragione o possibilità d’essere, se non viene raccontato oralmente e ascoltato da un pubblico.

Un’altra delle difficoltà del fare una raccolta scritta di racconti orali, quindi, sta nel cercare di non decontestualizzare il racconto, ma è praticamente impossibile se poi si raccolgono in una stessa opera racconti legati a momenti diversi di “vita popolare”, momenti che invece, assurdamente, coincidono con i momenti di “vita nobile o borghese”, a conferma del fatto che la cultura del racconto non è una cultura “alta” discesa a coinvolgere anche lo strato basso della società, né una cultura “bassa” che gli intellettuali hanno poi fatto propria e messo per iscritto “ufficialmente”, rendendole quasi omaggio, oppure sradicandola dalla sua culla. Anche il racconto orale, come quello scritto “letterario” ha una sua forma specifica, nonostante non sia stata ancora definita una tipologia di testi: “Leggende, racconti, aneddoti, per la loro diversa funzione sociale, presentano una incompletezza che è loro caratteristica […] Una testimonianza è sempre soggetta a determinate regole di composizione che limitano la scelta dell’informatore nei riguardi del contenuto che vuole trasmettere, e non solo del contenuto, possiamo aggiungere, ma della struttura formale contemporaneamente […] Offrono un indispensabile supporto mnemonico.”

Sia gli argomenti, sia la struttura della narrazione possono essere considerati universali, inoltre un racconto popolare non può ricevere un’etichetta geografica, perché come molte cose legate all’oralità (come la stessa lingua) non ha confini netti ma, spostandosi, si presenta piuttosto come un continuum di variazioni impercettibili che, se invece consideriamo solo il punto di partenza e il punto di arrivo, si mostrano come differenze nette. Io però non parlerei nemmeno di punto di partenza e di punto di arrivo se non a livello diacronico, infatti credo che il punto di partenza sia la notte dei tempi, il punto d’arrivo sia il giorno d’oggi, anche se spero che noi riusciremo a trasformalo in tappa intermedia verso le generazioni future di contastorie. La Beduschi parla anche di variazione sincronica, perché nello stesso lasso di tempo la tradizione narrata varia in base alla stratificazione sociale più che all’area geografica, ma contemporaneamente mette in dubbio una possibilità di distinzione, facendo l’esempio dei girovaghi e dei vagabondi, che si spostano dalla campagna alla città, portando con sé molte storie, che quindi entrano a far parte sia della tradizione contadina (tradizionalmente considerata “povera”) che della cultura cittadina (“ricca”); nomina anche il bisogno di miti consolatori che sarebbe all’origine di certi racconti, bisogno che infatti abbiamo tutti, ricchi e poveri, da sempre, anche quando inconsapevolmente. Le leggende si spostano, quindi, senza confini geografici né linguistici, tanto che è possibile ritrovarle simili in aree del mondo lontane fra loro per lingua, cultura e pure fisicamente, e semmai sono semplicemente adattate al contesto, difficile dire ora chi o dove fosse la matrice, tendenzialmente si affida la paternità al primo che le ha messe per iscritto, sbagliando di brutto, è chiaro, visto che esistono ancora popoli la cui lingua è solo parlata e non hanno una versione scritta e “ufficiale” della loro lingua, né pertanto delle loro tradizioni. A proposito di adattamenti, in Lombardia le storie hanno come protagonista il figlio furbo di un contadino nelle zone di pianura, il figlio furbo di un pescatore nelle zone lacustri, il figlio furbo di un pastore nelle zone di montagna; mentre rispetto ad altre regioni d’Italia, hanno come animale fantastico, buono o cattivo, il drago, comune però ad altre zone d’Europa a nord delle Alpi. Si tratta di motivi locali che adornano e rendono tipica una storia dalla struttura narrativa (più o meno) invariata in tutto il mondo.
Te capì?

Lo Spirito consiglia: il menù di san Bartolomeo (nelle foto); e il libro di cui vi ha parlato (almeno l’introduzione, dai): Leggende e racconti popolari della Lombardia di Lidia Beduschi.

