venerdì 31 agosto 2012

Una gara per rimanere vivi

Oggi vi presentiamo un nuovo collaboratore che è anche un amico, bollatese e springstiniano così springstiniano da scriverci un libro... se volete scoprire qualcosa di più potete andare qui. Intanto lo ringraziamo per averci permesso di pubblicare il suo racconto Una gara per rimanere vivi.


art: Cherotto

Ad Ale: eravamo giovani, eravamo pazzi, eravamo randagi, e tu eri il migliore di tutti noi. Vivrai per sempre nel mio cuore…


Avere una pistola puntata in mezzo agli occhi è strano.
Fissare a meno di un centimetro la canna della Walther P38 è sicuramente strano. L’effetto che provoca non è come ti saresti immaginato. Il tempo rallenta in maniera clamorosa e il mondo che era alle spalle del “buco” svanisce, diventa dapprima sfuocato, poi del tutto assente.
Ti ritrovi a fissare nel vuoto della canna, perdendoti nel nero accecante del suo interno, attendendo il click che a breve ti farà raggiungere il buio eterno.
Alì urla qualcosa nella sua lingua madre, Babà gli risponde sbraitando e sputazzando disordinatamente orrendi pezzi di falafel.
Ma sono ancora lì in quella stanza? Credo di si, probabilmente si. Certamente si.
La puzza impregna l’aria. Un miscuglio tra sudore ascellare, taleggio scaduto, calzini marci e latte rancido. L’olfatto è l’unico senso che funziona ancora, chissà per quanto tempo…
Eccomi, ho una pistola che punta decisamente la mia fronte, diciamo appena sopra il centro esatto che ho in mezzo agli occhi.
Sapete dove si formano le rughine? A pochi millimetri, forse meno di un centimetro dalla mia pelle, o poco più. Non ho più il senso delle dimensioni, avvolto da uno strabismo maniacale ho perso la profondità, tutto appare piatto come una fotocopia sbiadita, quando il toner è quasi esaurito.
Uno pensa che in quel momento la vita ti scorra davanti agli occhi, i pensieri ti affollino la mente tanto velocemente da non lasciare spazio ad altro, che il rischio mischiato all’adrenalina vengano pompati come schegge urlanti nel tuo sangue e le vene si divarichino in modo tale da permettere alla circolazione di proseguire in modo lineare, senza trovare intoppi sul tragitto.
Niente di tutto ciò.
Penso a una cosa sola.
Penso che quella che ho di fronte non è una pistola qualunque. Premetto, io ODIO le armi. In generale, dico.
Ma quella è la Pistola.
La Pistola, con la P maiuscola.
La Pistola che usa Lupin III. Quello vero, giacca verde, camicia nera e cravatta gialla. Quello che sparava ai cattivi per freddarli, quello che adoravo da bambino. Già da allora c’era qualcosa di sbagliato in me, altri amici volavano con Goldrake o con Gig Robot d’acciaio, io ero innamorato di Fujiko Mine, personificazione dell’egoismo e del fascino femminile, roba da bavetta alla bocca.

