Nato
inizialmente come pane per i pastori transumanti, perché conserva
intatte le sue caratteristiche organolettiche per mesi, viene preparato
ancora oggi nelle regioni centrali della Sardegna: quale pane è? È il
pane carasau, un pane tipico sardo, molto caratteristico: una sfoglia
sottilissima e croccante, stesa in forma tonda di circa quaranta
centimetri di diametro, che fino al secondo dopoguerra nelle famiglie
più povere si produceva quasi esclusivamente con farina d'orzo. In
Sardegna esistono numerosi tipi di pane, differenti per la loro forma e
destinazione finale, per i rituali che li accompagnano e per le
festività o le occasioni per le quali si preparano, che danno vita ad
una vera e propria cultura del pane; ancora fino a cinquant'anni fa ogni
donna portava con sé al matrimonio la preziosa dote di conoscenze della
panificazione, tramandate di madre in figlia. Oggi invece, in tutta
Italia la tradizionale cultura del pane è diventata un’esclusiva dei
panifici, ma c'è una zona, in Sardegna, in cui ci si prepara ancora in
casa il pane quotidiano, un pane che non è comune a tutta la Sardegna
bensì tipico di questa zona e viene fatto ancora secondo la ricetta di
una volta. Questa è la sua storia.
Tutto ebbe inizio durante l'occupazione della Sardegna da parte dell'Impero Romano.
Mario Delitala – Aratori – 1938, xilografia
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Le
civiltà antiche iniziarono circa seimila anni fa a sfruttare i cereali
anche per la produzione di pani, dando l’avvio ad una tradizione che
andò avanti modificandosi nel corso dei secoli successivi. Gli egizi
scoprirono 3500 anni fa la fermentazione dei lieviti e dei batteri
naturali presenti nell'impasto, e grazie a questa scoperta poterono
perfezionare la loro tecnica di produzione e di cottura dei pani, una
tecnica che si diffuse presto in Grecia, dove già nel V secolo a. C.
venivano prodotti settanta tipi diversi di pane. Quando i romani
conquistarono la penisola ellenica, vennero a conoscenza della
tradizione di panificazione, così ebbe inizio la produzione di pane
anche a Roma, dove si fu presto in grado di svolgere autonomamente tutte
le fasi, dalla macinazione delle granaglie fino alla cottura del pane,
mentre per quanto riguardava l'approvvigionamento delle materie prime
Roma dipendeva dalle sue province, in particolare dalla Sardegna.
In
Sardegna l'importanza della coltivazione di cereali, e sopratutto di
grano duro, è precedente alla conquista romana, infatti già i
cartaginesi avevano contribuito allo sviluppo dell'agricoltura; ed è
proprio per la possibilità di rifornirsi di grano che Roma, quando entrò
in conflitto con Cartagine, tentò subito di conquistare la Sardegna. La
conquista non fu facile a causa della resistenza che sempre i sardi
opponevano ai nuovi invasori, e l'annessione definitiva a Roma avvenne
solo dopo la seconda guerra punica, nel 111 a. C.; ancora a lungo però
le popolazioni delle montagne insorsero per affermare la loro libertà ed
indipendenza, tanto che furono chiamate dai romani popolazioni barbarae, e Barbària
la zona da loro abitata. Questa regione della Sardegna centrale, in cui
tuttora si mantengono pressoché intatte le tradizioni, le usanze, la
cultura e la lingua sarda, è ancora oggi chiamata Barbàgia, e i suoi abitanti barbaricini. Un
altro appellativo della Sardegna risalente al periodo romano è quello
di 'granaio di Roma', appunto perché l'isola non aveva solo una funzione
strategica dovuta alla sua posizione nel Mediterraneo, ma veniva
sfruttata anche per il rifornimento di cereali, e da allora il grano
sardo ha mantenuto la sua reputazione fino in epoca moderna grazie alle
sue caratteristiche qualitative ed alla sua resa nella panificazione. Il
persistere di rituali religiosi o pagani collegati al grano,
soprattutto in quelle zone interne dove la cultura sarda si mantiene
inalterata nel tempo, testimonia la sua importanza nelle epoche passate,
che si rispecchia in quella tradizione panificatoria che ha tramandato
nei secoli una grande varietà di pani tipici. In Barbagia soprattutto,
dove viene sfornato ancora oggi un pane molto particolare, il pane
carasàu, strettamente legato alla cultura e alle abitudini di vita di
popolazioni principalmente dedite alla pastorizia.