Elle

mercoledì 28 novembre 2012

Sangue zingaro


Sua madre gli raccontò che quando nacque pioveva a dirotto da giorni e che Ft Worth - nello stato della stella solitaria - era diventata un’immensa pozzanghera. Le doglie le presero in anticipo di un mese e, siccome lui era il primo figlio, fu assalita dal panico. A quel tempo la zona in cui abitavano era abbastanza isolata e distante dall’ospedale. Suo marito era fuori per lavoro e non sarebbe rientrato prima di un paio di giorni. Tentò di chiamare aiuto per telefono, ma le linee erano interrotte per le forti piogge. Non sapeva che fare. Nonostante tutto cercò di vincere l’angoscia e di non farsi soggiogare dagli eventi .
Robert Lockwood era un tipo strambo, veniva da Chicago e viveva nella casetta di fronte. Come tutti i musicisti dormiva di giorno e alla sera suonava nei locali sparsi nei dintorni. Un tipo gentile, però. Quelle poche volte che si erano incrociati per la strada l’aveva salutata sorridendole. Ma lei non si fidava dei neri vagabondi che suonavano il blues. Si raccontavano strane storie su di loro, si diceva che avevano il diavolo in corpo e che erano assai pericolosi, bevevano come spugne e violentavano le donne, specie se bianche. Adesso quell’uomo bussava alla sua porta perché l’aveva sentita urlare e lei non aveva alternative.
Quando aprì l’uscio la pioggia veniva giù impetuosa, accompagnata da un vento gelido. Robert, avvolto in un impermeabile, era inzuppato come un pulcino. – Tutto bene, signora? – le disse, sorridendole. Ma lei non fece in tempo a rispondere che svenne. Quando riaprì gli occhi era distesa sul letto, l’uomo aveva già preparato l’occorrente per il parto e le rideva benevolo. Lo osservò, si senti sicura e le parve, da come si muoveva, che sapesse il fatto suo. Dopo un’ora di travaglio e di dolore per le contrazioni, Mason, prima usci la testa, poi le spalle e nacque. Mr Lockwood tagliò il cordone ombelicale, lo alzò in aria come Mosè e lo diede alla signora Ruffner. Fu in quel frangente che, ancora umido, il blues gli si attaccò addosso. A volte non si può barare con il proprio destino.
Il piccolo Mason crebbe a casa di Mr Lockwood. Ci andava ogni giorno dopo la scuola e ci restava tutto il tempo possibile. Dopo quella notte Robert era diventato uno di famiglia ed è in quella casa che il “Flaco” imparò i primi rudimenti della chitarra e i suoi segreti, conobbe i vari maestri del blues: T-Bone Walker, BB King, Jimmy Reed, Robert Johnson, Elmore James, Chuck Berry, Howling Wolf, John Lee Hooker, Otis Rush, Lightnin Hopkins e s’innamorò perdutamente di quel treno di fuoco che era la musica di Jimy Hendrix. Ma Mason era un talento e presto sotto l'aspetto tecnico superò il suo maestro.  Di questo Mr Lockwood ne fu orgoglioso. Oltre ad ascoltare e suonare il blues, Mason guardava il mondo con gli occhi della poesia e, per un ragazzo che si aggrovigliava nell’animo, fu naturale accostarsi al genio lirico di Bob Dylan e del poeta Arthur Rimbaud, ambedue anime inquiete, sovversive e vagabonde che gli fornirono gli spunti necessari per iniziare a scrivere le sue canzoni. ”Non parlerò, non penserò a niente: Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima e andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro nella natura, felice come con una donna. (Sensazione -Marzo 1870-). Ma anche Baudelaire e il conte Lautrèamont furono importanti nel suo bagaglio culturale. Aveva tracciato quella analogia tra il blues e la poesia francese perché reputava che entrambi lenissero il dolore pur biascicando tristezze.
La vecchia strada era piena di polvere che il vento gli sbatacchiava sul viso. Il sole fece brillare il suo dente d’oro con le iniziali incise. Fu allora che New Orleans gli comparve all’orizzonte. Arrotolò i sogni dentro un joint, accese l’autoradio che trasmetteva “Truck Stop Girl” e spinse sull’acceleratore. “Portami lungo New Orleans, non tenermi qui, devo suonare il blues a Bourbon Street, e scacciare suonando questa tristezza solitaria. Scommetto che i joints stanno piovendo a New Orleans. Se io rotolo e fumo, bambina, non ho bisogno di dormire. Si dice che le ragazze più carine sono in Texas, so che tu sei fuori da questo mondo, ma devo andare a New Orleans e trovare una ragazza creola” (Down to New Orleans).
Il caldo umido fu rotto da una pioggia a scroscio che gli sembrò un battimani e Bourbon Street si spopolò alla svelta. Mason rimise la chitarra nella custodia riparandosi sotto una pensilina. Aveva scritto diverse canzoni, ma non trovava nessun musicista che avesse voglia di mettersi in gioco con materiale nuovo. Tutti quelli che aveva incrociato desideravano suonare solo cover di Sly And the Family Stone. Quando non si ha fretta ci si perde facilmente per la strada. Ma questo non era il suo caso. Irrequieto e curioso inseguiva le parole come se gli cadessero dal cielo ed era necessario afferrarle prima che sparissero. Intanto che fremeva di vederle in faccia, una ad una quelle anime della notte, ammucchiate giù nel fondo.
Se vuoi una cosa con tutto te stesso, prova e riprova a volte finisce che la ottieni. Ora possedeva una band, The Blues Rockers, che aveva scelto con estrema pazienza. Voleva essere certo che i musicisti fossero in grado di catturare quel groove che rincorreva da quando Mr Lockwood gli mise in braccio la sua Gibson Les Paul. Non faceva altro che ripeterglielo “trova il groove Mason, il groove”. Cosi, insieme a Chris Clifton alla chitarra, Mike Stockton al basso e Willie Cole alla batteria, ogni sera per 200 sere all’anno si esibisce al Club 544 in arroventati set. La mano corre veloce lungo il manico della sua scuoiata Stratocaster, entra ed esce dalla canzone con fraseggi melodici fulminei impasta perfettamente il blues con il rock’n’roll e canta con una voce liquefatta alla Dylan. La sua innata simpatia gli fa conquistare il pubblico, che ogni notte è sempre più numeroso ed ha il sostegno di Memphis Slim e John Lee Hooker. Alla fine del giro si ritrova sotto il palco musicisti del calibro di Bruce Springsteen, Jimmy Page, Robbie Robertson, Carlos Santana, Stevie Ray Vaughan e Billy Gibbons degli ZZ Top, tutti a vedere il nuovo Santo in città. Quelle canzoni finalmente ottengono un contratto discografico con la CBS e un produttore, Rick Derringer.
Giù nei quartieri di periferia hanno spento le luci e i rinnegati vanno a zonzo come fossero gli ultimi romantici con in tasca piccoli diavoli blu da donare alla rosa di Tralee, che vestita di bianco è avvinghiata nelle braccia del Gitano. Danza, danza, danza la “Serenata” lungo le strade prima che la notte venga su, prima che la notte l’inghiotta per sempre. Riviste e giornali prestigiosi lo applaudono. Salta sul treno dei desideri andando in tour con Jimmy Page, ma tenendo i piedi ben piantati in terra. Da viaggiatore solitario sa bene che tutto può svanire in un attimo. E allora cerca di difendere la sua anima, di seguire la sua strada senza precipitare. Le vendite del disco “Mason Ruffner” sono esigue, appena settemila copie, ma non si scoraggia. Ha i giusti anticorpi per affrontare la situazione. Gli uomini di blues hanno la pelle dura. Durante il tour con Page, scrive nuove canzoni e, suonandole, si rende conto che ha del buon materiale, occorre solo metterlo bene a fuoco.
La CBS gli offre un’altra chance. Questa volta il produttore che lo affianca è un rocker gallese che conosce la materia. Nick Lowe sa come mischiare rock’n’roll e blues nelle giuste dosi e giocare sulla semplicità che è quasi sempre la carta vincente. La Stratocaster di Mason viene posta in primo piano, esaltata , rinvigorita e vengono fuori quelle influenze cajun che ha assimilato in Bourbon Street. Cosi “Runnin” diventa un piatto fumante di gumbo offerto da Dr John attraverso Stevie Wonder, cantata alla John Hiatt. “Gypsy Blood”, che è anche la title track del film “Steel Magnolias”, è magnetica e diretta. Una di quelle canzoni che chiunque pagherebbe per scriverla. Colpisce con licks e riffs che sono una prelibatezza ed è Bibbia per tutti quelli cresciuti nei bassifondi del rock. "Dio sa che sono nato zingaro, il mio cuore non ti può rubare,cieco ho messo la mano sulla mia valigia  viaggiando con la mente è quel sangue ,quel sangue zingaro che mi porta lontano dall'amore" (Gypsy Blood). Il video che l’accompagna è fonte d’ispirazione per questo blog. Da uomo libero che non ha smesso di andare, vedere e sentire, compone canzoni che sono un attestato all’indipendenza “Dancing on top of the world” e “Fightin’ Back” parlano chiaro sui suoi propositi. ”Distant Thunder” è una ballata carica d’amore e poesia, con sullo sfondo Bob Dylan e tutte quelle solitudini piene d‘amore e dignità che vagano libere sotto i cieli del mondo.
La copertina di Gypsy Blood ritrae Mason Ruffner come se fosse il Brando di “Fronte del Porto” o il James Dean di “Gioventù Bruciata” e alla fine il disco fa breccia nei cuori di chi ha giocato d’azzardo tutto quello che aveva ed ha preso la strada dell’inquietudine. Luccicando sotto la luna come una moneta nuova, gettando via gl’incubi rimasti a dondolare nel cielo. Dopo l’uscita del disco Mason va in tour come spalla agli U2 e Crosby Stills & Nash. Viene chiamato da Daniel Lanois per lavorare nel suo disco d’esordio “Acadie” e corona il sogno di una vita suonando per sua maestà Bob Dylan in “Oh Mercy” disco da queste parti molto amato. Nello stesso anno apre i concerti di Ringo Starr. Poi stacca la spina e fugge via.
Il rettifilo era infinito. Superò degli autocarri colorati e rallentò. All’incrocio vide le strade bianche di polvere correre parallele, non ci pensò due volte a svoltare. Percorse diverse miglia, poi si fermò in una pompa di benzina, comprò delle birre e ne stappò una. Non provava nostalgia o rimpianti, voleva tornare a casa perché adesso si trattava di decidere che direzione prendere. Dopo un periodo di tregua, abbastanza lungo da farsi dimenticare, ritorna con un album indipendente “Evolution” che è un mix dei due precedenti con la novità che lo si può ascoltare anche in versione acustica. Evolution contiene una canzone “Angel Love” di cui Carlos Santana si innamora e Mason riparte in tour. Ma, come tutti i cani sciolti, dopo un po’ ritorna a vagare per le sue strade secondarie dove il caldo e l’afa ammazzerebbero chiunque si avventuri, dove il cielo è una cascata di stelle e la terra risplende in tutta la sua nuda bellezza. Scrive ancora canzoni che si rifanno alla tradizione dei padri secolari del blues e a Memphis incide un nuovo album dal titolo emblematico, “You Can’t Win”, con una band, a detta di lui, la migliore che abbia mai avuto. Ad oggi è la sua ultima fatica discografica. "Tienimi la tua luce addosso, vengo a casa, la mia anima urla, il mio cuore mugola ho visto le ali della pazzia, tutto da lavare via, ma cose cosi' qui non accadono" (Keep on your light one for me).
Le luci dei lampioni sono spente e nell’oscurità qualcuno barcolla. I fuggiaschi hanno vestiti a coda di rondine. E’ quel buco nel cielo, è la follia che ci fa andare avanti sin da quando giovani e incoscienti ci spingiamo nel baratro dei sentimenti. Stavamo seduti su una panchina sulla riva del Mississippi, in faccia aveva stampato quel sorriso che gli ballonzolava. Quel sorriso adolescenziale animava chiunque lo incontrasse, era contagioso e rilassante. Nonostante il mondo lo ignorasse come musicista, lui era felice per come erano andate le cose ed era sempre pronto a cantare e suonare, sera dopo sera, dando il massimo di sé. Me lo disse mentre guardavamo il Mississippi scorrere lento. Solo una cosa aveva nascosto nel ripostiglio dell’anima, e questo lo aveva preservato da tutto: l’innocenza. L’innocenza di quando, bambino, guardava il mondo meravigliandosi . Ancora oggi, che di strada ne aveva percorsa tanta, si sentiva cosi.

