Erano quasi le dieci di una mattina di fine maggio, senza sole e con le nuvole dietro la collina che minacciavano una pioggia torrenziale. Me ne stavo sotto la pensilina di legno della veranda di casa di Melissa e guardavo il Mississippi scorrere. Lei era in ospedale, dove lavorava come infermiera. La mattina, quando era uscita, mi aveva baciato sugli occhi che ancora dormivo, sussurrandomi di fare la spesa perché “di lì a poco il frigorifero avrebbe fatto le ragnatele”.


Quel piccolo (appena un metro e sessanta di altezza) grande bluesman era un uomo di forte personalità, individualista e vagabondo ma con una miniera d’oro in fondo al cuore. Aveva capacità artistiche non comuni che lo fecero diventare una stella nell’ambiente del Sud. Fu uno dei primi bluesman ad avere un repertorio di canzoni scritte di proprio pugno: “Pony Blues”, “ The Dirty Road”, “Banty Rooster Blues” e se ne andava con questo tesoro lungo il Mississippi accompagnato dal suo fedele amico, il chitarrista Wille Brown, suonando in qualsiasi posto fosse possibile, dando mostra delle notevoli capacità di showman .
Riusciva sempre ad infiammare le platee perché era un grande istrione, pieno di voglia di comunicare che era anche una caratteristica del suo modo di fare blues. Charlie Patton suonava la chitarra come un funambolo, tenendola tra le ginocchia o dietro le spalle, molto tempo prima che lo facesse Jim Hendrix. Nei suoi duri blues raccontava di sceriffi e guardiani, “High Sheriff Blues”, ma anche della provvisorietà della vita, “Oh Death”, toccando temi come la droga, “Spoonful Blues”, o l’ecologia, “High Water Everywhere”, cantando con una voce rauca e sabbiosa come il fondo del suo fiume. Da Howlin’ Wolf a Elmore James, passando per Robert Johnson, Muddy Waters e Son house, tutti gli sono debitori.

Raccolsi il biglietto della spesa dal tavolo, uscii di casa e mi incamminai per andare al market. Il vicino di Melissa stava lavando l’automobile tirando via lo sporco con una spugna insaponata. Quando gli passai accanto mi lanciò un’occhiata fugace . L’occhiata di un uomo che non bada ai fatti propri . Però, tutto sommato, non potevo dargli torto: ero uno straniero e non è che passassi inosservato con quei lunghi capelli, i jeans a zampa d’elefante, la camicia aderente, gli stivaletti e il gilet con le frange. Parevo fuoriuscito da una copertina di un vecchio disco di Southern Rock, un reduce allampanato degli anni 70 .
Quando il rock divenne monotono come una maglia sformata da infilarsi tutti i giorni, ecco che dietro l’angolo fu pronto il mutamento. Una generazione di musicisti, stufa dei lustrini ormai sbiaditi del glam rock e della leziosità borghese del progressive, riportò tutto a casa. Gli tolsero le incrostazioni , i sedimenti che lo avevano imbambolato e lo fecero nuovamente suonare in maniera forte e aggressiva, ma anche melodica. Gli restituirono la voglia di vivere, di divertirsi. Quella forza trascinante, naturale e istintiva, che è nel suo DNA e che conquistò subito quel pubblico di insoddisfatti che voleva altro rispetto a quelle saghe barocche in cui si era impantanato. Lo ricondussero cosi al suo stato primordiale, prendendo spunto da Elmore James, T-Bone Walker, Muddy Waters e dall’esperienza di band come Cream, Zepp, Who, Faces, Rolling Stones. E ripartirono con orgoglio per una nuova musica tutta americana. I ragazzi che fecero parte di questo movimento e che formavano i vari gruppi divisero tutto come una grande comunità hippie e il denaro fu veramente l’ultima delle loro preoccupazioni. Per questo motivo il rock suonò libero e innocente. Macom, una città della Georgia, divenne il centro della scena dove i musicisti divisero casa, famiglia e anche vizi di vario tipo. Famosa a tal proposito fu la Big House degli Allman Brothers Band, dei fratelli Duane e Greg Allman, che, insieme ai Lynyrd Skynyrd di Ronnie Van Zandt, ai Wet Willie, alla Marshall Tucher Band dei fratelli Caldwell, furono i principali protagonisti della scena musicale.

