venerdì 20 aprile 2012

Neil Young - Tonight's the night


Rock, rock e ancora rock, distorsioni elettriche che cavalcano sulla pelle, emozioni che corrono a trecento all’ora nelle vene, alcol, droghe e un costante stato di follia emotiva in bilico tra nuovi orizzonti e pesanti ricordi, rabbia, frustrazione, nervi e sudore, potenza e disperazione, tremendi fantasmi e una pellaccia dura come poche segnata da un viaggio dal Canada all’inferno e ritorno. Tutto questo ha un volto e un nome, quelli del “Solitario” Neil Young, e Tonight’s the night è l’album più viscerale, sofferto e oscuro del cowboy di Toronto. Siete pronti alla discesa negli inferi?...
È la prima metà degli anni ‘70, periodo d’oro del rock in tutte le sue più classiche sfumature, la creatività e la sperimentazione musicale sono ai loro massimi storici, sugli scaffali dei negozi di dischi così come sulle locandine di concerti e festival campeggiano nomi del calibro di Rolling Stones, Beatles, Janis Joplin, Jimi Hendrix, John Mayall, Bob Dylan e chi più ne ha più ne metta, e Neilè già entrato a far parte senza timori reverenziali dei protagonisti di questa incredibile scena musicale. Dopo i primi passi mossi durante l’adolescenza in Canada infatti Neil aveva raggiunto la West Coast e fondato i Buffalo Springfield,con cui già nel ‘66 era diventato un punto di riferimento per la scena country-folk e a cui aveva già regalato storiche ballate folk come “Mr. Soul” e “I Am A Child”, dopodichè, sul finire dei sixties si era lanciato in una carriera solista che già dai primi lavori aveva spostato il baricentro della sua musica dal folk delle origini a un più graffiante folk-rock elettrico, intriso di nevrosi blues e potenti arrangiamenti chitarristici che portano il sound di Neil ad essere più grezzo e imperfetto, ma tremendamente più espressivo. Del folk-singer canadese degli inizi sembra non esserci più traccia in Neil, ma gli anni ‘70 cambieranno di nuovo tutto.... Il 1970 è un anno essenziale per la carriera di Neil, vieneinfatti chiamato ad unirsi al supergruppo Crosby Stills & Nash in cui militava il vecchio amico e compagno nei Buffalo Springfield Stephen Stills, e si forma così il più grande supergruppo di sempre, Crosby Stills Nash & Young, i quattro moschettieri del folk-rock, quattro musicisti eccezionali, ognuno di formazione epredisposizione musicale diversa (si va dalla mostruosa tecnica chitarristica si Stephen Stills alla capacità melodica di Graham Nash, fino alla psichedelia dell’hippy David Crosby, e a coronare tutto ci sono la potenza elettrica e il sudore di Neil Young) che insieme incideranno pochi ma essenziali lavori, diventandofonte di ispirazione per i decenni seguenti, e che proprio nel 1970 esordisconocon il loro capolavoro assoluto, quel “Deja-vù” con cui imprimono a fuoco i loro nomi nel firmamento del rock. La partecipazione al supergruppo riporta come una ventata d’aria fresca il folk nella vita di Neil Young e il “Cavallo pazzo” nerimane ancora una volta tremendamente influenzato. Parallelamente al progetto CSN&Y infatti, Neil Young prosegue la sua carriera solista che sempre nel ‘70 si arricchisce di un nuovo lavoro, forse il più apprezzato di tutta la sua carriera, “After the gold rush”, un album straordinario, sognante e allo stesso incredibilmente realistico, un’opera estremamente poetica che rimbalza tra nostalgica rassegnazione, rabbia nervosa e dolcezza che lo consacra definitivamente come uno dei massimi profeti del folk-rock.


Neil ora è sul tetto del mondo, e si lancia in un grandissimo tour acustico in giro per il mondo, perchè in fin dei conti è sempre stato un animale da palcoscenico, e su assi di legno polverose, con la chitarra in mano e la sua armonica davanti alle labbra è imbattibile, sia che esegua brani lenti e sentiti, sia che alzi l’amplificatore al massimo e rovesci scariche di elettricità sul pubblico. Ilsuccesso strepitoso di “After the gold rush” diventa la spinta per un nuovo lavoro, ancora più sentito e ancora più destinato al successo, infatti terminato iltour acustico Neil si rimette al lavoro e spreme fino al midollo le sue originicountry per tirarne fuori nel 1972 l’ennesimo coniglio dal cilindro, 10 brani di polveroso country americano, un viaggio mentale in una dimensione rurale sottoogni punto di vista, un album dai risvolti bucolici che stravolge di nuovo tutte le regole, nuovi suoni, nuove vibrazioni, una nuova veste per Neil Young, quella si un uomo consumato dalla vita, come un contadino con la schiena arsa dal sole e le mani consumate dal duro lavoro. Il lavoro in questione si intitola “Harvest”, “Raccolto”, e, inutile dirlo, segna un nuovo tremendo, devastante successo. In questo momento Young rappresenta in modo perfetto la sintesi del rocker, capace di consumarsi sul palco in modo isterico quanto di diventare poetico, con l‘occhio sempre teso all’orizzonte e a canzoni ed emozioni nuove ma con bene in testa i punti saldi di una già grandissima carriera che fanno sentire pesantemente la propria influenza, in grado di affrontare temi sociali e politici e trascinare le folle, e allo stesso tempo incapace di avere il minimo rispetto per sè stesso, vivendo a mille all’ora ed entrando in un turbine autodistruttivo fatto dinottate alcoliche e droghe in quantità industriali.