Bartolo Federico

Serata Faber, le immagini



Alcune immagini della serata Faber - Non ho un faccia adatta alle mie canzoni svoltasi sabato 24 novembre a L'OrablùBar.















martedì 27 novembre 2012

Diaz - Non pulire questo sangue


Questa volta il film che rappresenta la nostra Ora Cult ha ben due recensori: al Ragazzo Cannibale si aggiunge Beatrix Kiddo (ricordate Newmoon?). Fateci sapere la vostra su questa doppia recensione.




RECENSIONE 1

Diaz - Non pulire questo sangue

(Italia 2012)
Regia: Daniele Vicari
Cast: Jennifer Ulrich, Elio Germano, Claudio Santamaria, Davide Iacopini, Renato Scarpa, Ralph Amoussou, Fabrizio Rongione, Antonio Gerardi, Paolo Calabresi, Ignazio Oliva, Rolando Ravello
Genere: crudo
Se ti piace guarda anche: ACAB - All Cops Are Bastards, Elephant, Polytechnique

Impossibile dire “Mi è piaciuto, non mi è piaciuto” per un film come questo. Non è una visione piacevole, non ci sono dubbi. Le sensazioni che si provano sono più vicine a quelle di una pellicola horror. Come The Human Centipede, solo che è tutto vero. È successo tutto e qui, in Italia. Non in qualche regime del passato o in qualche luogo distante. Si fa fatica a crederlo, eppure ripensando a quei giorni, a quella confusa fine di luglio 2001, torna alla mente un periodo di enormi tensioni, che oggi stanno ritornando prepotentemente, in Italia quanto in altri paesi. Sta tornando l’odio, le tensioni sociali, le guerre dei poveri, tra chi cerca di far valere i propri diritti e i poliziotti. E i politici? Loro no, non sono in mezzo al campo di battaglia. Loro assistono (forse pure divertiti) agli scontri da lontano. Tranquilli e beati.

L’attacco, perché di questo si è trattato, dei poliziotti alla scuola Diaz è qui presentato con una ferocia che fa tornare alla mente altre visioni scolastiche. I telefilm americani ambientati nelle high school come Beverly Hills o Dawson’s Creek?
Non esattamente. Mi riferivo più a cose come Elephant o Polytechnique, film su stragi compiute da pazzi. La differenza è che qui sono compiute dalla polizia, su precisi ordini dall’alto. Qui si tratta di una lucida follia di massa. L’irruzione alla Diaz presentata in maniera nuda e cruda da Daniele Vicari è sicuramente tra le scene horror dell’anno e anche in alcuni altri momenti  il regista italiano ci regala attimi di grande cinema. Non solo di cinema verità o di cinema di denuncia.



Purtroppo, a livello cinematografico non tutto funziona così bene. Il livello di recitazione ad esempio è decisamente bassino. Bravi Claudio Santamaria e la martoriata Jennifer Ulrich (vista anche nel notevole L’onda), mentre diversi altri attori e comparse appaiono parecchio impostati, poco naturali, come se recitassero in una fiction di bassa lega. Ed è un peccato, perché Vicari invece dirige per lo più con piglio deciso.
A far nascere qualche dubbio è poi la scelta di raccontare la storia in maniera eccessivamente corale. Una scelta che ci permette una pluralità di punti di vista, ma che risulta persino troppo frammentaria. Per quanto avrebbe potuto inficiare sull’effetto realistico del tutto, non sarebbe stato male approfondire maggiormente alcuni personaggi. Nella prima poco convincente mezz’ora, in particolare, si ha un quadro troppo generale e si fa fatica ad avvicinarsi ai personaggi.
Il bello del film, o meglio il brutto, arriva con l’irruzione della polizia alla Diaz. Porco Diaz, che scena! È qui che la pellicola si trasforma da semplice e diligente ricostruzione di un momento nerissimo della storia italiana recente, da cronaca di una pagina vergognosa, a qualcosa di più. Diventa un horror vero e proprio. Sembra di essere in un episodio di The Walking Dead, solo che al posto degli umani ci sono i poliziotti, e al posto degli zombie ci sono le persone che se ne stavano tranquille e pacifiche alla Diaz.



Diaz - Non pulire questo sangue può anche essere visto come un j’accuse contro la polizia italiana e in fin dei conti lo è. Anche perché è tutto successo, tutto documentato e tutto prontamente infangato, con una giustizia, molto parziale, che è arrivata a punire (una parte de)i colpevoli solo di recente, con anni di ritardo. Da un punto di vista cinematografico, Diaz convince a tratti, mentre lascia perplessi in alcune parti. Il finale, ad esempio: chiudere sul primo piano di Jennifer Ulrich, protagonista delle scene fisicamente più pesanti, sarebbe stato perfetto; l’ultima sequenza con l’inquadratura delle colline invece, che cosa mi rappresenta?
Un altro dubbio che mi viene è: cosa può pensare di questa visione chi quell’anno di disgrazia 2001: Odissea nello strazio non l’ha vissuto in presa diretta? Io non ero fisicamente presente alla Diaz (per fortuna) e non ero a Genova, però ho seguito i fatti attraverso la visione distorta fornita dai media e ho pian piano scoperto qual era stata la tremenda realtà. Ma un 18enne, ad esempio, o comunque chi di questa vicenda non sa nulla, cosa ne può pensare dalla sola visione del film? Vicari ha realizzato una ricostruzione molto ambiziosa, ma è riuscito davvero a ricreare quel periodo, con tutte le sue contraddizioni?
Sì? No? Ni? Secondo me in parte sì, ma non al 100%. È come se mancasse qualche pezzo di questo complesso puzzle. Il punto dei vista degli sbirri, ad esempio. Vediamo il poliziotto “buono” Claudio Santamaria, mentre la follia degli altri ACAB si sarebbe potuta approfondire. Da un punto di vista politico, poi, vediamo le solite porcherie dell’organizzazione locale, ma quelli che stavano più  in alto? Quelli del G8 per cui alla fine tutti questi casini sono nati? Si poteva forse osare qualcosina di più, sotto questo aspetto.
Pur con tutti i suoi difetti, Diaz resta comunque un film necessario, un pugno allo stomaco dello spettatore. E uno degli horror italiani più spaventosi dai tempi di… Dario Argento quando era in forma?
Nah, direi dai tempi di... Videocracy.
(voto 6,5/10)
Cannibal Kid