Melissa lo sapeva che prima o poi il mio sangue zingaro mi avrebbe costretto nuovamente a vagare senza meta per rincorrere quella cosa che non avrei mai raggiunto. Ma proprio per questo ci amavamo, perché ognuno di noi aveva il suo mondo parallelo, la sua linea d’ombra, il suo giardino segreto dove conservare qualcosa per sé. Ed entrambi lo rispettavamo.
Quando arrivai a casa raccolsi dal pergolato dei fiori che appoggiai sul tavolo dell’entrata, mangiai dei biscotti e disposi nel lettore il cd che Zach Williams and the Reformation mi avevano regalato dopo il concerto della sera precedente. “Electric Revival” era il loro debutto. I ragazzi erano galvanizzati per come si erano messe le cose. Stavano suonando in tutti gli States, e raccoglievano consensi da più parti. Si preparavano anche per un tour in Europa. Quella sera omaggiarono la Marshall Tucher , con una bella versione di “Cant’You See” e i Corvi Neri con “Wiser Time”.

I Reformation sono una formazione ben impostata, con musicisti di ottimo livello, dediti al verbo del rock di matrice sudista. Zach, nonostante la giovane età, ha una voce con la giusta dose alcolica. La chitarra di Robby Rigsbee, disegna traiettorie che riportano direttamente ai giorni in cui Ronnie Van Zandt bruciava i suoi giorni vivendo di corsa. Nelle loro canzoni nulla suona patetico o superfluo, anzi riaccendono quello spirito rock, potente e elettrico, che è alla base di tanta musica da strada che parte dai Creedence ed arriva allo Steve Earle di “Copperhead Road”. Luther Dickinson, dei North Mississippi All Stars, dà una mano a questi “Angeli con un’ala rotta”, suonando per loro la sua sfavillante chitarra.
Avevo il volume alto e non senti Melissa rientrare. Mi prese alle spalle mentre stavo seduto sul divano e mi cinse il collo con un abbraccio proprio mentre stavo ascoltando Zack che cantava “Take Me Home”. Una gettata di emozioni mi attraversò il cuore mentre la osservavo. Portava i jeans e una camicia color ottanio attillata. E un foulard dello stesso colore le legava i capelli. Mi sorrideva ed era bellissima.
Il cielo si era rasserenato. Adesso era di un blu intenso, come solo al sud lo si può vedere. Mentre lei preparava la cena mi sporsi sulla veranda e osservai il Mississippi. In quell’attimo mi tornarono in mente le parole che aveva scritto Jack Kerouac in On the road: ”E qui per la prima volta vidi il mio adorato fiume, il Mississippi, asciutto nella calugine estiva, l’acqua bassa con quel suo forte odore che è lo stesso del crudo corpo dell’America perché la lava tutta”. Poi scrutai la strada, lì immobile, pronta in ogni momento a riprendermi con sé. Ma quando, rigirandomi, incrociai i suoi occhi fui certo che stavolta mi avrebbe atteso per molto tempo.
Bartolo Federico

2 commenti:
"perché ognuno di noi aveva il suo mondo parallelo, la sua linea d’ombra, il suo giardino segreto dove conservare qualcosa per sé. Ed entrambi lo rispettavamo." Insolita e veritiera definizione di amore.
Ciao! Gran bel post!
da quando è morto mio padre non riesco più a scrivere.non riesco neppure a focalizzare una frase.non ti nascondo che ho sempre pensato che quello scrivo alla fine non interessi più di tanto.il tuo commento mi smentisce.ma io vivo nell'ombra più nera.ciao
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