La serata era iniziata come sempre, cazzeggiando.
Nelle backstreets bollatesi la sera si esce per non fare nulla. Programmi, progetti, organizzi e ti sbatti. Poi vai in strada e ti ritrovi con i soliti amici, a dire le solite cose, a fare le solite stronzate. Quella sera il Bricco (Magic Rat) era passato come un temporale estivo. Tipo; cazzo che caldo, ci vorrebbe un bel acquazzone per rinfrescarci. Ma non arriva solo uno scroscio di pioggia che abbassa la temperatura dell’asfalto e poi nulla. No. Arriva la fine del mondo, la tempesta perfetta, l’uragano estivo che provoca danni. Il Bricco era così; o tutto o niente.
Quella sera ero stanco di:
1) ascoltare la solita storia raccontata da quel tipo che ti dice che se le scopa tutte. – C’è in tutte le compagnie. Ovunque. Quello che parla solo di figa. Quello che pensa solo alla figa. Quello che vive per la figa. Quello che si vanta… della figa. E finisce qualsiasi frase con la seguente affermazione: se voglio, me la faccio, oppure: già fatta (per poi scoprire che in realtà è uscito con lei solo una sera e si è beccato un due di picche, rimediando una poderosa sega casalinga, immaginandola sopra, o sotto, o alla pecorina, o smorzacandela, o in piedi. Gli uomini quando sono accompagnati dalla loro mano destra hanno molta fantasia).
2) sentire parlare di moto. – Basta, non sopporto neanche un secondo di più ascoltare i “maniaci” delle due ruote; sentirli continuamente parlare di elaborazioni, marmitte truccate, sospensioni pompate, motori spinti, cilindri limati, battistrada lisciati, catarifrangenti ingrati, trasforma i miei coglioni in pietruzze colorate da collezionare su una cazzo di mensola ed esibire ai vicini quando ti chiedono lo zucchero.
3) calcio e fumo. – Argomenti senza via di fuga. Vale a dire: ogni persona ha i “suoi” gusti, i pareri, le opinioni, la fede, la visione soggettiva, la visione oggettiva e la visione che vuole. E, ogni santa sera, sentivo dire dalle stesse persone le stesse identiche cose: – il libanese è più leggero dell’afgano. – cazzo dici, era fuorigioco. – certo che, almeno per me, il cioccolato supera di gran lunga il marocchino, ti sfronda una cifra. – vero, ma il pressing del Milan di Sacchi… – vuoi mettere la canna a bandiera, nettamente meglio, non fumi la colla.
Vedere arrivare ai parchi il Bricco è stato come vedere il salvatore, il messia, il redentore che mi strappa via dalla rottura di coglioni che incombe come una ghigliottina sulla mia testa. La Renault 5 turbo è da tamarro. Vero. Minigonne e fiamme sui fianchi. Super Tamarro. Ma Bricco ha il permesso, a lui perdono tutto. Neanche scende dalla macchina, il “braccione” ben esposto fuori dal finestrino, sigaretta a ciondolo dalle labbra e musica sparata a volume improponibile. Nino D’Angelo gracchia dalle casse qualcosa d’incomprensibile, il dialetto napoletano lo capisco, ma quello che canta “‘o scugnizzo” non lo riesco proprio a tradurre.
- Vedo che sei impastato nelle sabbie mobili. Esordisce Magic Rat. Ti sequestro per un’oretta, ti va?
Neanche il tempo di terminare la frase che sono seduto al suo fianco a “manovrare” l’autoradio, a estrarre “sta musica di merda” per inserire la mia cassettina “portatile”. Ah, già, le cassette. Cazzo, che bei ricordi. Le cassette da 46′, oppure da 60′. Un concerto del Boss non ci stava neanche su due da 90′. Le cassette da registrare, da regalare, da condividere. Il nastro riavvolto con la bic e la compilation fatta per la figa di turno (quasi sempre incorporavano ballate strappascopata tipo “Home sweet home” dei Motley Crue, oppure “Still Loving You” degli Scorpions).
Ora si, questa è musica. La melodia del Boss ci preleva dai parchetti di Bollate per catapultarci sulla strada che porta a Senago. Ai palazzoni. Alla Corea. Dove non entrano neanche gli sbirri.
Il Boss canta:“… L’ho incontrata sul percorso tre anni fa. In una Camaro con un damerino di L.A. Mi sono lasciato alle spalle la Camaro e mi sono portato via quella ragazzina. (…) Con gli occhi di una che odia semplicemente per essere venuta al mondo. Per tutti gli estranei sconfitti e gli angeli della hot rod. Che rombano attraverso questa terra promessa. Stanotte la mia piccola ed io correremo fino al mare. E laveremo dalle nostre mani questi peccati…”
Godimento. Allo stato puro.
Sono leggero come una piuma e mi sento bene. Avere un fratello al tuo fianco e Springsteen a massimo volume mi rilassa, mi sento a casa. Solo quando Magic Rat dice che siamo arrivati a destinazione mi sveglio da questo torpore. Osservo bene la location. La bruttura è nelle cose. L’architetto che ha progettato questo “agglomerato” di carne e ossa deve soffrire di qualche turba mentale. Troppo brutto, troppo triste. Abbiamo lasciato mano libera agli architetti, loro ci hanno restituito la merda in versione duepuntozero.
Chiedo a Bricco di cosa si tratti e lui risponde solo con un sorriso. Primo allarme. Quando non dice nulla è un brutto segnale. Saliamo le scale che ci separano dal terzo piano. L’ascensore? Neanche a parlarne. Hanno rubato il motore e l’hanno montato su un carretto. Così, per divertimento. La rampa è costellata da disegni osceni. Ogni piano ha il suo bel pisello ritratto in diverse pose. Ridiamo come fanno i bambini a scuola, mettendo la mano davanti alla bocca per trattenerci il più possibile. Bricco si porta il dito davanti alla bocca, in segno di silenzio. Torno serio e mi domando come mai dobbiamo stare zitti quando tutto il condominio è una festa di suoni magrebini.
Magic Rat è troppo serio, noto che i nervi sul collo si stanno tendendo e che la mascella viene serrata. Si prepara… per cosa?
Quando siamo di fronte a una porta uguale a tutte le altre rallenta, si appoggia con la spalla sullo stipite e con una mano mi raccomanda la calma. Sussurra che non succederà niente di grave.
- Sono pronto, rispondo . Non devo essere stato troppo convincente. Magic Rat riprende a ridere, ha notato che sono agitato… Solo un pochino…
Lui bussa, in maniera pesante. Talmente pesante che ho un sussulto. Dentro i rumori si placano. Il volume della tele viene abbassato e scorgo un leggero bisbiglio dietro l’uscio. Ma che cazzo di lingua è? Arabo? Dialetto Tunisino? Marocchino? La mie domande trovano risposte quando Alì apre la porta. E’ un omone alto circa due metri e indossa una tunica. Ha una lunga cicatrice sulla guancia destra e la sua faccia spaventerebbe anche Mike Tyson. Dietro a lui c’è il suo socio, Babà. Babà è la versione di Alì in piccolo. Però, se possibile, ancora più cattiva del suo amico. La stanza che ci vede tutti e quattro raggruppati gomito a gomito è tre metri per due. E puzza di piscio rancido. Trattengo a stento un conato di vomito e saluto.
- Salam aleikum, dico. Mi hanno insegnato il rispetto quando vai in casa d’altri. Loro rispondono facendo un leggero inchino col capo e portando le mani giunte verso il viso. Quando osservo lo stanzino noto una sacca, una borsa, mezza aperta… Anche il Bricco l’ha notata, i suoi occhi la fissano disinteressandosi delle parole che Alì e Babà gli stanno rivolgendo. Parlano Arabo-napoletano-milanese. Tutto assieme. Tutti insieme. Non capisco un cazzo di niente e dico di sì, certo, senz’altro, come no…
Poi, d’improvviso, esplode Bricco. Con un gesto fulmineo, rapace e sicuro, contemporaneamente afferra la borsa ed estrae dalla tasca un coltello a serramanico. Dopo neanche un secondo mi trovo l’arma puntata in fronte.
Se non fossi lì, la scena sarebbe anche divertente: Alì mi minaccia, Bricco urla di abbassare l’arma, Babà è il più isterico di tutti e sembra una bomba pronta ad esplodere da un momento all’altro. E io?
Io penso a Lupin III.
Non ricordo, ma, alla fine, se l’è mai fatta quella figa di Fujiko? No, sapete, forse morirò a breve e questa cosa la vorrei sapere.
Uno schianto improvviso mi preleva da questi pensieri filosofici. E’ il Bricco. Con uno schiaffone ha letteralmente ribaltato Babà. Che ora piange. Come un bambino che si sente in colpa. Alì è ancora fermo con la pistola puntata su di me. Ma non sembra più così convinto di quello che sta facendo. Magic Rat gli ha appoggiato “la lama” dritta nella schiena. E spinge, lentamente, ma in modo costante. La vista è tornata, come per magia. Osservo che Bricco ha in una mano la borsa e nell’altra il coltello. Vedo il viso di Alì; una goccia di sudore percorre il tragitto che parte dalla fronte, passa per la cicatrice e finisce sul mento. Traballa, oscilla, trema e cade ai suoi piedi. La pistola si abbassa. Alì è sconfitto. Magic Rat ha vinto. Ancora una volta…
(“Stanotte, stanotte l’autostrada risplende. E’ meglio che tu te ne stia fuori dalla nostra strada amico. Perché l’estate è arrivata ed è il momento giusto. Per andare a gareggiare in strada”)
In macchina, solo in macchina, Magic Rat mi spiega che la pistola era scarica. Lui le conosce bene, le armi. Lui non le odia. Le armi. Non so se questo sia vero, ormai è andata, meglio non indagare.
Scivoliamo verso Bollate, passiamo lo stradone che porta alla Città Satellite, poi il centro di Senago e via verso casa. Quando giungiamo ai parchi gli chiedo cosa ci sia nella borsa. Bricco sorride, come un bimbo. Mi dice se voglio andare a Milano. Elusivo, penso. Ancora eccitato dico di si, certo che voglio andare a fare un giro nella città delle mille luci.
Facciamo una tappa a lasciare in “mani sicure” la borsa e viaggiamo verso Milano.
Stanotte è una bellissima notte, le luci dei lampioni sono dello stesso colore del sole, le stelle brillano in cielo e il nostro silenzio è rotto solo dal piano di Roy Bittan, il professore. Nulla di quello che è successo diventerà storia, niente di ciò che siamo merita di essere ricordato. Ma non importa, abbasso il finestrino e mi sento vivo. Le nostre teste seguono all’unisono il ritmo incalzante impresso dalla E – Street Band e ci sembra di essere finalmente i protagonisti di questo film chiamato Vita.
Siamo accompagnati dal Boss (cazzo, quello canta la mia vita!), entrambi abbiamo stampato in volto un ghigno beffardo, siamo di Bollate e siamo nati senza un cazzo di niente oltre alla nostra dignità. E non leccheremo mai il culo a nessuno. Questa è la nostra promessa.
Abbiamo abbastanza benzina da bruciare gli avversari e la sfida che questo mondo ci ha lanciato l’abbiamo accettata. Nonostante nessuno ci abbia mai invitato, noi esistiamo realmente.
Stanotte la strada risplende e nessuno ci può fermare, mio fratello di sangue!