RECENSIONE 2



Una bottiglia che si infrange tante volte, un incubo mostrato da diverse prospettive.
Scegliendo la forma del film corale, nessuna interpretazione emerge rispetto alle altre, e mischiando le riprese con filmati originali del periodo, Vicari racconta gli avvenimenti accaduti nella notte tra il 21 ed il 22 luglio 2001, quando un gruppo di persone, che aveva la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, venne letteralmente massacrata di botte dai poliziotti che fecero irruzione nella scuola, presunto "manufatto pieno di anarco insurrezionalisti". Molti di loro vennero successivamente trasportati nella caserma di Bolzaneto, privati di ogni diritto, di fatto trasformati in veri e propri desaparecidos, e sottosposti ad ulteriori violenze ed umiliazioni.
Cosa è "Diaz"?"Diaz" è un film difficile da vedere, ricorda molto "Garage Olimpo" perché Vicari non risparmia nulla.
Per parecchio tempo gli unici rumori che sentiamo sono quelli del tonfa, il manganello dei carabinieri e le urla di chi veniva selvaggiamente colpito.
Ma il peggio arriva dopo.



Le violenze e le umiliazioni subite nella caserma di Bolzaneto,  atterriscono, così come la montagna di menzogne costruite per coprire la mattanza.
Assistiamo attoniti e sdegnati a prove fabbricate ad arte, le molotov messe lì dagli stessi poliziotti, gente che ha gettato fango sulla divisa che portava, ed a surreali  conferenze stampa per giustificare l'ingiustificabile. L'irruzione sembra quasi una rappresaglia per la totale incapacità di controllare i Black Block che misero a ferro e fuoco Genova una valvola di sfogo per gli agenti sotto pressione in quei giorni. Ma in quella scuola non vi erano ne Black Block ne criminali di nessun tipo.
"Diaz" è, soprattutto, un film necessario. Da vedere e da far vedere.
Per ricordare che, nonostante una sentenza, è una vicenda circondata da diversi coni d'ombra.
"Non pulite questo sangue" non è soltanto quello che scrive una ragazza  su una finestra, è una sorta di grido lanciato ad una nazione che tende a dimenticare le sue pagine più vergognose.

Beatrix Kiddo

lunedì 26 novembre 2012

Una messa moderna



Sarà stato forse l’anno 1974 o al massimo i primi del 1975, e io ero un ragazzino di 13 o 14 anni.
Il mio vicino di casa, che chiameremo Marco (perché in effetti si chiama così), aveva invece qualche anno in più di me e soprattutto aveva a disposizione abbastanza soldi per potersi permettere un impianto Hi-Fi e per potersi comprare dei stupendi LP. Tutti neri, lucidi, con suoni nuovi e per me inascoltati e avevano delle copertine bellissime; alcune avevano foto artistiche, altri disegni e immagini fantastiche e io avrei passato ore ed ore ad ascoltarli e a guardarli.
Sta di fatto che il povero Marco, il pomeriggio si ritrovava, spesso e volentieri, a subire la mia visita inaspettata e senza preavviso. Io però mica ci andavo perché volevo scambiare quattro chiacchere con lui; io volevo ascoltare quella musica nuova, tenere in mano quelle copertine con religiosa attenzione, perché i suoi Lp erano tutti protetti da copertine in cellophane in modo che non vi restassero sopra sia la polvere che le impronte digitali di ragazzini rompi balle.
E così il povero Marco, si doveva subire la mia presenza. Però non se la sentiva di cacciarmi o peggio ancora di farmi ascoltare la musica più avanguardistica del periodo, perché i miei gusti musicali erano all’inizio e allora cercava di mettermi su qualche disco che fosse almeno semi-orecchiabile.
Oltre ai classici Beatles (Rolling Stones assolutamente banditi), a qualche cosa di californiano, spesso mi faceva ascoltare una canzone strumentale che aveva quale strumento principale le campane tubolari (a quei tempi io mica sapevo che cosa fossero). E anche se il pezzo mi piaceva molto, non ho mai imparato il titolo e manco chi fosse l’autore.
Gli anni sono passati e dopo qualche tempo e molti risparmi, mi sono potuto permettere anch’io un impianto simil Hi-fi e qualche Lp; nel frattempo ero informatissimo su tutti i gruppi del periodo e mi ero imparato a memoria tutte le formazioni dei gruppi storici. Scoprii pure che cosa fossero le campane tubolari e soprattutto che esisteva un Lp che si intitolava proprio Tubular bells.
Subito ho pensato: “Ecco cos’era quel pezzo che Marco mi faceva sempre ascoltare e che mi piaceva così tanto. Quello con le campane tubolari, con quel ritmo così veloce e piacevole, con quelle chitarre elettriche in sottofondo e quei suoni strani emessi da qualche Mellotron di passaggio”.
Ancora qualche risparmio e finalmente riesco a comprarmi (in offerta) l’Lp più famoso di Mike Oldfield. Però qualcosa non mi tornava, perché sulla copertina non c’era manco una parola in francese, mentre io mi ricordavo chiaramente che “quel pezzo maledetto con le stramaledettissime campane tubolari” aveva a che fare con la Francia.
Finalmente mi ascolto tutto l’Lp in religioso silenzio, senza però trovar traccia del pezzo ricercato. Maledico Mike, le sue campanacce e maledico pure me: "perché non ho chiesto a Marco il titolo prima di comprare il disco"
Gli anni sono passati, per un certo periodo ho fatto pace con il buon Oldfield e adesso Marco lo vedo molto di rado. Di Lp ne ho parecchi, ma mi manca il tempo di riascoltarli.
Anche perché ho la pessima abitudine di farmi un riposino al sabato pomeriggio e regolarmente mi addormento con la televisione accesa.
Qualche sabato fa, mi succede di svegliarmi di soprassalto e di accorgermi che dalla tv proviene un suono di campane tubolari: porca paletta, È LEI.
Mi metto seduto sul divano, convinto di avere ancora 14 anni, mi guardo attorno per vedere se c’era Marco nelle vicinanze e finalmente realizzo di avere 50 anni.
Quella maledetta e bellissima canzone che aveva cercato inutilmente; adesso però non mi scappa più. E con rammarico scopro che oggi la “mia canzone delle campane tubolari” è la sigla di un cartone animato per ragazzini.
Il suo titolo è Psyché Rock ed  è un brano musicale psichedelico e avanguardistico del 1967 che  Pierre Henry aveva composto quale colonna sonora per un balletto ultra moderno (per quei tempi) dal titolo Messe pour le temps présent.
Che delusione; oggi fa poco più che tenerezza e al massimo può essere utilizzata come colonna sonora di Matt Groening o al massimo per una pubblicità.
Però mi piace ancora e finalmente ho colmato una grandissima lacuna culturale che mi perseguitava da decenni.
FRANZ III
GRANDUCA DI MOLETANIA


sabato 24 novembre 2012

Diretta Streaming "Faber - Non ho una faccia adatta alle mie canzoni"

Torna anche questa sera L'Ora di Suonare.
Dalle ore 21:00 l'appuntamento all'Orablu Bar si rinnova con una serata interamente dedicata all'indimenticato Fabrizio De Andrè. Nessuna cover band però, ma un spettacolo, a metà fra musica e teatro, nel quale si ripercorre la carriera del grande cantautore genovese, attraverso le sue più belle canzoni.

Se non puoi partecipare alla serata, seguila in diretta streaming.

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Faber - Non ho una faccia adatta alle mie canzoni






Torna l' ORABLU' con una serata interamente dedicata all'indimenticato Fabrizio De Andrè. Nessuna cover band però, ma un spettacolo, a metà fra musica e teatro, nel quale si ripercorre la carriera del grande cantautore genovese, attraverso le sue più belle canzoni.