Se Neil Young fosse morto nel 1972 la sua storia risulterebbe fin troppo simile a quella di altre meteore del rock, scintillanti stelle spentesi troppo in fretta, rocker dannati vittime inermi delle loro stesse esagerazioni, imprigionati inpersonaggi estremi che loro stessi si erano creati, ma il comandante Young ha la pellaccia dura e ha in serbo ancora moltissime cartucce. Dopo l’uscita e l’inevitabile successo di “Harvest” la vita sferra colpi potentissimi a Neil. Gli abusi di alcol e droghe cominciano a far sentire i loro effetti e la salute del cowboy comincia a dare segni di cedimento, e come se non bastasse il figlio viene colpito da una paralisi cerebrale che colpisce nel profondo l’artista, indirizzandolo verso una tremenda crisi; a questo si aggiunge la goccia che fa definitivamente traboccare il vaso: Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse, e Bruce Berry, uno dei “roadie” della squadra di Neil, muoiono di overdose. Neil è colpito al cuore e si sente affossare dai sensi di colpa; comincia così un periodo di devastante depressione che lo porta ad un processo di nichilistica autodistruzione. Non c’è più traccia del Neil Young che affrontava la vita a viso aperto degli anni precedenti, non c’è più spazio per la felicità e la voglia di vivere, Neil ora è un dannato, una cosciente vittima di sè stesso diretta tra le braccia dei suoi più spaventosi fantasmi. La crisi emotiva di questo periodo si ripercuote in maniera estrema sulle composizioni e sull’arrangiamento dei nuovi brani, e si rivela a conti fatti la più potente scintilla creativa della carriera di Neil. L‘artista vive per tre anni sull’onda di una vena creativa livida e masochista, che esplode letteralmente in esibizioni dal vivo al limite del collasso fisico e brucia come le fiamme dell’inferno sui solchi di tre dischi che formeranno la cosiddetta “trilogia oscura” di Young. Il primo album è “Time Fades Away”, album live composto da brani inediti che segna il punto di non ritorno. All’uscita dell‘album la critica è sconvolta e il pubblico è sconcertato, Neil si mette completamente a nudo, rifiutando ogni qualsivoglia linea compositiva e arrangiatoria ben definita, fregandosene di steccate, stonature e tempi sbagliati, urla la sua disperazione e se la prende con il mondo intero. Commercialmente l’album segna unmostruoso crollo nelle vendite e in classifica, i primi posti in tutte le classifiche mondiali di “Harvest” sono soltanto un ricordo, ma a Neil non interessa, è disperato e divorato da paure e vizi del successo commerciale se ne fotte letteralmente. Ne è un ulteriore segno l’album successivo, “On the beach”, ancora più oscuro, ancora più solitario e ancora meno venduto, che anticipa temi, sensazioni e sound caratteristici del punk e del grunge che nasceranno in futuro, ma nel 1974, anno della sua pubblicazione, della grandezza di “On the beach” in pochissimi si rendono conto...