il Konte

mercoledì 29 agosto 2012

La Famiglia Mirabella Show

L'OraBlù, L'OraBlùBar e InSport in collaborazione con Il Teatro Viaggiante
presentano
La Famiglia Mirabella Show
Grande Festa di Chiusura InCamp 2012
Venerdì 7 settembre dalle ore 17.30 a L'OrablùBar

In occasione della chiusura dei camp estivi organizzati da InSport e che hanno visto la partecipazione di numerosi bambini L'OraBlù in collaborazione con il TeatroViaggiante porterà a L'OrablùBar uno spettacolo della Famiglia Mirabella.
Ecco una breve presentazione della simpatica e strampalata famiglia:
Mamma e papà sono attori saltimbanchi e quindi via di piazza in piazza con tutta la famiglia unita al seguito. Un’ora di allegria e sana semplicità, con la maestria di chi del teatro di strada ne ha fatto il suo unico mestiere. Da lontano arriva in piazza una carovana di molte ruote, una comoda bicicletta olandese con carretto e tre monocicli di svariate misure: una volta tutto a posto ha inizio lo spettacolo. Il bradisismo che c’è in questa famiglia trasforma la giocoleria in risate e applausi, i numeri sono semplici e senza rete di protezione, il linguaggio universale, grazie all’arte madre di Elisabetta ed Edoardo: il mimo.
Giocoleria, acrobatica ed equilibrismo son le note di questo spettacolo che è musica, talmente scivola delicato e leggero, tra risate, applausi e stupore del pubblico: tra virtuosismi e clownerie, coreografie ed energia travolgente, mamma e papà riescono a conquistare tutti con i loro sorrisi, sotto lo sguardo attento di Martin, Matilde e Mael. E ancora numeri impossibili e incredibili, arte e agilità e un pizzico di magia di grande coinvolgimento per il pubblico di ogni età. Uno spettacolo semplice di impatto, una bicicletta con dentro i nostri tre bimbi e il cane Blu, con tutto quel che serve per rendere divertente un’ora d’emozioni.





martedì 28 agosto 2012

JCVD - Nessuna giustizia

JCVD - Nessuna giustizia
(Belgio, Lussemburgo, Francia 2008)
Regia: Mabrouk El Mechri
Cast: Jean-Claude Van Damme, Zinedine Soualem, François Damiens, Karim Belkhadra, Jean-François Wolff, Anne Paulicevich, François Beukelaers, John Flanders
Genere: reality fiction
Se ti piace guarda anche: Essere John Malkovich, Super, Senza esclusione di colpi