Per chi volesse partecipare, l'appuntamento è per le ore 21.00 all'Orablubar di Bollate, via Dante 67.
Per tutti gli altri, la serata andrà in onda in diretta streaming su questo sito sempre a partire dalle 21.00.
Buon divertimento!



martedì 20 novembre 2012

Looper


Looper
(USA, Cina 2012)
Regia: Rian Johnson
Sceneggiatura: Rian Johnson
Cast: Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis, Emily Blunt, Jeff Daniels, Noah Segan, Paul Dano, Piper Perabo, Qing Xu, Tracie Thoms, Pierce Gagnon
Genere: viaggi nel tempo
Se ti piace guarda anche: In Time, Memento, Gattaca, L’esercito delle 12 scimmie, Terminator

Oggi parliamo di viaggi nel tempo.
Come? Un altro film sui viaggi nel tempo? Dopo i recenti Sound of My Voice e Safety Not Guaranteed, eccone un altro: Looper. Perché il Looper perde il pelo, ma i produttori hollywoodiani non perdono il vizio di riciclare gli argomenti. E così oggi come non mai i viaggi nel tempo sono tornati ad essere cool. Di sicuro più dei viaggi in crociera…
Quando si ha a che fare con la tematica temporale, un po’ come per i film su vampiri e zombie, c’è subito qualcuno che a torto o a ragione grida subito al: “Cult!”. Io per primo sono tra i primi a farlo. In questo caso no. Nel caso di Looper, qualcuno ha gridato al: “Cult!”, mentre io al massimo posso gridare al “Finto cult!”, perché Looper parte in maniera eccitata ed eccitante, ma si ammoscia progressivamente fino a un finale che non sta né in cielo né in terra. Procediamo comunque con ordine e torniamo back in time.

Looper è ambientato nel 2044, in un’epoca in cui il viaggio nel tempo non è ancora stato inventato. Sarà inventato solo una trentina d’anni più tardi. Cominciate già a non capire nulla? Normale.
Direttamente dal 2074, comunque, un’associazione criminale manda indietro nel tempo dei tizi, in modo da ucciderli, farli sparire nel passato poiché nel presente (ovvero il 2074) è diventato impossibile eliminare qualcuno fisicamente senza attirare sospetti. Joe è uno di questi killer del passato. Qualcuno ha detto Killer Joe? No, questa è tutta un’altra storia rispetto al film con Matthew McCounaghey. Purtroppo.
Il destino di ognuno di questi killer è però quello di chiudere il suo loop, chiudere il cerchio eliminando il sé stesso del futuro. Ma per Killer Joe, facciamo che chiamarlo Joe il killer per non confonderci, le cose andranno diversamente…

Continuato a non capire nulla? Normale, normalissimo. Raccontato così è un po’ complicato da capire. Il film però spiega tutto perfettamente, almeno all’inizio. Uno dei problemi del film è proprio questo: c’è troppo spiegone. Lascia poco spazio all’immaginazione, al mistero. Fin dai primi minuti il protagonista ci racconta per filo e per segno cosa succede e come è regolato il suo lavoro, senza nemmeno concederci un attimo per chiederci: “Cosa sta succedendo?”. L’altro problema del film è che invece nella parte finale abbandona ogni logica e diventa sconclusionato e assurdo. Tanto che nemmeno il regista e sceneggiatore Rian Johnson è riuscito bene a spiegare la logica seguita dal suo script (leggete qui la sua spoilerosa intervista solo se avete visto il film).

Le intenzioni iniziali di Rian Johnson, che all’esordio aveva ben impressionato con Brick - Dose mortale (sempre con Joseph Gordon-Levitt), sono buone. Il film sembra essere il classico thrillerone fantascientifico di quelli che andavano più negli anni ’90 che oggi. Qualcosa che oggi appare non troppo distante dall’Andrew Niccol più di In Time che di Gattaca. Tra riprese roteanti alla Donnie Darko e un’atmosfera da noir futuristico ma allo stesso tempo retrò, la prima parte del film intriga e fa ben sperare. Sebbene ci sia fin da subito qualcosa che non torni…



A T T E N Z I O N E  S P O I L E R
Il protagonista Joseph Gordon-Levitt ha la faccia strana, in questo film. Uno si chiede: “Ma perché gli hanno modificato la faccia?”. E dopo un po’ capisci perché l’hanno fatto, sebbene questo perché non è che abbia molto senso.
Joseph Gordon-Levitt a un certo punto invecchiando si trasforma in Bruce Willis e la cosa non è molto credibile. I due attori non si somigliano per niente, per quanto il primo sia geneticamente modificato e truccato in modo da cercare di farlo apparire come la versione giovane di Bruce. Con risultati così così. Io adoro entrambi, sono miei due idoli personali sia chiaro, però a livello di casting avrebbero potuto scegliere due attori che si assomigliano di più, anziché cercare di trasformare (in maniera vana) uno nell’altro.
Se Joseph Gordon-Levitt per la prima volta non mi ha convinto molto, sarà proprio per la sua faccia “finta” più che per la sua interpretazione, Bruce Willis ormai sembra finito in un looper, in un cerchio ripetitivo: ormai continua a fare sempre la stessa parte. Non recita più, si limita a “fare il bruce willis”. E comunque i viaggi nel tempo li aveva già fatti nel parecchio, ma parecchio parecchio superiore L’esercito delle 12 scimmie, e con il fantascientifico ha già dato in varie altre pellicole, da Il quinto elemento fino a Il mondo dei replicanti, cui in qualche modo questo Looper finisce per somigliare.

Il doppio Joe il killer interpretato dai due miei idoli non convince quindi un granché, così come i dialoghi ai limiti dell’assurdo tra i due. Quanto agli altri che ruotano intorno al loro loop, ci sono personaggi troppo abbozzati: l’amico Paul Dano, cui potevano regalare qualche momento in più di una sola fluttuazione telecinetica di monetine, o la femme fatale Piper Perabo.
Piper Perabo ha le pere davvero piccole. Minuscole. Al confronto, Kristen Stewart è Pamela Anderson. Sarà per questo che non le hanno riservato troppo spazio?
Il cattivone interpretato da Jeff Daniels è poi poco convincente, sarà che Jeff Daniels ha la faccia troppo da buono per riuscire credibile come cattivone.



Nonostante non convinca del tutto, comunque, all’inizio Looper ci dà l’illusione di trovarci di fronte a un film di solido intrattenimento. Nella seconda parte, la pellicola invece si sgretola, con una struttura da Memento mal riuscito che lo fa diventare un Christopher Nolan for dummies.
A un certo punto, la storia rallenta improvvisamente il ritmo. Joe il killer si ferma in una fattoria con Emily Blunt. Per farsi Emily Blunt, e fin qui niente di male, ma anche per proteggere un bambino, che nel futuro diventerà il “rainmaker”, lo stregone dotato di poteri telecinetici assurdi che dominerà il mondo. Joe il killer ha quindi un compito alla Terminator, però dovrà proteggere non il salvatore dell’umanità, bensì il distruttore dell’umanità. E poi, già da bambino è davvero odioso! Perché proteggerlo?
Al di là di questo, nella seconda parte è tutto un altro film, noioso e pretenzioso, e giunge a un finale come già detto buttato lì a casaccio, giusto per chiudere il cerchio.