Antonio Ballero – L’appello serale – 1904, olio su tela |
Come
in tutte le civiltà agro-pastorali, anche in Sardegna il pane è da
sempre considerato simbolo di prosperità, ad esempio veniva usato come
amuleto dai pastori, che lo appendevano nell'ovile per propiziare una
buona annata. Il pane scandiva i ritmi della vita familiare, ma anche
gli avvenimenti e le festività durante l'anno, era legato a tutto il corso
della vita di una persona, a partire dalla nascita e dal battesimo,
fino alla morte. La lavorazione del pane nella tradizione sarda seguiva
rituali precisi che confermano la sua importanza nella vita domestica e
sociale: quando in una casa si iniziava la panificazione era usanza
andare a chiedere in prestito un po’ di impasto che, fino a metà del
secolo scorso, costituiva il lievito; per la padrona di casa questo
significava poter fare meno pane, soprattutto se la richiesta proveniva
da più vicine di casa, ma non ricevere alcuna richiesta di lievito era
da considerarsi di cattivo auspicio per la panificazione; anche il pane
bruciato oppure spaccato nella cottura era segno di sfortuna, e quando
il pane cadeva veniva raccolto e baciato. Proprio perché la mal riuscita
del pane era considerata un avvenimento grave, le fasi della
panificazione erano oggetto di riti propiziatori: il pezzo di impasto
che veniva lasciato a fermentare per produrre il lievito veniva inciso
con una croce, l'infornatrice faceva il segno della croce prima di
introdurre il primo pane nel forno, e agli angoli della casa e
sopratutto davanti alla porta d'ingresso si spargeva un po’ di sale
grosso, perché si pensava così di attutire gli effetti di persone di
"cattivo auspicio" che potevano entrare in casa. L'importanza simbolica
del pane è evidenziata anche dalla ciclicità con cui veniva prodotto,
infatti se il pane quotidiano seguiva una scadenza quindicinale,
esisteva tutta una serie di pani cerimoniali prodotti in occasione delle
varie festività, come le feste del patrono, il giorno dei morti,
naturalmente battesimi e funerali, ma sopratutto matrimoni: esistono
quindi pani da mangiare o da conservare come ricordo, o da offrire ai
santi come voto per scongiurare malattie o pericoli. Ad ognuno di questi
tipi di pane corrispondevano diverse tecniche di preparazione, e
varianti lessicali anche tra paesi distanti pochi chilometri l'uno
dall'altro, ciò che li accomunava era però uno stretto legame con ogni
attività della vita dell'uomo, ed è proprio grazie a questo legame che
tutti questi tipi di pane esistono ancora oggi.
Per
preparare l'impasto si usava prevalentemente la farina di grano duro,
ma le famiglie più povere (quando riuscivano a permettersela) la
riservavano alle occasioni importanti - era simbolo di una buona annata e
di benessere, e la alternavano alla farina d'orzo con la quale si
preparava il pane comune – era normalmente destinato ai servi, ai poveri
o agli ammalati, anche perché richiedeva un processo di panificazione
più lungo e laborioso; nelle zone dove scarseggiava il frumento, invece,
si preparava una specie di pane nero con le ghiande bollite, che era
abbastanza saporito ma difficile da digerire. In seguito al boom
economico, la produzione domestica di pane d'orzo è diminuita
gradualmente, inoltre era ora possibile acquistare farina di grano duro
di produzione industriale. Lo sviluppo tecnologico, infine, ha
trasformato completamente la situazione: oggi il numero di famiglie che
fanno il pane in casa è molto ridotto, le operazioni manuali di molitura
dei cereali e di setacciatura non esistono quasi più, anche se non è
raro trovare in una casa tutti gli utensili che costituivano il corredo
delle panificatrici (i crivelli, i setacci di varie misure, la serie di
canestri, le pale per infornare, le scope per pulire il forno), e il
lievito ottenuto dalla fermentazione di parte dell'impasto è stato
sostituito dal lievito di birra. Ma dove il pane viene ancora fatto in
casa, nonostante l'impasto venga fatto a macchina, la messa in forma
avviene ancora con le mani, con le nocche, con i pugni, aiutandosi con
coltelli, forbici, rotelline, timbri in legno.