Prima che me lo chiediate, sì: mi sono sottoposto volontariamente alla visione di un film con Jean-Claude Van Damme.
Era già successo prima, che vedessi una qualche pellicola (?) con il suddetto attore (???). Si è trattato di Street Fighter, ma allora facevo tipo le scuole medie e mi avevano trascinato a vederlo perché il videogioco era troppo figo e a quei tempi era troppo figo anche solo dire troppo figo e comunque il film era una merda totale lo poteva capire anche un ragazzetto delle medie che di cinema non ne capiva una cippa e che continua a non capirne una cippa ma sul fatto che Street Fighter il film faccia pena non aveva dubbi allora e non ha dubbi nemmeno adesso.
Ho visto un altro film, un altro pezzo di film con Van Damme mentre mi trovavo in nave, una manciata di anni fa. Non so quale film fosse. C’era lui in carcere che faceva a botte con dei tizi. Ho per caso detto la trama di un qualsiasi film con Van Damme? Inutile aggiungere che mi è venuto un terribile mal di mare, che probabilmente non era vero mal di mare ma solo mal di Van Damme.
Poi mi è capitato di vedere qualche spezzone qua e là di qualche suo successo (?) cinematografico (???), provando una antipatia istantanea e fulminea quanto il suo calcio rotante.
Non so, a me gli eroi action non sono mai stati simpatici. Fondamentalmente, perché non sanno recitare. Capisco che sei bravo a fare a botte o te la cavi bene con le arti marziali o con le armi o con tutte queste cazzate cose combinate insieme, però se sei un attore devi anche saper recitare. Prendiamo John Travolta: John Travolta è un ottimo ballerino però sa pure recitare. In Pulp Fiction ne ha data splendida dimostrazione, sia di capacità nel recitare che nel ballare. Spesso in altri film non l’ha fatto in maniera fenomenale, magari, però sa recitare. Tra gli eroi action, guarda caso il mio prediletto è allora un altro volto che appare nel citato Pulp Fiction: Bruce Willis.
Ma Jean Claude Van Damme, come on, non è un attore. Sarà anche un karate kid così come io sono un cannibal kid, ma un attore?
Per dimostrare a gente birbona e criticona come me di esserlo, intendo non necessariamente “un bravo attore”, ma solo e semplicemente “un attore”, Van Damme ha girato un film d’autore, o che almeno vorrebbe essere un film d’autore così come Van Damme vorrebbe essere un attore, o così come io vorrei essere un blogger rispettabile, ma in tutti e tre i casi mi sa che c’è andata male.
A me, come blogger rispettabile, però lasciamo perdere. Quella è un’altra storia.
A Van Damme, che qui mena meno calci del solito peccato che il suo livello recitativo resti sempre bassissimo, proprio come la sua statura. JCVD in questo film si conferma essere un personaggio, diciamo persino un’icona se vogliamo giocare al poliziotto buono, o diciamo una macchietta se vogliamo fare il poliziotto cattivo. Ma un attore, proprio no.
E non va troppo bene nemmeno al film, che si salva, è guardabile, ha qualche spunto interessante, persino una manciata di idee originali, però non segnala un nuovo grande autore all’interno del panorama cinematografico belga (perché, esiste un panorama cinematografico belga?).

La cosa comunque sorprendente è che ho trovato un film con Van Damme nemmeno malaccio. Diciamo passabile, prima che qualcuno pensi mi sia sciroppato il cervello o, peggio, sia stato convertito al fordismo (http://whiterussiancinema.blogspot.it/). Giammai.
JCVD - Il film parte da uno spunto folle, quasi alla Essere John Malkovich. Solo che in quel caso essere John Malkovich, entrare nella sua testa e nella vita, anche solo per 15 minuti, è visto come un qualcosa di importante, come un grande onore, mentre qui essere Jean Claude Van Damme è vista come una cosa piuttosto ridicola e da sfottere alla grande.
E qui viene anche il pregio maggiore dell’opera, se così la vogliamo chiamare, ovvero quella di essere assai ironica. Meno male, perché laddove il film cede a qualche momento pseudo serio le cose vanno davvero male. Come quando Van Damme si estranea dal contesto e apre il suo cuore in un’autoconfessione che vorrebbe essere toccante e profonda e invece precipita nel comico, complice il fatto che Jean Claude proprio non sa recitare. Nemmeno nella parte di se stesso, e in questo ricorda i Costantino & Daniele del troppo tragico Troppo belli (http://pensiericannibali.blogspot.it/2012/08/troppo-brutti.html). Fino a che Van Damme interpreta Van Damme-l’icona, tutto bene quindi, ma quando prova a recitare nella parte di Van Damme-l’uomo, davvero non ci siamo. Che non sia davvero un uomo, ma solo un’entità astatta, un po’ come Chuck Norris?


La trama del film, che ancora non ne abbiamo parlato? Jean-Claude Van Damme si trova all’interno di un ufficio postale mentre questo viene rapinato da una gang di rapinatori, ridicoli assai.
Beh, e qual è la novità? È la trama di un action classico classico. Cosa c’è qui di particolare?
C’è che Van Damme interpreta (come detto nemmeno troppo bene) la parte di se stesso e quindi i rapinatori lo usano a loro favore, fingendo che sia lui il rapinatore di turno. Quando si diffonde la notizia che Van Damme la superstar (?) del Belgio ha dato di matto, pare per via della spinosa causa di affidamento della figlia, fuori dall’ufficio postale si raggruppa uno stuolo di suoi fan. Sì, avete capito bene: in pratica un esercito di Mr. James Fords scatenati. Aaargh!
Il film offre il suo volto più interessante soprattutto all’inizio, grazie a questo spunto piuttosto originale. Qua e là cerca poi qualche altra idea, non riuscendo però a trovarla e finendo per essere un heist film (un film de rapina, per parlà come magno), abbastanza tipico, con tanto di trattative tra criminali e polizia. Il tutto con la variante impazzita di Van Damme nella parte di se stesso.
E allora, la pellicola è promossa grazie alla valida idea di partenza e a un buon livello di ironia generale, da cui lo psycho nano Van Damme (il cui volto ormai è una maschera inquietantemente simile proprio a quella di Berlusconi) ne esce sbeffeggiato e deriso, ma ne esce comunque piuttosto bene.
Come personaggio, come karateka e, se vogliamo, come icona. Ma come attore no. Come attore davvero non ce la fa. Nemmeno quando deve interpretare se stesso.
(voto 6/10)

Cannibal Kid

lunedì 27 agosto 2012

La pioggia gialla delle forsizie


Una pioggia calda arrivò tamburellando sulla carrozzeria delle macchine, appannandone i vetri. Tossii nel palmo della mano una boccata di fumo aspra come il veleno, restituendo un sorriso di compiacenza alla cameriera che mi aveva servito un caffè, bollente che quasi mi raschiò la gola. Fuori dalla pensilina del bar soffiava un vento di scirocco che rendeva l’aria umida e tiepida. I passanti per strada sgattaiolavano rapidi. Come il mondo, d’altronde. Accesi un altra sigaretta e osservai la fiammella gialla e guizzante spegnersi tra le dita. Con un mal di testa in sordina che non si decideva a deflagrare, eccomi di nuovo solitario. Ordinai sempre alla stessa cameriera un Bloody Mary, che mandai giù di un fiato. A furia di stare da soli si diventa cauti, tanto che quella paura fottuta d’innamorarmi, di lasciarmi andare, di aprirmi e raccontarmi, continuava puntualmente a presentarsi, maltrattandomi e rivoltandomi in maniera feroce l’anima. Mentre i pensieri se ne andavano alla deriva, mi ricordai di quei brividi che mi avevano scosso prima che tutto finisse. Sapevo bene che era troppo tardi per cambiare rotta.