Non posso quindi fare a meno di gridare al “Finto cult!”, oltre che gridare alla “Cocente delusione!”, perché all’inizio Looper ti prende la manina e ti fa immaginare di poterti trovare di fronte a una figata, mentre dopo prende il Valium e ti fa quasi addormentare.
Com’è possibile? Come si fa a gettare così al vento delle premesse tanto buone? Perché questo Looper non è un film riuscito? Credo sia perché fa una cosa che qualunque buon film sui viaggi nel tempo non dovrebbe mai fare. Mai. Viola palesemente la regola numero uno del Doc Brown di Ritorno al futuro: evitare di incontrare il se stesso del futuro.
(voto 6/10)

Cannibal Kid

lunedì 19 novembre 2012

Grey Ghost Unplugged

Ottimo successo di pubblico per il primo concerto organizzato all'interno de L'OrablùBar nella rassegna L'Ora di Suonare. I Grey Ghost hanno esibito il loro country-folk-rock per due ora circa. Grazie mille a Manolo, Daniele, Matteo e a tutti i presenti alla serata.
Seguono acune immagini.

sabato 17 novembre 2012

L'Ora di suonare è arrivata...


Buonasera a tutte/i. Eccoci con una nuova diretta streaming.
Nuova iniziativa a L'orabluBar: L'Ora di suonare.  Stasera saranno di scena i Grey Ghost Unplugged. Seguite la diretta dalle ore 22.00.

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venerdì 16 novembre 2012

Minimal incipit



I Minimal Incipit realizzati da C[h]erotto in bella mostra grazie al video di Pablo Solina.
A breve sarà possibile ammirare le opere anche in un blog/vetrina creato appositamente per chi fosse interessato ad acquistare i Minimal Incipit.

giovedì 15 novembre 2012

L'Ora di suonare


Dopo L'Ora di raccontare è giunta L'Ora di Suonare! Primo concerto a L'OrablùBar con i Grey Ghost in versione unplugged. E come per sabato scorso vi diamo appuntamento in Via Dante 67 a Bollate oppure potete seguire anche in questo caso la diretta streaming su questo blog.
Per ulteriori info scrivete p ure a info@orablu.com

martedì 13 novembre 2012

Argo


Argo
(USA 2012)
Regia: Ben Affleck
Sceneggiatura: Chris Terrio
Ispirato a un articolo di: Joshuah Bearman
Cast: Ben Affleck, Bryan Cranston, Alan Arkin, John Goodman, Victor Garber, Tate Donovan, Christopher Denham, Scoot McNairy, Kerry Bishé, Clea DuVall, Rory Cochrane, Kyle Chandler, Chris Messina, Zeljko Ivanek, Titus Welliver, Farshad Farahat, Taylor Schilling
Genere: arguto
Se ti piace guarda anche: Homeland, 24

Fino a poco tempo fa, quando pensavi a Ben Affleck pensavi a Ben Affleck il sex symbol, Ben Affleck ‘o sciupafemmene che passa da J.Lo a Jennifer Garner, Ben Affleck l’attore modesto. L’attore modesto e dall’espressività limitata che però ti dava l’impressione di avere qualcosa in più da offrire. Sarà per quella sceneggiatura da Oscar scritta a quattro mani insieme all’amichetto Matt Damon, quella per Will Hunting - Genio ribelle, il film che ha rivelato entrambi. Che dopo ce l’ha messa tutta, per farsi dimenticare di essere uno sceneggiatore da Oscar, intepretando filmetti come Pearl Harbor, Daredevil o Amore estremo. E invece, il Ben aveva una carta inaspettata da giocarsi, quella da regista.
Contro ogni aspettativa, Ben Affleck esordiva ben bene, con il thriller parente di Mystic River, Gone Baby Gone. Al che pensavi che vabbé, un film decente può riuscire a chiunque. È riuscito persino a Ligabue, con l’esordio Radiofreccia, non c’è da stupirsi troppo sia venuto fuori a Ben Affleck.
Con il secondo film, lo splendido The Town, i dubbi che a Ben il primo colpo non fosse uscito per puro caso arrivavano. Si aveva semmai l’impressione che con l’esordio fosse persino andato con il freno tirato, mentre per le strade di The Town Affleck scorrazzava che è un piacere.
Se un indizio può non voler dire niente e due indizi possono rappresentare un semplice caso, al terzo non c’è più spazio per i dubbi. Il terzo è una prova. Argo è una prova.
Prova di cosa?
Prova che Ben Affleck è un dannato grande regista. Uno dei migliori in circolazione negli USA al momento.
Chi l’avrebbe detto? Probabilmente nemmeno lui stesso, visto che con autoironia, attraverso un dialogo presente nel film, schernisce la sua nuova professione:

“Si impara a fare il regista in un giorno?”
“Perfino una scimmia impara a fare il regista in un giorno.”

Un grande merito dell’Affleck regista è quello di sapersi scegliere delle belle storie da raccontare. Dopo i romanzi da cui erano tratti i suoi due film precedenti, a ispirare questa sceneggiatura impeccabilmente firmata dall’esordiente Chris Terrio è invece un articolo. Una storia talmente da film da essere vera.
A cavallo tra il 1979 e il 1980, 6 diplomatici americani si ritrovano rifugiati politici dell’ambasciata canadese in Iran. Il governo degli USA vuole farli tornare in patria, ma come fare, vista la delicatissima situazione in quel paese?



A T T E N Z I O N E  S P O I L E R


È qui che arriva Ben Affleck bello fresco, in versione consulente della CIA, e propone un’idea singolare e folle per riportarli negli Stati Uniti: organizzare le riprese di un finto film di fantascienza, intitolato per l’appunto Argo, e fingere che i 6 facciano parte della troupe, giunta in Iran per dei sopralluoghi per le location. Ce la faranno i mezzi del cinema a riuscire laddove la politica sembra fallire?

Lo scopriremo con Ben Affleck che ci terrà la manina attraverso i vari registri della pellicola. Dopo una prima parte prettamente politica, Argo diventa una visione con vari spunti divertenti e una serie di battute scoppiettanti. Perché Argo è un film di fantascienza all’interno della finzione narrativa della pellicola stessa, mentre l’Argo firmato da Ben Affleck è una pellicola politica e spionistica, ma trova pure il tempo di concedersi qualche sberleffo nei confronti di Hollywood e dei suoi meccanismi. Sberleffo e al contempo una celebrazione di Hollywood, visto che la missione è organizzata con l’aiuto di un paio di producers cinematografici, due gigionissimi Alan Arkin e John Goodman, i migliori di un cast ricchissimo e mega-telefilmico.

Accanto al Ben Affleck protagonista, che tra Argo e The Town si dimostra attore più convincente quando si auto dirige, compaiono infatti un sacco di volti proveniente perlopiù dal mondo delle serie tv: Bryan Cranston di Breaking Bad qui come in Drive e Detachment si ritaglia solo un ruolo marginale, però almeno fa dimenticare una serie di comparsate in pellicole dimenticabili come Larry Crowne e Total Recall; sfilano poi Tate Donovan di The O.C. e Damages, Clea DuVall attualmente guest-star di American Horror Story Asylum, Kyle Chandler di Friday Night Lights, Titus Welliver di Lost, Chris Messina di Damages e The Mindy Project, e questo solo per citarne alcuni. Occhio poi pure a un paio di rivelazioni indie da tenere appunto d’occhio: Christopher Denham, di recente visto nel notevole Sound of My Voice, e la gnocchetta Kerry Bishé vista in Red State.
Ma è un cast talmente ricco che si farebbe prima a nominare chi non è presente. Matt Damon, ad esempio. Che Ben & Matt negli ultimi tempi non siano più BFF come una volta?

