art: Cherotto
Ad Ale: eravamo giovani, eravamo pazzi, eravamo randagi, e tu eri il migliore di tutti noi. Vivrai per sempre nel mio cuore…
Avere una pistola puntata in mezzo agli occhi è strano.
Fissare a meno di un centimetro la canna della Walther P38 è sicuramente strano. L’effetto che provoca non è come ti saresti immaginato. Il tempo rallenta in maniera clamorosa e il mondo che era alle spalle del “buco” svanisce, diventa dapprima sfuocato, poi del tutto assente.
Ti ritrovi a fissare nel vuoto della canna, perdendoti nel nero accecante del suo interno, attendendo il click che a breve ti farà raggiungere il buio eterno.
Alì urla qualcosa nella sua lingua madre, Babà gli risponde sbraitando e sputazzando disordinatamente orrendi pezzi di falafel.
Ma sono ancora lì in quella stanza? Credo di si, probabilmente si. Certamente si.
La puzza impregna l’aria. Un miscuglio tra sudore ascellare, taleggio scaduto, calzini marci e latte rancido. L’olfatto è l’unico senso che funziona ancora, chissà per quanto tempo…
Eccomi, ho una pistola che punta decisamente la mia fronte, diciamo appena sopra il centro esatto che ho in mezzo agli occhi.
Sapete dove si formano le rughine? A pochi millimetri, forse meno di un centimetro dalla mia pelle, o poco più. Non ho più il senso delle dimensioni, avvolto da uno strabismo maniacale ho perso la profondità, tutto appare piatto come una fotocopia sbiadita, quando il toner è quasi esaurito.
Uno pensa che in quel momento la vita ti scorra davanti agli occhi, i pensieri ti affollino la mente tanto velocemente da non lasciare spazio ad altro, che il rischio mischiato all’adrenalina vengano pompati come schegge urlanti nel tuo sangue e le vene si divarichino in modo tale da permettere alla circolazione di proseguire in modo lineare, senza trovare intoppi sul tragitto.
Niente di tutto ciò.
Penso a una cosa sola.
Penso che quella che ho di fronte non è una pistola qualunque. Premetto, io ODIO le armi. In generale, dico.
Ma quella è la Pistola.
La Pistola, con la P maiuscola.
La Pistola che usa Lupin III. Quello vero, giacca verde, camicia nera e cravatta gialla. Quello che sparava ai cattivi per freddarli, quello che adoravo da bambino. Già da allora c’era qualcosa di sbagliato in me, altri amici volavano con Goldrake o con Gig Robot d’acciaio, io ero innamorato di Fujiko Mine, personificazione dell’egoismo e del fascino femminile, roba da bavetta alla bocca.
La serata era iniziata come sempre, cazzeggiando.
Nelle backstreets bollatesi la sera si esce per non fare nulla. Programmi, progetti, organizzi e ti sbatti. Poi vai in strada e ti ritrovi con i soliti amici, a dire le solite cose, a fare le solite stronzate. Quella sera il Bricco (Magic Rat) era passato come un temporale estivo. Tipo; cazzo che caldo, ci vorrebbe un bel acquazzone per rinfrescarci. Ma non arriva solo uno scroscio di pioggia che abbassa la temperatura dell’asfalto e poi nulla. No. Arriva la fine del mondo, la tempesta perfetta, l’uragano estivo che provoca danni. Il Bricco era così; o tutto o niente.
Quella sera ero stanco di:
1) ascoltare la solita storia raccontata da quel tipo che ti dice che se le scopa tutte. – C’è in tutte le compagnie. Ovunque. Quello che parla solo di figa. Quello che pensa solo alla figa. Quello che vive per la figa. Quello che si vanta… della figa. E finisce qualsiasi frase con la seguente affermazione: se voglio, me la faccio, oppure: già fatta (per poi scoprire che in realtà è uscito con lei solo una sera e si è beccato un due di picche, rimediando una poderosa sega casalinga, immaginandola sopra, o sotto, o alla pecorina, o smorzacandela, o in piedi. Gli uomini quando sono accompagnati dalla loro mano destra hanno molta fantasia).
2) sentire parlare di moto. – Basta, non sopporto neanche un secondo di più ascoltare i “maniaci” delle due ruote; sentirli continuamente parlare di elaborazioni, marmitte truccate, sospensioni pompate, motori spinti, cilindri limati, battistrada lisciati, catarifrangenti ingrati, trasforma i miei coglioni in pietruzze colorate da collezionare su una cazzo di mensola ed esibire ai vicini quando ti chiedono lo zucchero.