Attraversai la città a piedi con le palpebre strette e considerai che non si ha mai ragione da soli. Il vento era calato e una pioggerella, sorda e triste come un dolore, mi sorprese. Mi alzai il bavero del sgualcito soprabito, come per difendermi. Maddalena aveva portato scompiglio nella mia esistenza. Una vita senza infamia e senza lode, la mia, ma non mi andava di farmene una colpa. Camminavo sotto la pioggia e, rimasticando pensieri, tirai un sorso di gin dalla bottiglia che mi penzolava tra le mani. Era quasi mezzanotte quando rientrai in casa. Osservai le pile di dischi, i libri accatastati alla rinfusa sugli scaffali, il caos totale sopra il tavolo e mi sdraiai sul divano, osservando la luce obliqua della notte che penetrava dalla finestra. Avevo fatto in tempo a mettere sul giradischi Autumn in New York di Charlie Parker che caddi in un sonno tumultuoso.

Charlie Parker fu l’uomo della pioggia. Quella pioggia che si schioda ad un tratto dal cielo e viene giù come un diluvio universale. Un visionario delle sette note, che solo quando era intento a suonare riusciva a liberarsi dall’eroina. Una tossicomania acquisita sin dall’adolescenza. Era in quei frangenti che il suo dialogo interiore si metteva in moto. Attraverso di lui la musica si esprimeva in tutta la sua naturale bellezza. Notturna, violenta, brutale e, alle volte, tenera e dolce, la sua arte lambiva i contorni incerti del bene e del male, emanando un’ondata scura e affamata d’amore. Una storia, quella di Charlie “Bird” Parker, di ordinaria solitudine.

Un anima pesta, gettata tra le fauci di un mondo privo di delicatezza. Così come è capitato a tutti i dannati di questa terra, teneva più ai suoi veleni che a tutto il resto. Anche se, poi, lui trovava sempre uno spicchio di luce dentro i crepacci dove dimoravano i suoi mostri. Quegli scampoli d’innocenza e d’ingenuità, che gli restarono sempre attaccati dentro, lo preservarono dal cinismo del mondo. “e state a sentire vi prego, questo vecchio sax-tenore che suona come un dio”- alzò il volume della radio fino a far vibrare la macchina - “e ascoltatelo mentre racconta la sua storia ed esprime il vero rilassamento e le vera conoscenza” (Jack Kerouac - Sulla Strada)

Avevo collezionato un gran bel numero di errori non c’è che dire, ed ero pure cresciuto con la testa piena di cazzate. Guardai la mia immagine accigliata nello specchietto retrovisore dell’auto mentre procedevo a trenta all’ora, ascoltando Monk, il santone pazzo del jazz, in Round Midnight. E’ risaputo che a furia di cercare si finisce sempre per trovare qualcosa. Ma lei era ormai un capitolo chiuso. Avevo avuto il mio momento di gloria, non potevo più accedere ai suoi pensieri, né al suo corpo, ma di questo potevo biasimare solo me stesso. Guidavo non sapendo dove andare, solo che quell’unghiata mi doleva come un ostinato mal di denti. Uno stuolo di nuvole grigie si addensò nel cielo, ascoltai i gemiti sordi del vento. Tra non molto, ci avrei scommesso, sarebbe venuta giù la maledetta pioggia. ”vidi improvvisamente due fari che mi abbagliarono in faccia nella pioggia scrosciante. ahimè, credetti di essere sul lato sbagliato della strada; mi spostai verso destra e mi ritrovai a correre in mezzo al fango; mi riportai sulla strada. di nuovo i fari mi investirono diritti in viso; all’ultimo momento mi resi conto che era l’altro ad essere sul lato sbagliato della strada e non lo sapeva. (Jack Kerouac - Sulla Strada)

Con una barba lunga di tre giorni mi ripresentai al lavoro. Linda la mia collega di stanza, che solitamente era una donna gentile, mi guardò con attenzione e poi esclamò ambigua: “la malinconia alle volte non serve a nulla, non trovi Ferdinando?” Feci finta di non voler capire, mostrandole un ghigno da lupo e inabissandomi nelle pratiche arretrate che inevitabilmente si erano accatastate sulla mia scrivania. La vita mi aveva allenato a temere sempre il peggio e, in quanto a innocenza, non sapevo più che sapore avesse, da molto tempo ormai. Lavorai senza staccare neanche per la pausa pranzo, anche perché non avevo nessuna voglia di incrociare gli sguardi curiosi dei colleghi, né di scambiare con loro alcuna parola. Quando uscii dall’ufficio erano le sei e un quarto del pomeriggio. Avevo completato il lavoro arretrato e mi sentivo con la coscienza a posto. Nessuno, oltre me, doveva pagare le conseguenze delle mie condanne. Quelle erano solo le mie. Prima di rientrare a casa feci un giro a piedi nel centro della città. Una ragazza in carne con una maglia a fiori e un viso grazioso mi diede un volantino che pubblicizzava una palestra. Gli uomini come al solito andavano di fretta. Mi fermai nelle vicinanze del porto ad osservare le navi che attraversavano lo Stretto. Sembrava che graffiassero l’acqua piatta senza lasciare alcuna traccia del loro andirivieni, quei giganti del mare, a differenza di noi uomini che, ad ogni movimento, segniamo impronte profonde, persino dolorose, come quelle che Maddalena mi aveva impresso.