Oltre a un gran cast, a una splendida cura nella fotografia, nei costumi e persino nelle pettinature tardo ’70, a funzionare è il ritmo. Ben Affleck sa come tenere il tempo. Dopo averci divertito con la parte dedicata al dorato mondo di Hollywood, ci scaraventa in una parte finale al cardiopalma, in cui la tensione raggiunge gli stessi livelli delle puntate migliori delle migliori serie spionistiche dell’ultimo decennio, Homeland e 24.
Ben Affleck sembra quindi ricalcare le orme del suo altro amichetto, George Clooney, che non a caso figura tra i produttori di questo Argo. Entrambi sex symbol, entrambi attori non fenomenali, eppure migliorati pure in questo campo negli ultimi tempi. Da quando fanno i registi. Che poi fare i registi è la cosa che riesce loro meglio. A parte fare gli sciupafemmene in giro. Almeno Ben, viste le voci che circolano sul conto del bel George…



E allora Ben Affleck, gran figlio di una buona donna, did it again. E se un indizio può non voler dire niente e due indizi possono rappresentare un semplice caso, al terzo non c’è più spazio per i dubbi. Il terzo è una prova. Argo è una prova. Anzi, come prova basterebbe la sola grandiosa scena di montaggio alternato tra la conferenza stampa tenuta da un’attivista iraniana e quella tenuta dai producers del finto film Argo, un magistrale alternarsi di realtà e fiction, nonché di due diversi approcci al mondo, che racchiude tutta la grandezza del vero film Argo.
Ah, ho dimenticato una cosa fondamentale: cosa vuol dire Argo?
Argo vaffanculo se non lo guardate!
(voto 8/10)

Cannibal Kid


lunedì 12 novembre 2012

Quando i 'vorrei' si realizzano


Quando abbiamo creato il logo della nostra associazione, abbiamo pensato di accostarlo a una frase che potesse rendere al meglio lo spirito che animava il progetto. Una frase che fosse semplice, ma nel contempo ricca di implicazioni, che racchiudesse cioè i nostri desideri, le nostre speranze e gli eventi che le avrebbero rappresentate. Fu così che nacque L'Ora che vorrei, tre parole che ne contengono implicitamente un'altra: sogno. Sono tanti e diversi i "vorrei", come sono tanti e diversi i nostri sogni. Sabato sera, grazie a L'Ora di raccontare - aperitivo con gli autori, ne abbiamo realizzato uno: vivere con Voi la passione per la letteratura e ascoltare dalla viva voce di tre autori lo svolgersi di quel magico percorso che fa giungere un romanzo nelle mani del lettore. Una serata perfetta, emozionante, ricca di suggestioni, che ha chiarito meglio di qualunque parola ciò che intendiamo e abbiamo sempre inteso con "L'ora che vorrei": trasmettere passione e condividere cultura.
Un grazie di cuore va a tutti coloro che hanno reso possibile la riuscita della serata: BiBoll e l'Ufficio Cultura del Comune di Bollate, gli autori intevenuti (il Konte, Jacopo Ninni e Gianni Biondillo), Agnese Leo e la sua splendida voce, Giorgio Fenino nell'inedita veste di presentatore, Giancarlo Pasquali e la mostra Minimal Incipit, lo Staff dell'OraBlùBar, tutti i soci del L'Orablù che non hanno mai smesso di crederci, e un'appassionato pubblico che con la propria presenza (anche virtuale grazie alla diretta streaming) ha permesso al condizionale Vorrei di trasformarsi nell'indicativo presente del verbo Essere.
Segue una galleria di immagini della serata...

sabato 10 novembre 2012

Aperitivo con gli autori - Live Streaming

Dopo il successo ottenuto con la Diretta Streaming di Senza Palco riproponiamo anche per Aperitivo con gli autori la possibilità, per chi non riuscirà a essere presente all'OrabluBar, di seguire sempre in diretta l'evento.
Dalle ore 19.30 circa inizierà la diretta.



Streaming video by Ustream

venerdì 9 novembre 2012

L'ora di raccontare si avvicina...


L'ora di raccontare è prevista per le 19... o almeno l'inizio della serata chiamata L'ora di raccontare - Incontro con gli autori. Fervono i preparativi per il primo di una serie di eventi che ci vedranno impegnati per tutto novembre e che nei prossimi giorni andremo a spiegare...
Ma restiamo sulla serata di domani e in particolare su Minimal Incipit. Degli incipit inviati da voi e vari amici giunti via mail ne abbiamo scelto 4. Oggi vi proponiamo uno di questi.
Chi abita dalle parti di Bollate, se non vuole perdere l'appuntamento di domani sera, deve prenotare chiamando il numero 0283412369 (abbiamo raccolto già un buon numero di richieste, affrettatevi...) e per voi, cari aficionados, stiamo preparando la diretta streaming per cui tenetevi pronti e rimanete sintonizzati.

martedì 6 novembre 2012

È l'Ora delle elezioni...cult


6 novembre 2012.
Cosa succede, il 6 novembre 2012, ovvero oggi?
Ci sono le elezioni.
Quali elezioni?
Le primarie del PD? Le primarie del PDL?
Ma no, di quelle frega giusto ai diretti interessati. Le elezioni in questione sono nientepopodimeno che le presidenziali americane. Oh yes.
Democratici contro Repubblicani.
Barack Obama contro Mitt Romney.
Il Bene contro il Male.
Non sarà stato il salvatore della patria o del mondo intero, però Obama ha rappresentato un netto passo in avanti rispetto alla disastrosa amministrazione dell'American Idiot Bush, ha portato a casa una storica riforma sanitaria che Romney non vede l’ora di cancellare e insomma, sapete già da che parte sto io. La stessa parte della girl Lena Dunham.

La politica però è un argomento noioso e quindi evitiamo di addentrarci troppo in queste questioni. E allora parliamo di cinema, con due pellicole firmate da Jay Roach: il film per la tv Game Change e la comedy Candidato a sorpresa.


Game Change
(film tv, USA 2012)
Rete americana: HBO
Regia: Jay Roach
Cast: Julianne Moore, Ed Harris, Woody Harrelson, Sarah Paulson, Ron Livingston, Peter MacNicol, Brian D’arcy James, Melissa Farman
Genere: elettorale
Se ti piace guarda anche: Veep, Political Animals, Boss

Game Change è incentrato sulle elezioni del 2008. Sì, quelle che hanno fatto diventare Barack Obama il primo presidente di colore nella storia degli Stati Uniti. Una grande storia per un film. Ma non è questa la storia qui narrata. Durante quell’elezione, c’è infatti stata un’altra grande vicenda, umana e mediatica, ancor più che politica.

John McCain, stimato repubblicano ed eroe di guerra americano, era un candidato deboluccio contro Obama che finiva sulle copertine delle riviste di tutto il mondo, Obama che teneva discorsi storici a Berlino, Obama superstar, Obama rock’n’roll. A rendersene conto è stato lui stesso in primis, così come il suo staff. Cosa fare allora per cercare di battere Obama, quando tutti i sondaggi lo davano sotto di parecchi punti?
Se il motto di Obama era Change, la campagna presidenziale di McCain aveva bisogno di un Game Change. Di un candidato alla vicepresidenza in grado di stravolgere tutto. Dove cercarlo, se non su Google e su YouTube? È così che lo staff di McCain ha scovato una governatrice tosta, una donna col fucile, una madre di 5 figli in cui gran parte dell’elettorato femminile poteva riconoscersi. Oh yes, proprio lei: Sarah Palin. Sbucata fuori dal nulla, o da un posto ancor peggiore del nulla: l’Alaska.