La
lavorazione del pane era affidata quasi esclusivamente alle donne. Agli
uomini spettava coltivare il cereale e produrre gli attrezzi e gli
utensili: la macina, il forno, i tavoli lunghi e bassi per impastare, le
pale per infornare, i piccoli timbri intagliati, le rotelline, le
scope, gli sgabelli in sughero e ferula. Le donne tessevano le coperte
di lana e i panni di lino o cotone utilizzati per tenere al caldo
l'impasto durante la lievitazione, intrecciavano i canestri usati per
raccogliere i grani, le farine, il pane, ed infine si occupavano del
ciclo vero e proprio della panificazione: dal lavaggio alla setacciatura
del grano, dalla preparazione del lievito fino alla modellazione dei
pani e alla loro cottura; tutte queste operazioni erano tra loro
coordinate e ritmavano la vita domestica: la vagliatura e la separazione
delle farine erano attività praticamente quotidiane e senza orari,
svolte spesso nel tempo libero; la panificazione vera e propria, invece,
impegnava le donne per circa 12 ore al giorno, la provvista di pane
quotidiano aveva scadenza quindicinale, mentre la produzione di pane
cerimoniale avveniva in giorni fissi durante l'anno. Nelle famiglie
benestanti la padrona di casa era aiutata dalle domestiche o da
panificatrici a pagamento, nelle famiglie povere ci si aiutava tra
vicine di casa, parenti e comari, ma in entrambi i casi partecipavano
tutte le donne della famiglia, dalle bambine più piccole che venivano
iniziate alla panificazione, alle vecchie che ancora potevano rendersi
utili con la loro esperienza. Ogni donna doveva essere in grado di fare
sei sette tipi di pane diversi per forma, gusto e tipo di farina.
Giuseppe Biasi – Donna sarda che fa il pane – ca. 1934, linoleografia su carta velina
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Prima
della macinazione il grano veniva sottoposto ad una serie di
trattamenti per separare il cereale da polvere e pietruzze o dalla pula,
cioè il rivestimento esterno dei chicchi, e di fargli assorbire una
giusta quantità di umidità. Una prima selezione si faceva con un vaglio
dal fondo di steli di giunco o di fil di ferro e con ripetuti movimenti
sussultori e ondulatori, per indirizzare al centro le impurità che
venivano poi raccolte con le mani. Poi il grano veniva versato dentro
una cesta di canna e immerso in acqua corrente o in recipienti pieni
d'acqua per essere lavato, dopo veniva sparso con cura dentro larghi
canestri a fondo piatto o su una coperta o su teli di sacco, e veniva
lasciato ad asciugare nel cortile o in cucina, a seconda delle
condizioni del tempo: era importante che il grano non fosse troppo umido
né troppo secco. Una volta asciugato poteva essere macinato, ma più
spesso veniva sottoposto ad una seconda spurgatura fatta a mano che
comportava tempi molto lunghi ed era eseguita con cura meticolosa: il
grano veniva sparso sul tavolo attorno al quale lavoravano più persone,
che lo selezionavano quasi chicco per chicco; era comunque considerato
un lavoro semplice, perciò potevano farlo anche le bambine di quattro o
cinque anni che cominciavano pian piano ad assimilare le varie
operazioni della panificazione. Dopo la spurgatura si passava alla
setacciatura, operazione difficile e complessa che richiedeva grandi
capacità manuali, frutto di un lungo insegnamento impartito alle bambine
fin dai sette o otto anni dalle mamme e dalle nonne; strumenti tipici
erano tre o quattro tipi di setacci distinti in base alla finezza della
rete, che si usavano secondo una sequenza precisa e con tecniche
gestuali sempre più complesse; si iniziava da quello di crine di capra
usato per separare la crusca, per finire con quelli di seta usati
secondo la finezza per separare dapprima il cruschello grosso e
successivamente il fior di farina. Tutti gli strumenti per la produzione
delle farine facevano parte del corredo che la sposa doveva portare al
matrimonio.