Florence disse che desiderava che Neal la stringesse anziché masticare quel sigaro. Jack fece segno di si con la testa e sognò di trovarsi in un bar con Charlie Parker sul palco e nessuna preoccupazione (Jack&Neal - Tom Waits). Durante gli anni settanta Tom Waits se ne stava rintanato al Tropicana Motel di Los Angeles. Prima di lui in quelle camere erano stati ospiti Janis Joplin, Jim Morrison, Jimi Hendrix ed Alice Cooper. Al Tropicana le band di rock’n’roll si lasciavano andare ai piaceri più sfrenati, quelli che Ian Dury riassunse in una semplice e perfetta canzoncina “Sex & Drugs & Rock’n’roll”. Waits a quel tempo abbaiava alla luna e dormiva fino a mezzogiorno. Viveva da vero beat in compagnia di Rickie Lee Jones e dell’amico Chuck E. Weiss. Un trio di randagi che usavano il Motel come base, per poi spostarsi ad esplorare i sogni in bianco e nero che Jack aveva raccontato e che Neal aveva percorso con la sua lucida follia. Prima di morire lungo i binari della ferrovia agli inizi del 1968, dopo anni di abusi di alcool e droghe. Lungo le arterie americane la magnifica macchina faceva sibilare il vento; faceva sì che le pianure si svolgessero come un foglio di carta; staccava da sè l’asfalto bollente che la rispettava; una macchina da re. Aprii gli occhi alle brezze dell’alba; andavamo incontro a tutta forza. La faccia impietrita e ostinata di Dean stava sempre piegata sul cruscotto con un’ossuta decisione tutta sua (Sulla Strada - Jack Kerouac). Nel 1975 insieme ad Allen Ginsberg, William Burroughs e Patty Smith, Waits prese parte al pranzo per la presentazione del libro di Ed Sanders Tales Of Beatnik Glory. Barba caprina arruffata, capelli incatricchiati e la bombetta dei jazzmen in testa. Tom Waits fumava come una pentola le ansie di chi, come lui, transitava nei territori che stanno in fondo all’oscurità. Da nord a sud, da est ad ovest, da Denver a Pittsburgh, sotto le stelle del west.

Una sera Charlie Parker, mentre improvvisava con il suo sassofono suonando ripetutamente Cherokee, un brano di Ray Noble, si accorse che impiegando sulla linea melodica del pezzo gli intervalli più alti degli accordi e mettendoci sotto delle nuove armonie abbastanza affini, il brano catturava un nuova percezione. Il bebop nacque da questa sua intuizione. Provavo un senso di benedizione dolce, travolgente, come un grosso getto di eroina nella vena principale; come un sorso di vino nel tardo pomeriggio che ti fa rabbrividire (JackKerouac - Sulla Strada). Prima di salire nell’appartamento mi fermai a parlare con il giardiniere della villetta di fronte casa. Un uomo acuto e affabile che mi illustrò alcune caratteristiche della forsizia, una pianta che mi attraeva e a cui teneva molto. Intanto che parlavamo, scrutai il palazzo dove abitavo e mi parve come un dipinto di Edward Hopper, per quell’ aria triste e solitaria che aveva. Al pari del sax di Charlie Parker in Out Of Nowhere. Salendo le scale rimuginai tra me e me che se pure l’avessi chiamata non avrei avuto più niente da perdere. Era inutile macerarsi nell’incertezza, al massimo mi sarei potuto afferrare un sonoro vaffanculo. Lo avevo letto da qualche parte che i dannati non piangono, ma era pur vero che avevo l’anima come mangiata dalla ruggine. Ed allora sarebbe stato meglio morire subito che in una lenta agonia.

Non appena rientrai in casa, accesi lo stereo e misi sul piatto Foreign Affair di Tom Waits. Un disco che porta con sè brandelli di pioggia, destinato a tutti quei pazzi di vita che hanno ricevuto un colpo da ko, ma che, pur traballando, riescono in qualche modo a non cadere. Vecchio figlio di puttana ti sei finalmente messo su questa benedetta strada (Jack Kerouac - Sulla Strada). Canzoni che sono come tante piccole lacrime tra le ciglia, narrate in notti spese alla ricerca di quella cosa che mai raggiungeremo. Ballate dolci e amare, perfette per coloro che si sentono in fuga dal mondo. Preparai delle uova fritte con prosciutto e formaggio e bevvi del vino. Un Nero d’Avola acquistato al supermercato. In Foreign Affairs Tom Waits è un vero vagabondo, in viaggio con la sua signora Fortuna. Ha un ombrello di malinconia aperto sulla testa e insegue a rotta di collo quei sogni selvaggi che crescono ai margini della strada dalle parti di Burma Shave. Ma è anche un bastardo pianista da luride bettole ”dove tutti hanno un piede nella fossa” mentre, avvolto dal fumo di una sigaretta che si consuma da sola nel posacenere, alticcio e stralunato, sussurra alla luna che: L’ossessione è nell’inseguire qualcosa non nell’apprenderla. Nel continuare a muoversi senza riposarsi mai. Presi il telefono e composi il numero di Maddalena. Dall’altra parte del filo la suoneria squillò cinque, sei volte e poi entrò il bip della segreteria telefonica che mi invitò a lasciare un messaggio. Non mi persi d’animo e recitai: Piccola ti prego non andartene ti chiedo scusa cara. Ho scambiato una bottiglia per una tromba e una cappelliera per una batteria. Ti chiedo scusa cara. Sono dispiaciuto ho perso la testa. Non pensavo davvero le cose che ho detto. Tu sei l’essenza dei miei sogni. Cara ti chiedo scusa(*). Mi addormentai un pò brillo sulla sedia a dondolo, aspettando che mi richiamasse. La mattina dopo, appena sveglio, feci un caffè come si deve e mi affacciai sul balcone. Vagliai che mi sarei dovuto fermare, correvo il rischio di non ritrovarmi più. Ero già sotto la linea di galleggiamento. Udii i passeri cinguettare, sbattei le palpebre e guardai nel giardino di fronte la pioggia di fiori gialli delle forsizie. Me lo aveva spiegato il giardiniere. Queste piante fioriscono con l’approssimarsi della primavera, quando preannunciano l’allungarsi delle giornate e l’aumentare delle temperature.

Il cielo era di un azzurro nuovo. Mi accesi una sigaretta, e pensai ad alta voce che questa volta sarebbe andata bene.