Ormai pubblico e critica danno Neil Young per spacciato, il “cavallo pazzo” si sta consumando e distruggendo con le sue stesse mani, giorno dopo giorno, bicchiere dopo bicchiere e dose dopo dose e la sua agonia pare destinata ad accompagnarlo per il resto della vita; succede così che l’etichetta decide di attendere addirittura quasi due anni prima di pubblicare il terzo capitolo della trilogia, per poi rendersi conto di aver atteso con timore a pubblicare uno dei più densi, viscerali e incredibili lavori del cantautore canadese. “Tonight’s the night” è l‘apoteosi dell’agonia del rocker, un album oscuro già dalla copertina, con un consumatissimo Neil Young su uno sfondo nero tanto semplice quanto desolante. Raccontare un album come questo abbastanza bene da rendergli giustizia è pressochè impossibile, “Tonight’s the night” è un canto disperato, è depressione e sofferenza, è solitudine, rabbia e un continuo stato di allucinazione, è un turbinio di emozioni, di vibrazioni, di sensazioni che scuotono da dentro, è una follia emozionale, è paura, sospetto e senso di vuoto, è il racconto di un viaggio all’inferno, è il rock, il blues, la droga e l’autodistruzione, è la morte e allo stessotempo la paura di raggiungerla e la consapevolezza di non avere scampo, e Neil Young ne è artefice e narratore, una graffiante voce fuori campo che come Caronte accompagna nelle viscere dell’umana disperazione. La title-track apre quasi sottovoce con il coro “Tonight’s the night” verso un sofferto crescendo che lasciaspazio alla voce di Neil, che quasi strozzata canta i primi versi: “Bruce Barrywas a working man/ he used to load that Encoline van”, riferiti al roadie e amico Bruce Barry a cui, insieme a Danny Whitten, è dedicato l’album. E’ un blues ubriaco e stonato da cui traspare il tremendo senso di colpa di Neil, che sofferente come non mai dice “Cause people let me tell you / It sent a chill up and down my spine / When I picked up the telephone / And heard that he’d died / Out on the mainline”. A seguire arriva da lontano, molto lontano, “Speakin’ out”, un polveroso blues che sa di sudore e notti insonni, di bottiglie di whiskey prosciugate per dare un senso a tutto, per restare attaccati a questa vita in un modo o nell’altro, per sopportare una profonda stanchezza e una nevrotica insofferenza al mondo esterno. Anche brani più cadenzati sono irrimediabilmente condizionati dall’aura di dolore che pervade l’intero album, e la successiva “World on a string” ne è un esempio, ritmo cadenzato e la chitarra di Neil che finalmente comincia a farsi sentire, ma una voce consumata e un testo pregno di sconsolata rassegnazione, perchè “the world on a string Doesn’t mean a thing”, “Il mondo in pugnonon significa nulla”. Il senso di nostalgia pervade l’anima sulle note di “Borrowed tune”, una melodia presa in prestito, come recita il titolo, da “Lady Jane”dei Rolling Stones, che però con un pianoforte più secco e tracce di armonica qui e là ha un sapore autocommiserativo e oscuro. Ad alzare il ritmo e a riagitare la pelle arriva “Let’s go downtown”, country-rock elettrico e scanzonato che porta con sè un’agrodolce emozione visto che il brano è stato registrato durante un concerto al Fillmore East qualche anno prima quando Danny Whitten era ancora vivo e proprio in questo pezzo cantava energicamente in coppia con Mr. Young. “Mellow my mind”, piazzata al centro dell’album, ne rappresenta il cuore, l’espressione massima, la sintesi in musica di un animo distrutto dalla vita e che nient‘altro desidera se non dimenticare tutto, rilassare la mente anche solo per un attimo; un brano che entra sottopelle a colpi di armonica e scuote dentro con la voce sfinita di Neil che sembra piangere fiumi di lacrime ad ogni parola. E poi di nuovo il country, a ritmo lento, una cavalcata al trotto verso casa tra alcole ricordi in bilico tra la nostalgia di Woodstock e di “Quel giorno degli elicotteri” e il desiderio di viaggiare, “fare il pieno” di benzina e di whiskey e “Though my feet aren’t on the ground / I been standin’ on the sound / Of some open-hearted people goin’ down”. Un altro viaggio, più acido e solitario del precedente, è quello di “Albuquerque”, psichedelico e desolante desiderio di sfuggire al mondo, fermarsi ad Albuquerque “Dove nessuno baderà a me” e respirare libertà,il tutto accompagnato da un sound che mescola alla perfezione l’imponente chitarra di Neil con una batteria soltanto accennata toccando sonorità tra lo shoegaze e lo slowcore con almeno 10 anni di anticipo rispetto al resto del mondo. Tempi lenti e suoni sussurrati restano anche per la successiva “New mama”, lenta e sognante ballata da pelle d’oca, che lascia il posto all’incedere elettrico e stonatamente distorto della Black Pearl del signor Young, che ricorda nostalgicamente i bei vecchi tempi con “Lookout Joe”. Il troppo ricordare i vecchi tempi peròfa riaffiorare la sofferenza, la tristezza per persone care che non ci sono più, amici divorati da quel rock’n’roll che tanto amavano e tragedie, disperazioni e rimpianti di un’intera vita che sembrano prendere vita ad ogni parola, ad ognirespiro, ad ogni nota di “Tired eyes”, speaking blues struggente e stanco da groppo in gola appoggiato su una melodia tanto semplice quanto penetrante, suonatada pianoforte, chitarra e l’immancabile armonica a coronare il tutto. L’album si chiude come si era aperto, con la seconda parte di “Tonight’s the night”, identica alla prima nel testo ma più decisa, sporca ed elettrica nel sound; se inizialmente Neil sussurrava con voce sfinita la sua sofferenza, dopo averla affrontata e ripercorsa attraverso i brani dell’album sembra essere più convinto di poterla affrontare, e allora se c’è un modo perfetto per ricordare l’amico Bruce, divorato dal rock vissuto al massimo, è scaricare elettricità nelle corde di una gibson cavalcando nonostante i lividi e le botte. In fondo il rock è anche, anzi,soprattutto questo....