 
Sarah Palin è la grande protagonista della storia qui narrata. Sembra la concorrente di una puntata del programma di Mtv Made, solo che il compito in questo caso è leggermente più impegnativo del solito. Non si tratta di voler diventare una rockstar oppure una cheerleader o una roba del genere. Qui si tratta di diventare vice presidente degli Stati Uniti d’America, in appena un paio di mesi. Sarà all’altezza una che all'infuori dell'Alaska non ha la minima idea di cosa ci sia di tale gravoso compito?
Tra gaffe e crisi personali, la risposta è no, però ci sarà da ridere. La figura della Palin ha ispirato anche la spassosa comedy Veep, sempre targata HBO, che vi consiglio di recuperare. In Game Change la vicenda è invece vista sotto una luce maggiormente drama, ma comunque due risate ce le facciamo pure qua.

A vestire letteralmente i panni della Palin c’è una Julianne Moore impressionante per doti mimetiche. La sua interpretazione è grandiosa e c’è solo da inchinarsi al suo cospetto. A livello personale, io però preferisco le interprezioni in cui l’attore non si nasconde dietro un’imitazione totale. Come quella di Ed Harris che, pur essendo pure lui parecchio somigliante a John McCain, risulta sempre riconoscibile. Il migliore del cast per quanto mi riguarda è però il come sempre immenso Woody Harrelson. Anche lui interpreta un personaggio realmente esistente, Steve Schmidt, l’uomo dietro la campagna elettorale di McCain, e pure lui gli somiglia parecchio, però essendo un personaggio meno noto, Harrelson è anche meno vincolato da un'interpretazione di “imitazione”. Con un trittico di attori del genere, risulta azzeccata allora la scelta di usare per i “rivali” Barack Obama e il suo vice Joe Biden immagini di repertorio, anche perché se no avrebbero dovuto trovare degli attori all’altezza dei tre repubblicani (per fiction) e non sarebbe stato facile.

Alla regia c’è Jay Roach, già regista di Austin Powers e del primo Mi presenti i tuoi? che negli ultimi tempi sembra aver virato pesantemente verso la politica, considerato anche come il suo ultimo film sia la comedy Candidato a sorpresa, uscito da poco nei cinema italiani e di cui parliamo qui di seguito. Un regista non fenomenale che però fa il suo discreto lavoro e che è riuscito a realizzare un film tv che ha poco o nulla da invidiare a un film non tv.
Curiosità da segnalare: la sceneggiatura, tratta dall’omonimo libro scritto dai giornalisti John Heilemann e Mark Halperin, è stata scritta da Danny Strong, il nerd Jonathan di Buffy visto poi anche in Una mamma per amica e Mad Men, che dimostra di essere un grande anche come sceneggiatore.

Se vi interessano i dietro le quinte della politica americana e se volete prepararvi in maniera adeguata alle nuove elezioni ormai imminenti (gli ammericani voteranno il 6 novembre), questa è la visione ideale. Ma lo è anche se di politica ve ne frega ben poco e volete semplicemente godervi una storia avvincente su un personaggio suo malgrado perfetto specchio dei tempi in cui viviamo. Sarah Palin, politica molto limitata, ma donna dalle molteplici sfaccettature e risorse. Chi l’avrebbe detto, al solo guardare la spassosa parodia fatta da Tina Fey al Saturday Night Live?
(voto 7+/10)

Candidato a sorpresa
(USA 2012)
Titolo originale: The Campaign
Regia: Jay Roach
Cast: Will Ferrell, Zach Galifianakis, Jason Sudeikis, Dylan McDermott, Sarah Baker, Katherine LaNasa, Dan Aykroyd, John Lithgow, Brian Cox, Karen Maruyama, Grant Goodman, Kya Haywood, Josh Lawson
Genere: satira politica
Se ti piace guarda anche: Veep, Il dittatore, Parto col folle

Nonostante il titolo, non è che ci siano grosse sorprese, in questo Candidato a sorpresa.
Si tratta di una commedia che scorre via piacevole e regala anche qualche sorriso. Non è che ci si rotoli per terra dalle risate, però qualche frecciata fa centro. Se la parte comedy non funziona alla grandissima, però si salva ancora, a convincere meno è la parte politica.
Fare satira politica l’è ‘na bruta bestia. Non è facile, per niente. Qui da noi, era facile quando c’era Berlusconi al centro dell’arena. Con l’austerità del governo Monti, anche la nostra satira è entrata in crisi, in epoca di recessione. Facile ironizzare sulle mille (dis)avventure del Berluska, meno trovare spunti sugli altri. Anche perché il governo Monti è fatto di tecnici, nemmeno di politici, quindi come si fa a fare satira politica su dei tecnici?
Quando la satira è approdata al cinema, poi, abbiamo avuto di recente risultati disastrosi. Tanto per dire un film qualunque, dico solo l’inguardabile Qualunquemente di Antonio Albanese.



Per quanto riguarda la satira americana, qui entriamo in un territorio locale minato le cui dinamiche non sono del tutto comprensibili a uno sguardo “straniero”. La serie comedy della HBO Veep, incentrata sulla vita di un’immaginaria vice presidentessa degli Stati Uniti stile Sarah Palin, ad esempio, subito subito non risulta molto divertente. Una volta che si è entrati nei suoi meccanismi, però, comincia a far davvero ridere.
Con questo film le risate fornite da Will Ferrell e Zach Galifianakis sono poche, ma a non convincere è soprattutto una certa timidezza della pellicola nel voler davvero pigiare sull’acceleratore del politically incorrect. Una cosa capitata di recente anche al comunque più riuscito Il dittatore con Sacha Baron Cohen: entrambi i film partono bene, sembrano davvero intenzionati ad attaccare il sistema politico americano e poi alla fine si tirano indietro e non danno il colpo di grazia.

Candidato a sorpresa purtroppo non sorprende. È una visione piacevole e carina, ma un film di satira politica, di vera satira politica, non può e non deve essere piacevole e carino. Deve essere scomodo, urtante e urticante. Come sapeva essere Daniele Luttazzi nei suoi interventi migliori. Quando gli permettevano di andare in tv, almeno.
Un aspetto comunque interessante del film è che in questa campagna non c’è un buono e un cattivo. Se ci si poteva aspettare un candidato democratico integro e dai forti valori morali contrapposto al solito repubblicano malefico, le cose non sono così. Anzi, è quasi il contrario.

Will Ferrell è il candidato democratico senza scrupoli che farebbe di tutto per vincere, campagne contro l’avversario costruite su menzogne comprese: ad esempio, accusa il povero Galifianakis di essere in combutta con al-Qaeda, mossa che qualche repubblicano aveva cercato di fare nella passata campagna elettorale contro Obama. La caratteristica principale del democratico Will Ferrell è però la sua passione per le donne e il sesso, che lo portano a essere una versione estrema di Bill Clinton, o anche una versione soft di Silvio Berlusconi.
All’altro angolo del ring, in questa campagna elettorale per conquistare un posto nel governo americano, troviamo l’improbabile repubblicano Zach Galifianakis, un tipo ingenuo e bonaccione piazzato in maniera strategica da due miliardari senza scrupoli interpretati da Dan “Ghostbuster” Aykroyd e John “Trinity” Lithgow. Ma man mano che la campagnia entrerà nel vivo, anche Galifianakis scoprirà il suo lato oscuro…
Tra i due, non c’è quindi un buono in senso assoluto. Perché nella politica reale, un buono in senso assoluto è davvero difficile da trovare. Peccato che nel film alla fine non ci sia nemmeno un cattivo in senso assoluto e quindi la critica al sistema mossa dalla pellicola risulta essere un bagno nell’acqua di rose.
Per concludere questo dibattito più cinematografico che politico, Candidato a sorpresa è un film carino. Peccato solo che Hello Kitty o i Barbapapà possono essere carini. La satira politica deve essere spietata.
Grazie per aver letto questo post e che Dio benedica i Pensieri Uniti Cannibali!
(voto 6-/10)
Cannibal Kid