3) calcio e fumo. – Argomenti senza via di fuga. Vale a dire: ogni persona ha i “suoi” gusti, i pareri, le opinioni, la fede, la visione soggettiva, la visione oggettiva e la visione che vuole. E, ogni santa sera, sentivo dire dalle stesse persone le stesse identiche cose: – il libanese è più leggero dell’afgano. – cazzo dici, era fuorigioco. – certo che, almeno per me, il cioccolato supera di gran lunga il marocchino, ti sfronda una cifra. – vero, ma il pressing del Milan di Sacchi… – vuoi mettere la canna a bandiera, nettamente meglio, non fumi la colla.
Vedere arrivare ai parchi il Bricco è stato come vedere il salvatore, il messia, il redentore che mi strappa via dalla rottura di coglioni che incombe come una ghigliottina sulla mia testa. La Renault 5 turbo è da tamarro. Vero. Minigonne e fiamme sui fianchi. Super Tamarro. Ma Bricco ha il permesso, a lui perdono tutto. Neanche scende dalla macchina, il “braccione” ben esposto fuori dal finestrino, sigaretta a ciondolo dalle labbra e musica sparata a volume improponibile. Nino D’Angelo gracchia dalle casse qualcosa d’incomprensibile, il dialetto napoletano lo capisco, ma quello che canta “‘o scugnizzo” non lo riesco proprio a tradurre.
- Vedo che sei impastato nelle sabbie mobili. Esordisce Magic Rat. Ti sequestro per un’oretta, ti va?
Neanche il tempo di terminare la frase che sono seduto al suo fianco a “manovrare” l’autoradio, a estrarre “sta musica di merda” per inserire la mia cassettina “portatile”. Ah, già, le cassette. Cazzo, che bei ricordi. Le cassette da 46′, oppure da 60′. Un concerto del Boss non ci stava neanche su due da 90′. Le cassette da registrare, da regalare, da condividere. Il nastro riavvolto con la bic e la compilation fatta per la figa di turno (quasi sempre incorporavano ballate strappascopata tipo “Home sweet home” dei Motley Crue, oppure “Still Loving You” degli Scorpions).
Ora si, questa è musica. La melodia del Boss ci preleva dai parchetti di Bollate per catapultarci sulla strada che porta a Senago. Ai palazzoni. Alla Corea. Dove non entrano neanche gli sbirri.
Il Boss canta:“… L’ho incontrata sul percorso tre anni fa. In una Camaro con un damerino di L.A. Mi sono lasciato alle spalle la Camaro e mi sono portato via quella ragazzina. (…) Con gli occhi di una che odia semplicemente per essere venuta al mondo. Per tutti gli estranei sconfitti e gli angeli della hot rod. Che rombano attraverso questa terra promessa. Stanotte la mia piccola ed io correremo fino al mare. E laveremo dalle nostre mani questi peccati…”
Godimento. Allo stato puro.
Sono leggero come una piuma e mi sento bene. Avere un fratello al tuo fianco e Springsteen a massimo volume mi rilassa, mi sento a casa. Solo quando Magic Rat dice che siamo arrivati a destinazione mi sveglio da questo torpore. Osservo bene la location. La bruttura è nelle cose. L’architetto che ha progettato questo “agglomerato” di carne e ossa deve soffrire di qualche turba mentale. Troppo brutto, troppo triste. Abbiamo lasciato mano libera agli architetti, loro ci hanno restituito la merda in versione duepuntozero.
Chiedo a Bricco di cosa si tratti e lui risponde solo con un sorriso. Primo allarme. Quando non dice nulla è un brutto segnale. Saliamo le scale che ci separano dal terzo piano. L’ascensore? Neanche a parlarne. Hanno rubato il motore e l’hanno montato su un carretto. Così, per divertimento. La rampa è costellata da disegni osceni. Ogni piano ha il suo bel pisello ritratto in diverse pose. Ridiamo come fanno i bambini a scuola, mettendo la mano davanti alla bocca per trattenerci il più possibile. Bricco si porta il dito davanti alla bocca, in segno di silenzio. Torno serio e mi domando come mai dobbiamo stare zitti quando tutto il condominio è una festa di suoni magrebini.
Magic Rat è troppo serio, noto che i nervi sul collo si stanno tendendo e che la mascella viene serrata. Si prepara… per cosa?
Quando siamo di fronte a una porta uguale a tutte le altre rallenta, si appoggia con la spalla sullo stipite e con una mano mi raccomanda la calma. Sussurra che non succederà niente di grave.