Bartolo Federico Giugno2012
(*) I beg your pardon (da One from the heart - Tom Waits)


art: Cherotto

venerdì 24 agosto 2012

stiamo tornando, anche se in effetti non ci siamo mai mossi...


rieccoci o quasi... tra pochi giorni riprenderemo le trasmissioni, con un leggero rinnovamento grafico, che abbiamo sospeso in occasione delle vacanze estive. Noi de L'Orablù siamo però sempre rimasti in attività sia a L'OrablùBar sia nell'organizzazione di quello che sarà la stagione che stiamo per affrontare... per ora vi salutiamo e vi raccomandiamo di segnarvi queste date: 21, 22 e 23 settembre... per chi ci conosce da poco segnalato questo blog dello scorso anno... a presto

martedì 7 agosto 2012

Sacco a pelo a tre piazze


Sacco a pelo a tre piazze
(USA 1985)
Titolo originale: The Sure Thing
Regia: Rob Reiner
Cast: John Cusack, Daphne Zuniga, Nicollette Sheridan, Anthony Edwards, Tim Robbins, Viveca Lindfors
Genere: commedia super 80s
Se ti piace guarda anche: Non per soldi… ma per amore, Una pazza giornata di vacanza, Risky Business, Fuori di testa, Licenza di guida

Cult anni ’80 cercasi. Ognuno ha i suoi cult personali e a volte è difficile spiegare razionalmente perché ti piacciano tanto. È così e basta. Sarà perché da piccolo ti sono rimasti dentro, magari a livello inconscio. Sarà che non si può cercare sempre una spiegazione razionale per tutto. L’eccessiva razionalità è una brutta bestia.
Sacco a pelo a tre piazze è un film gradevole e simpatico che scorre via veloce come perfetta visione estiva, con un tuffo negli anni Ottanta completo, ma che poteva riservare qualche soddisfazione maggiore. La storia è davvero basic, con un ragazzo come tanti che non riesce ad ambientarsi al college e allora decide di fare un viaggio per tutti gli USA in modo da ribeccare il suo migliore amico a Los Angeles e soprattutto una bionda che gliela darà sicuramente: è lei (almeno inizialmente) la “Sure thing” del titolo originale (velo pietosissimo invece su quello italiano). Il viaggio però lo farà insieme a una sua compagna di college tutta perfettina, che vuole andare a L.A. per trovare il boyfriend perfettino pure lui (e pure parecchio nerd). Uno spunto che verrà poi vagamente ripreso qualche anno più tardi da Harry ti presento Sally, solo che in quel caso la destinazione è NYC non L.A..

Un film piacevole, dicevo, ma che comunque non va oltre la soglia del “cariiiiino”. Perché?
Perché le battute snocciolate soprattutto dal John Cusack fanno ridere o più che altro sogghignare, ma non sghignazzare del tutto in maniera liberatoria e goduriosa.
La colonna sonora è carina, ma a parte la grande You Might Think dei Cars che si staglia nella memoria, il resto viene usato come sottofondo gradevole quanto mai incisivo.
La coppia di attori devo poi dire che non mi ha fatto impazzire, ma specifico anche che i due non mi hanno mai fatto impazzire. John Cusack boh, per me è una grande incognita, ha una carriera ormai quasi trentennale sul groppone eppure non ricordo una sua sola interpretazione memorabile, visto che in film come Alta fedeltà o Essere John Malkovich se la cava sì, però sono film che a me hanno lasciato addosso una sensazione particolare: quella che con un altro protagonista sarebbero potuti essere ancora migliori.



La sua compagna di viaggio è una ragazza tutta l’opposta del Cusack: tanto lui è confusionario, cazzaro e indeciso sul suo futuro, tanto lei è precisina, organizzata, secchiona e impegnata in una sterile relazione. A darle volto c’è Daphne Zuniga, che negli anni ’90 diventerà una delle protagoniste del telefilm Melrose Place e sarà una delle inquiline che mi staranno più sulle balle. Anche perché vogliamo mettere la Zuniga con Marcia Cross (poi in Desperate Housewives), Laura Leighton (ora in Pretty Little Liars) e soprattutto Heather Locklear, l’interprete della super bitch per eccellenza della tv americana, alias Amanda Woodward? Eh no, non c’è proprio competizione.
A proposito di Desperate, comunque, in questo Sacco a pelo a tre piazze fa il suo esordio assoluto su grande schermo la biondazza Nicollette Sheridan, qui la “Sure Thing” dei sogni del Cusack e che poi interpreterà la (apparentemente) meno disperata tra le casalinghe, quel pu**anone di Edie Britt. La Sheridan poi litigherà con l’autore della serie Marc Cherry e questi per vendetta farà morire il suo personaggio in maniera davvero tragica e bastarda. Ma questa, a quanto si suol dire, è un’altra storia…

Tornando al film, ormai mi sto dilungando e divagando troppo e non è più tanto una recensione spiccia. E allora arriviamo alle conclusioni rapide: nonostante un finale buttato via in maniera troppo veloce e nonostante mi aspettassi qualcosina in più, questo rimane comunque un must watch per gli appassionati di cinema del decennio. Don’t you forget about 80s.
(voto 6,5/10)

Cannibal Kid

giovedì 2 agosto 2012

Tutto il mondo è paese che vai usanza che trovi



A pagina cento io avevo già scoperto tutto.
Non l’assassino vero e proprio, ma il movente sì. Più o meno. A pagina cento avevo già individuato tre sospetti: 1) il marito innamoratissimo che non faceva domande alla moglie, 2) l’amante innominato (uno dei tanti) e 3) l’amica d’infanzia, nonché protagonista del romanzo (è bellissimo quando l’assassino è inaspettato). A pagina cento avevo già svelato il mistero, perché quel tipo scomparso di cui non si sapeva nulla, né nessuno sembrava voler sapere nulla, non poteva essere stato messo lì a caso. Quindi a pagina cento sbadigliavo chiedendomi se davvero la Läckberg avesse avuto la sfrontatezza di scrivere ulteriori 400 pagine sull’affetto che lega Erica alla sua casa d’infanzia, con le quali accompagnarmi mollemente fino all’ultima pagina, dalla quale avrei certo scoperto che il colpevole era proprio quello che sospettavo io, o almeno: che il segreto era proprio quello che credevo io, dato che di colpevoli io ne avevo tre. Però per un buon libro non conta solo sapere chi è l’assassino: infatti, come ho cercato di ripetermi da pagina cento a pagina centotrenta, conta anche la narrazione, se è fluida o balbettante, se ci rapisce o se rinnova la voglia matta di sbadigliare e subito dopo sbuffare e abbandonare.
Quasi ad ogni paragrafo si segue un personaggio diverso, e il punto di vista è di volta in volta del personaggio in questione e non quello obiettivo del narratore. La nostra cara Erica offre pertanto, quando tocca a lei e ai suoi pensieri e al suo punto di vista entrare in scena, uno spaccato di Svezia che mi ha fatto riflettere sulla famosa frase “tutto il mondo è paese”.
Io la Svezia non la conosco bene, e il fatto che nel romanzo siano indicate alcune usanze tipiche, mi ha entusiasmato quasi più della scoperta che ci avevo (in parte) visto giusto già entro pagina cento, perché sappiamo molto degli Stati Uniti ad esempio, grazie a romanzi e a film che da un secolo spopolano in Europa, ma dell’Europa stessa non sappiamo granché. Un’Europa riservata che appare poco in pubblico. Un tempo in Svezia si usava rovesciare le ultime gocce di caffè dalla tazzina sul piattino e berle attraverso una zolletta di zucchero (ho capito bene?); oppure usano mettere i guanti su una panchina gelida (è inverno e nevica, nel romanzo) per proteggersi da spiacevoli cistiti da freddo ghiacciato (??). Ma ho trovato anche abitudini più note.

