giovedì 29 novembre 2012

Leggendo di leggende eccetera

Durante le mie vacanze di agosto ho letto un libro tra l’interessante e il noioso. Noioso (prima le notizie brutte) perché è una raccolta di racconti popolari e leggende, argomento non del tutto affascinante, perché si tratta di uno di quegli ambiti in cui tutto il mondo è paese, perciò le storie si ripetono. Sono racconti in qualche modo già sentiti, assomigliano sempre a qualcos’altro, anche quando sono tipici di una regione lontana. Ma non c’è nulla di strano in questo, infatti la peculiarità principale del genere “racconto popolare, fiaba, leggenda” è proprio la ripetitività, necessaria per poter tramandare le storie oralmente. Interessante per due motivi: innanzitutto perché si tratta di leggende e racconti della Lombardia, e non c’è modo migliore per conoscere una regione e la sua cultura che leggere, o ancor meglio, sentir raccontare, i suoi racconti popolari; in secondo luogo perché l’autrice, Lidia Beduschi, è una dialettologa e demologa quindi rispetta tutta la tradizione orale, cioè dialettale, traducendo fedelmente i racconti così come le sono stati raccontati, oppure precisando nelle note il tipo di modifica apportato al testo: il più delle volte si tratta di omissioni delle ripetizioni tipiche del racconto orale, come l’introduttore di discorso “dice”. Altri testi sono stati presi da riviste o da raccolte precedenti, e l’autrice riporta anche l’introduzione al testo fatta dagli studiosi che li raccolsero e pubblicarono allora.



L’introduzione a quest’opera è ciò che mi ha affascinata di più, molto tecnica e allo stesso tempo illuminante. Il lavoro del demologo non è affatto facile, e da quando questa disciplina si è sviluppata, sono stati fatti fior di studi sulla metodologia della raccolta di testimonianze popolari, ma anche sulla loro “popolarità”. Cosa significa che un racconto è “popolare”? Secondo me va bene dire che non rientra nella letteratura ufficiale, scritta, studiata a scuola, ma nel tempo è sorto agli studiosi anche un altro dubbio, infatti si era sempre considerato “popolare” ciò che era riconducibile al popolo, e si era sempre pensato che il “popolo” fosse la gran massa dei poveracci, separati da lor signori. In generale, quindi, la cultura popolare è stata sempre considerata come subalterna alla cultura alta, facendo sì che la frammentazione della documentazione apparisse come una caratteristica peculiare del genere, in quanto prodotto di un livello sociale basso e non istruito, quindi incapace di tramandare precisamente e omogeneamente le proprie storie, la propria cultura.

La frammentarietà non è la sola caratteristica che distingue la produzione orale da quella scritta, perché la prima e più evidente è naturalmente l’essere una produzione orale e non scritta, che sembra banale ma è fondamentale: un testo scritto è, secondo la Beduschi, un prodotto individuale dell’autore che se lo pensa e se lo scrive, poi qualcuno leggerà ma anche no, e in effetti non è necessario che ci siano lettori, per poter dire che un libro è stato scritto. Ma provate a raccontare una storia senza avere ascoltatori: chi non vi prenderebbe per matti? Io ad esempio lo penserei subito che siete fuori di testa. Un testo orale è, pertanto, un prodotto collettivo, le cui peculiarità sono determinate dall’esistenza di un pubblico e dal suo essere un testo orale. Mentre in un testo scritto le espressioni tipiche dell’oralità sono una scelta di stile (scelta di imitare lo stile orale), quelle stesse espressioni rappresentano il genere orale: servono per presentare la storia al pubblico, per coinvolgerlo, per stupirlo spaventarlo tranquillizzarlo; e non solo le espressioni hanno questo ruolo, bensì anche l’intonazione o i gesti di chi racconta la storia. Si tratta di un codice linguistico di difficilissima traduzione, perciò spesso la ripetitività e la povertà d’espressione (che ci sono sempre) all’interno di una fiaba saltano all’occhio solo quando questa viene messa per iscritto. Chissà se vi è mai capitato di sentire il racconto di un nonno o di una nonna, anche un banale racconto di vita quotidiana: gli viene data quell’aura di mistero antico che non riusciamo a riprodurre, quando raccontiamo a nostra volta la storia, anzi improvvisamente il racconto ci sembra così banale che ci chiediamo cosa ci avesse colpito nel sentirlo la prima volta; tutto sta nell’arte del raccontare, secondo me, che non è genetica né tipica dei vecchi, ma semmai tradizionale, e noi bambini moderni l’abbiamo persa. Con i racconti popolari infatti, secondo me non venivano tramandate solo le leggende del posto, o quelle della famiglia, ma anche la capacità di raccontare le storie nel modo giusto, in modo che, benché banali e stranote, risvegliassero sempre la stessa curiosità nel suo ascoltatore. Curiosità diversissima da quella di un lettore che legge per se stesso e in solitudine il suo libro, e al massimo dopo lo consiglia ad un amico, il quale a sua volta potrà provare lo stesso piacere di lettura, se lo leggerà per sé stesso. Invece un racconto orale non ha molta ragione o possibilità d’essere, se non viene raccontato oralmente e ascoltato da un pubblico.