Dopo la raffinazione
si procedeva alla macinazione. I sistemi fondamentali utilizzati in
Sardegna erano due: la mola asinaria e il mulino ad acqua; il mulino ad
acqua è stato introdotto probabilmente nell'alto medioevo, era molto
diffuso nel centro e nel nord dell'isola, dove erano più abbondanti i
corsi d'acqua, mentre la mola asinaria è una variante della mola romana
antica, ed è presente in tutta l'isola, ma soprattutto nel meridione –
con differenze che riguardano esclusivamente i materiali di cui era
fatta: per il palmento (la macina vera e propria) venivano utilizzate
pietre vulcaniche come basalto, tufo o trachite; il contenitore di
raccolta era in pietra o in legno; la tramoggia (il recipiente a forma
di cono da qui il cereale scendeva nella macina) era in legno o in
paglia e giunco. La posizione della mola nella casa non era casuale
perché doveva consentire di udire il rumore delle pietre quando giravano
a vuoto e di controllare e incitare l'asinello che la azionava, ma
naturalmente dipendeva anche dalla condizione sociale della famiglia e
quindi dal tipo di abitazione, perciò quando non era
possibile riservare alla mola un locale apposito essa veniva sistemata
in un angolo del loggiato o della cucina; anche le dimensioni della mola
erano strettamente legate alla condizione sociale ed alla dimensione
della famiglia: nei ceti più alti la mola non solo era più grande, ma
era decorata da varie incisioni. Fondamentale era il compito svolto
dall'asinello, notoriamente pigro, gli veniva spesso affiancato uno dei
bambini più piccoli con il compito di incitarlo; gli asinelli utilizzati
nella molitura appartengono ad una razza domestica sarda di piccola
taglia oggi in via di estinzione, e venivano appositamente addestrati a
girare sempre in senso orario per molte ore di seguito e senza pausa.
Simone Manca di Mores – Su mulenti e la mondatura del grano prima di gettarlo nella macina - tra 1869 e 1880, acquarello |
Il processo di produzione delle farine è abbastanza omogeneo in tutta la Sardegna, differente è però la terminologia legata ai tipi di farina. Esclusa la crusca, che era destinata agli animali, tutto il macinato veniva sfruttato per fare il pane, e le donne potevano ricavare due o tre sottotipi più o meno fini di farine principali: il fior di farina, la semola, il cruschello. L'orzo invece seguiva un procedimento più semplice perché non veniva lavato, ma macinato subito dopo la prima spurgatura manuale e poi raffinato con vari setacci di legno con il fondo a maglie via via più fini: una volta separata la crusca per gli animali, si otteneva il macinato più grosso con il quale si preparava il lievito per il pane d'orzo, poi la semola e il fior di farina. Spesso le farine di grano duro venivano mescolate secondo precise dosi per produrre pani destinati a persone o ad occasioni diverse, ad esempio il pane per i mendicanti era di fattura semplice e di farina non raffinata; il pane preparato per le feste era prodotto con la semola fine, lavorata a lungo per rendere la pasta bianchissima e molto fitta, e veniva lucidato in superficie, decorato e intagliato, e quanto più era piccolo, tanto più importante era l'occasione per cui veniva preparato; il pane carasau veniva infornato due volte, la prima per cuocerlo e la seconda per tostarlo, e grazie a questa particolare procedura tratteneva l'umidità e manteneva inalterata la propria fragranza anche per diversi mesi, per questo motivo veniva preparato per i pastori transumanti.
Adolfo Floris – Preparazione del pane – ca. 1990, olio su tavola di MFD telata |
Per ora basta, ci ritroviamo dopo la merenda per il resto della storia.
Elle
Elle
Mini bibliografia:
- Bellodi Turchi, Dolores, Oliena..., Barbagia..., Sardegna..., Nuoro, "La Tipografica" di Solinas, 1977;
- Delitala, Enrica et al., In nome del pane: forme, tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna,
prefazione di Giovanni Lillìu, a cura di Paolo Piquereddu,
dell'Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro (catalogo della
mostra) e della Regione Autonoma della Sardegna, Sassari, Carlo Delfino
editore, 1991;
- Struglia, Giuseppe, La Sardegna: ambiente e storia, seconda edizione, Cagliari, Editrice Sarda Fossataro, 1974.
2 commenti:
Mi sembra proprio il primo amore ... un amore che continua. Quante cose per un pezzo di pane ;)
Sì, è l'alimento più semplice, ma c'è dietro un lungo lavoro. Un lungo amore :)
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