- Sono pronto, rispondo . Non devo essere stato troppo convincente. Magic Rat riprende a ridere, ha notato che sono agitato… Solo un pochino…
Lui bussa, in maniera pesante. Talmente pesante che ho un sussulto. Dentro i rumori si placano. Il volume della tele viene abbassato e scorgo un leggero bisbiglio dietro l’uscio. Ma che cazzo di lingua è? Arabo? Dialetto Tunisino? Marocchino? La mie domande trovano risposte quando Alì apre la porta. E’ un omone alto circa due metri e indossa una tunica. Ha una lunga cicatrice sulla guancia destra e la sua faccia spaventerebbe anche Mike Tyson. Dietro a lui c’è il suo socio, Babà. Babà è la versione di Alì in piccolo. Però, se possibile, ancora più cattiva del suo amico. La stanza che ci vede tutti e quattro raggruppati gomito a gomito è tre metri per due. E puzza di piscio rancido. Trattengo a stento un conato di vomito e saluto.
- Salam aleikum, dico. Mi hanno insegnato il rispetto quando vai in casa d’altri. Loro rispondono facendo un leggero inchino col capo e portando le mani giunte verso il viso. Quando osservo lo stanzino noto una sacca, una borsa, mezza aperta… Anche il Bricco l’ha notata, i suoi occhi la fissano disinteressandosi delle parole che Alì e Babà gli stanno rivolgendo. Parlano Arabo-napoletano-milanese. Tutto assieme. Tutti insieme. Non capisco un cazzo di niente e dico di sì, certo, senz’altro, come no…
Poi, d’improvviso, esplode Bricco. Con un gesto fulmineo, rapace e sicuro, contemporaneamente afferra la borsa ed estrae dalla tasca un coltello a serramanico. Dopo neanche un secondo mi trovo l’arma puntata in fronte.
Se non fossi lì, la scena sarebbe anche divertente: Alì mi minaccia, Bricco urla di abbassare l’arma, Babà è il più isterico di tutti e sembra una bomba pronta ad esplodere da un momento all’altro. E io?
Io penso a Lupin III.
Non ricordo, ma, alla fine, se l’è mai fatta quella figa di Fujiko? No, sapete, forse morirò a breve e questa cosa la vorrei sapere.
Uno schianto improvviso mi preleva da questi pensieri filosofici. E’ il Bricco. Con uno schiaffone ha letteralmente ribaltato Babà. Che ora piange. Come un bambino che si sente in colpa. Alì è ancora fermo con la pistola puntata su di me. Ma non sembra più così convinto di quello che sta facendo. Magic Rat gli ha appoggiato “la lama” dritta nella schiena. E spinge, lentamente, ma in modo costante. La vista è tornata, come per magia. Osservo che Bricco ha in una mano la borsa e nell’altra il coltello. Vedo il viso di Alì; una goccia di sudore percorre il tragitto che parte dalla fronte, passa per la cicatrice e finisce sul mento. Traballa, oscilla, trema e cade ai suoi piedi. La pistola si abbassa. Alì è sconfitto. Magic Rat ha vinto. Ancora una volta…
(“Stanotte, stanotte l’autostrada risplende. E’ meglio che tu te ne stia fuori dalla nostra strada amico. Perché l’estate è arrivata ed è il momento giusto. Per andare a gareggiare in strada”)
In macchina, solo in macchina, Magic Rat mi spiega che la pistola era scarica. Lui le conosce bene, le armi. Lui non le odia. Le armi. Non so se questo sia vero, ormai è andata, meglio non indagare.
Scivoliamo verso Bollate, passiamo lo stradone che porta alla Città Satellite, poi il centro di Senago e via verso casa. Quando giungiamo ai parchi gli chiedo cosa ci sia nella borsa. Bricco sorride, come un bimbo. Mi dice se voglio andare a Milano. Elusivo, penso. Ancora eccitato dico di si, certo che voglio andare a fare un giro nella città delle mille luci.
Facciamo una tappa a lasciare in “mani sicure” la borsa e viaggiamo verso Milano.
Stanotte è una bellissima notte, le luci dei lampioni sono dello stesso colore del sole, le stelle brillano in cielo e il nostro silenzio è rotto solo dal piano di Roy Bittan, il professore. Nulla di quello che è successo diventerà storia, niente di ciò che siamo merita di essere ricordato. Ma non importa, abbasso il finestrino e mi sento vivo. Le nostre teste seguono all’unisono il ritmo incalzante impresso dalla E – Street Band e ci sembra di essere finalmente i protagonisti di questo film chiamato Vita.
Siamo accompagnati dal Boss (cazzo, quello canta la mia vita!), entrambi abbiamo stampato in volto un ghigno beffardo, siamo di Bollate e siamo nati senza un cazzo di niente oltre alla nostra dignità. E non leccheremo mai il culo a nessuno. Questa è la nostra promessa.
Abbiamo abbastanza benzina da bruciare gli avversari e la sfida che questo mondo ci ha lanciato l’abbiamo accettata. Nonostante nessuno ci abbia mai invitato, noi esistiamo realmente.
Stanotte la strada risplende e nessuno ci può fermare, mio fratello di sangue!
il Konte