Durante le mie vacanze di agosto ho letto un libro tra l’interessante e il noioso.
Noioso (prima le notizie brutte) perché è una raccolta di racconti popolari e leggende, argomento non del tutto affascinante, perché si tratta di uno di quegli ambiti in cui tutto il mondo è paese, perciò le storie si ripetono. Sono racconti in qualche modo già sentiti, assomigliano sempre a qualcos’altro, anche quando sono tipici di una regione lontana. Ma non c’è nulla di strano in questo, infatti la peculiarità principale del genere “racconto popolare, fiaba, leggenda” è proprio la ripetitività, necessaria per poter tramandare le storie oralmente.
Interessante per due motivi: innanzitutto perché si tratta di leggende e racconti della Lombardia, e non c’è modo migliore per conoscere una regione e la sua cultura che leggere, o ancor meglio, sentir raccontare, i suoi racconti popolari; in secondo luogo perché l’autrice, Lidia Beduschi, è una dialettologa e demologa quindi rispetta tutta la tradizione orale, cioè dialettale, traducendo fedelmente i racconti così come le sono stati raccontati, oppure precisando nelle note il tipo di modifica apportato al testo: il più delle volte si tratta di omissioni delle ripetizioni tipiche del racconto orale, come l’introduttore di discorso “dice”. Altri testi sono stati presi da riviste o da raccolte precedenti, e l’autrice riporta anche l’introduzione al testo fatta dagli studiosi che li raccolsero e pubblicarono allora.

L’introduzione a quest’opera è ciò che mi ha affascinata di più, molto tecnica e allo stesso tempo illuminante. Il lavoro del demologo non è affatto facile, e da quando questa disciplina si è sviluppata, sono stati fatti fior di studi sulla metodologia della raccolta di testimonianze popolari, ma anche sulla loro “popolarità”. Cosa significa che un racconto è “popolare”? Secondo me va bene dire che non rientra nella letteratura ufficiale, scritta, studiata a scuola, ma nel tempo è sorto agli studiosi anche un altro dubbio, infatti si era sempre considerato “popolare” ciò che era riconducibile al popolo, e si era sempre pensato che il “popolo” fosse la gran massa dei poveracci, separati da lor signori. In generale, quindi, la cultura popolare è stata sempre considerata come subalterna alla cultura alta, facendo sì che la frammentazione della documentazione apparisse come una caratteristica peculiare del genere, in quanto prodotto di un livello sociale basso e non istruito, quindi incapace di tramandare precisamente e omogeneamente le proprie storie, la propria cultura.

L’introduzione a quest’opera è ciò che mi ha affascinata di più, molto tecnica e allo stesso tempo illuminante. Il lavoro del demologo non è affatto facile, e da quando questa disciplina si è sviluppata, sono stati fatti fior di studi sulla metodologia della raccolta di testimonianze popolari, ma anche sulla loro “popolarità”. Cosa significa che un racconto è “popolare”? Secondo me va bene dire che non rientra nella letteratura ufficiale, scritta, studiata a scuola, ma nel tempo è sorto agli studiosi anche un altro dubbio, infatti si era sempre considerato “popolare” ciò che era riconducibile al popolo, e si era sempre pensato che il “popolo” fosse la gran massa dei poveracci, separati da lor signori. In generale, quindi, la cultura popolare è stata sempre considerata come subalterna alla cultura alta, facendo sì che la frammentazione della documentazione apparisse come una caratteristica peculiare del genere, in quanto prodotto di un livello sociale basso e non istruito, quindi incapace di tramandare precisamente e omogeneamente le proprie storie, la propria cultura.
La frammentarietà non è la sola caratteristica che distingue la produzione orale da quella scritta, perché la prima e più evidente è naturalmente l’essere una produzione orale e non scritta, che sembra banale ma è fondamentale: un testo scritto è, secondo la Beduschi, un prodotto individuale dell’autore che se lo pensa e se lo scrive, poi qualcuno leggerà ma anche no, e in effetti non è necessario che ci siano lettori, per poter dire che un libro è stato scritto. Ma provate a raccontare una storia senza avere ascoltatori: chi non vi prenderebbe per matti? Io ad esempio lo penserei subito che siete fuori di testa. Un testo orale è, pertanto, un prodotto collettivo, le cui peculiarità sono determinate dall’esistenza di un pubblico e dal suo essere un testo orale. Mentre in un testo scritto le espressioni tipiche dell’oralità sono una scelta di stile (scelta di imitare lo stile orale), quelle stesse espressioni rappresentano il genere orale: servono per presentare la storia al pubblico, per coinvolgerlo, per stupirlo spaventarlo tranquillizzarlo; e non solo le espressioni hanno questo ruolo, bensì anche l’intonazione o i gesti di chi racconta la storia. Si tratta di un codice linguistico di difficilissima traduzione, perciò spesso la ripetitività e la povertà d’espressione (che ci sono sempre) all’interno di una fiaba saltano all’occhio solo quando questa viene messa per iscritto. Chissà se vi è mai capitato di sentire il racconto di un nonno o di una nonna, anche un banale racconto di vita quotidiana: gli viene data quell’aura di mistero antico che non riusciamo a riprodurre, quando raccontiamo a nostra volta la storia, anzi improvvisamente il racconto ci sembra così banale che ci chiediamo cosa ci avesse colpito nel sentirlo la prima volta; tutto sta nell’arte del raccontare, secondo me, che non è genetica né tipica dei vecchi, ma semmai tradizionale, e noi bambini moderni l’abbiamo persa. Con i racconti popolari infatti, secondo me non venivano tramandate solo le leggende del posto, o quelle della famiglia, ma anche la capacità di raccontare le storie nel modo giusto, in modo che, benché banali e stranote, risvegliassero sempre la stessa curiosità nel suo ascoltatore. Curiosità diversissima da quella di un lettore che legge per se stesso e in solitudine il suo libro, e al massimo dopo lo consiglia ad un amico, il quale a sua volta potrà provare lo stesso piacere di lettura, se lo leggerà per sé stesso. Invece un racconto orale non ha molta ragione o possibilità d’essere, se non viene raccontato oralmente e ascoltato da un pubblico.
Un’altra delle difficoltà del fare una raccolta scritta di racconti orali, quindi, sta nel cercare di non decontestualizzare il racconto, ma è praticamente impossibile se poi si raccolgono in una stessa opera racconti legati a momenti diversi di “vita popolare”, momenti che invece, assurdamente, coincidono con i momenti di “vita nobile o borghese”, a conferma del fatto che la cultura del racconto non è una cultura “alta” discesa a coinvolgere anche lo strato basso della società, né una cultura “bassa” che gli intellettuali hanno poi fatto propria e messo per iscritto “ufficialmente”, rendendole quasi omaggio, oppure sradicandola dalla sua culla. Anche il racconto orale, come quello scritto “letterario” ha una sua forma specifica, nonostante non sia stata ancora definita una tipologia di testi: “Leggende, racconti, aneddoti, per la loro diversa funzione sociale, presentano una incompletezza che è loro caratteristica […] Una testimonianza è sempre soggetta a determinate regole di composizione che limitano la scelta dell’informatore nei riguardi del contenuto che vuole trasmettere, e non solo del contenuto, possiamo aggiungere, ma della struttura formale contemporaneamente […] Offrono un indispensabile supporto mnemonico.”

Te capì?

Elle
Nessun commento:
Posta un commento