Un’altra delle difficoltà del fare una raccolta scritta di racconti orali, quindi, sta nel cercare di non decontestualizzare il racconto, ma è praticamente impossibile se poi si raccolgono in una stessa opera racconti legati a momenti diversi di “vita popolare”, momenti che invece, assurdamente, coincidono con i momenti di “vita nobile o borghese”, a conferma del fatto che la cultura del racconto non è una cultura “alta” discesa a coinvolgere anche lo strato basso della società, né una cultura “bassa” che gli intellettuali hanno poi fatto propria e messo per iscritto “ufficialmente”, rendendole quasi omaggio, oppure sradicandola dalla sua culla. Anche il racconto orale, come quello scritto “letterario” ha una sua forma specifica, nonostante non sia stata ancora definita una tipologia di testi: “Leggende, racconti, aneddoti, per la loro diversa funzione sociale, presentano una incompletezza che è loro caratteristica […] Una testimonianza è sempre soggetta a determinate regole di composizione che limitano la scelta dell’informatore nei riguardi del contenuto che vuole trasmettere, e non solo del contenuto, possiamo aggiungere, ma della struttura formale contemporaneamente […] Offrono un indispensabile supporto mnemonico.”

Sia gli argomenti, sia la struttura della narrazione possono essere considerati universali, inoltre un racconto popolare non può ricevere un’etichetta geografica, perché come molte cose legate all’oralità (come la stessa lingua) non ha confini netti ma, spostandosi, si presenta piuttosto come un continuum di variazioni impercettibili che, se invece consideriamo solo il punto di partenza e il punto di arrivo, si mostrano come differenze nette. Io però non parlerei nemmeno di punto di partenza e di punto di arrivo se non a livello diacronico, infatti credo che il punto di partenza sia la notte dei tempi, il punto d’arrivo sia il giorno d’oggi, anche se spero che noi riusciremo a trasformalo in tappa intermedia verso le generazioni future di contastorie. La Beduschi parla anche di variazione sincronica, perché nello stesso lasso di tempo la tradizione narrata varia in base alla stratificazione sociale più che all’area geografica, ma contemporaneamente mette in dubbio una possibilità di distinzione, facendo l’esempio dei girovaghi e dei vagabondi, che si spostano dalla campagna alla città, portando con sé molte storie, che quindi entrano a far parte sia della tradizione contadina (tradizionalmente considerata “povera”) che della cultura cittadina (“ricca”); nomina anche il bisogno di miti consolatori che sarebbe all’origine di certi racconti, bisogno che infatti abbiamo tutti, ricchi e poveri, da sempre, anche quando inconsapevolmente. Le leggende si spostano, quindi, senza confini geografici né linguistici, tanto che è possibile ritrovarle simili in aree del mondo lontane fra loro per lingua, cultura e pure fisicamente, e semmai sono semplicemente adattate al contesto, difficile dire ora chi o dove fosse la matrice, tendenzialmente si affida la paternità al primo che le ha messe per iscritto, sbagliando di brutto, è chiaro, visto che esistono ancora popoli la cui lingua è solo parlata e non hanno una versione scritta e “ufficiale” della loro lingua, né pertanto delle loro tradizioni. A proposito di adattamenti, in Lombardia le storie hanno come protagonista il figlio furbo di un contadino nelle zone di pianura, il figlio furbo di un pescatore nelle zone lacustri, il figlio furbo di un pastore nelle zone di montagna; mentre rispetto ad altre regioni d’Italia, hanno come animale fantastico, buono o cattivo, il drago, comune però ad altre zone d’Europa a nord delle Alpi. Si tratta di motivi locali che adornano e rendono tipica una storia dalla struttura narrativa (più o meno) invariata in tutto il mondo.
Te capì?

Lo Spirito consiglia: il menù di san Bartolomeo (nelle foto); e il libro di cui vi ha parlato (almeno l’introduzione, dai): Leggende e racconti popolari della Lombardia di Lidia Beduschi.

Elle

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