Quel che fa di un cantautore un grande cantautore è senza dubbio la capacità di tradurre in parole le emozioni, rovesciare nella musica le idee, le sensazioni ele atmosfere, quelle limpide e felici quanto quelle tetre e tristi, e pochi l’hanno saputo fare come Neil Young. “Tonight’s the night” rappresenta il punto piùoscuro e tragico di una vita all’insegna del rock e delle emozioni forti, ma alcontempo rappresenta la vetta espressiva, emozionale e sincera dell’uomo Neil Young, “Tonight’s the night” è il riassunto di un’epoca visto attraverso gli occhi, il cuore e i ricordi di chi l’ha vissuta in prima persona, quasi fossero una sequenza di istantanee, rese dense e significative dalle emozioni e da ritmi cardiaci folli scanditi alla perfezione dalla musica e dalla voce del nostro narratore d’eccezione. Ma “Tonight’s the night” è molto di più, è un saggio sul dolore, una sintesi su quanto la sofferenza consumi dentro, su quanto volenti o nolenti di certi fantasmi è impossibile liberarsi e su quanto in fondo, ricchi o poveri, famosi o anonimi, le emozioni e la sofferenza più di tutte ci avvicinino in un’emotiva uguaglianza che non teme il passare del tempo e delle generazioni; è un album sconcertante, rock fino nel midollo come il suo autore, blues per attitudine e indefinibile per il turbine di emozioni che smuove dentro, è qualcosa chespiega meglio di un milione di libri quanto pesanti possano essere le rughe scavate su un volto.

Un cantautore di casa nostra in uno scarabocchio di 20 anni fa si chiedeva “Riuscirò a fare un disco che assomigli a questo vulcano che sento nella pancia?”, bè, Neil Young ci è riuscito....



ps. grazie a Lozirion per il suo primo contribuo al nostro blog... tenetevi pronti, prossimamente avremo altri debutti...

 

9 commenti:

lozirion ha detto...

Eccomi! E' un piacere partecipare a questo blog, sta venendo proprio bene, avanti così!.... ^_^


Ps: Il nome è Lozirion... ^_-

CheRotto ha detto...

acchebravochesono! pubblico il tuo primo post e sbaglio il nome... perdonami... ora è corretto...

lozirion ha detto...

@CheRotto: Figurati, nessun problema! Ogni tanto sbaglio a scriverlo pure io.... ^_^

Granduca di Moletania ha detto...

Grandissimo disco dell'onniscente Neil. Della trilogia buia il mio disco preferito è Time fades away e in particolate The last dance. Forse la sua prima vera cavalcata elettrica, che negli anni successivi si ripeterà con grandissimi isultati.
Comunque l'onniscente è insuperabile in ogni situazione, elettrica o acustica che sia.
Probabilmente il mio "artistone" preferito.
Un grande abbraccio a tutti.

Elle ha detto...

Io studio, man mano che trovo le canzoni, eh! Sì, lo so che è vergognoso non conoscere Neil Young, ma non è colpa mia, ecco! Un bellissimo post, che racconta una storia che poteva finire come tante altre, come hai detto, ma non è stato così; il disco è oscuro, e va bene, i geni son sempre maledetti, si sa. Ma soprattutto racconta una storia che non conoscevo :)

Blackswan ha detto...

Grande recensione,bro.Uno dei miei dischi preferiti di zio Neil.La trilogia (non dichiarata) della disperazione ( il vertice è On the Beach ) resta il suo momento migliore,forse meglio di Harvest e After the gold rush.

Harley Quinn ha detto...

Gran bel post. Complimenti Cherotto :) Leggere di Neil Young riesce sempre a estasiarmi. Non c'è niente da fare. E questo album è geniale. Tocca vette di virtuosismo vibrante e profondo, da lasciare senza fiato. Questo è il ROCK.

CheRotto ha detto...

Harley Quinn... giusto per la precisazione io, Cherotto, ho pubblicato il post che è stato scritto da Lozirion a cui giro i tuoi complimenti ;-)
e visto che ci sono rimando anche a un altro post che ripercorre la carriera di Neil Youn sempre pubblicato a me sull'altro mio blog ma scritto dallo ZIo Fonta...
http://osirisicaosirosica.blogspot.it/2009/10/rockn-roll-can-never-die.html

Harley Quinn ha detto...

Imploro perdono per la svista :)