“Effettivamente aveva avuto molto da fare, ma allo stesso tempo aveva trovato dentro di sé una pace mai provata a Stoccolma. Se si era single, nella capitale si viveva completamente isolati. A Fjällbacka, invece, non si veniva mai lasciati soli, nel bene e nel male. La gente si preoccupava dei vicini e vegliava su di loro – tutto quello spettegolare non la attirava in modo particolare -, ma ritrovandosi lì seduta a osservare l’affannosa rincorsa degli abitanti della city si rese conto che non poteva tornare a quella vita.”
Erica torna a Fjällbacka perché i suoi genitori sono morti e deve sistemare la questione della casa con sua sorella, ma di questo ce ne importa e non ce ne importa. Erica ha vissuto tanti anni a Stoccolma. Elle si ritrova sempre a leggere blog in cui si fanno i confronti fra l’Italia e il Paese estero in cui il blogger, temporaneamente o meno, vive o ha vissuto. Gli italiani spesso si lamentano di come al nord siano tutti più freddi e distaccati, mentre al sud puoi morire dissanguato per strada, visti i tempi d’attesa di un’ambulanza che sia una, ma senz’altro prima del tuo ultimo respiro tutti i passanti si sono prodigati per aiutarti.
Erica fa una giustissima osservazione che chiunque di noi può confermare, la differenza è tra città e paesello, non fra nord e sud (dell’Italia, dell’Europa, del mondo). Io almeno la confermo: in città si è tutti un po’ più estranei, anche nello stesso palazzo, perché vivere in un appartamento in affitto dall’altra parte della città rispetto a quella (più costosa) in cui si lavora, ovvero in cui si passano almeno quindici ore della propria giornata, fa sì che a volte i vicini non li si incontri mai, ma dà anche quel senso di temporaneità in attesa di un futuro migliore (una casa di proprietà in un quartiere più decente) che lascia lo stringere nuove amicizie, il coltivarle, il riuscire a fidarsi di persone che non sono originarie di quella città quindi è inutile chiedere in giro che tipi sono prima di lasciar loro un attimo i bambini per una corsa al volo al supermercato, all’ultimo posto della lista di cose da fare. Uno squillo ai nonni, alla collega, o portarsi i figli appresso incrociando le dita sulle conseguenze che questo avrà sull’idea originaria di “corsa al volo”, è la prima cosa che viene in mente in città. Salvo casi di incendio nel palazzo nel cuore della notte, spesso in città le occasioni di conoscere i vicini sono, assurdamente per chi proviene da un paese, quasi nulle. Io ho vissuto al nord in città, ma lavoravo e abitavo nello stesso quartiere: in questo modo si verificano quasi le stesse condizioni di un paese.
Una differenza di “accoglienza” però si nota anche tra il vivere nella propria città, quella in cui si è cresciuti, e l’andare a vivere in un’altra città. Nascere e crescere nella stessa città, frequentarci le scuole, viverci i primi amori, affrontare la propria indipendenza, cercare e trovare lavoro ci dimostra che la solidarietà (e la curiosità) tra vicini non è del tutto assente nemmeno in città. Trasferirsi da quella città ad un’altra città offre almeno in parte la stessa sensazione di spaesamento e di freddezza che se si arrivasse in quella città da un paesino della provincia: ogni posto nuovo e sconosciuto é freddo e distante, e per avvicinarsi ci vuole tempo, perché non c’è la testimonianza degli anziani garanti vissuti lì prima di noi.

Da pagina centotrenta in poi sono stata rapita dal racconto, in una maniera discreta e gentile, che mi ha subito riportata col pensiero al giallo della Christie appena finito, c’è però da dire che il finale, il vero colpevole e le ultime pagine - a partire dalla lettera, mi hanno lasciata perplessa, ma non ci ho fatto caso perché ero presa da altri pensieri.
 “Sotto la superficie i lati più oscuri dell’animo umano lavoravano anche lì come in qualsiasi altro luogo abitato. A Stoccolma il loro lavorio era palpabile, ma Erica era convinta che in una piccola comunità come quella fosse anche più pericoloso. Odio, invidia, avidità, vendetta… ogni sentimento veniva nascosto sotto un grande coperchio imposto dalla domanda “cosa dirà la gente?” tutto il male, la meschinità e la cattiveria avevano modo di fermentare tranquillamente sotto una superficie che doveva essere costantemente tirata a lucido.”

Tutto il romanzo ruota attorno a questo, al nascondere agli occhi della gente, al difendere dagli occhi della gente ciò che può essere considerato uno scandalo, né più né meno di quanto succede in tutti i paesini di campagna a sud della Scandinavia. A Stoccolma non è così, la gente si fa gli affari suoi, proprio come nelle grandi città italiane, dove per avere l’effetto paese devi sperare nel pettegolezzo della cerchia di amicizie o di colleghi. So di mescolare pettegolezzo, affetto delle persone vicine, richiesta e ottenimento di aiuto, apparenza fredda e apparenza calda, paura di ciò che direbbe la gente, cultura e mentalità nordica e mediterranea (indubbiamente differenti) in questa riflessione partita da un romanzo giallo, ma secondo me sono tutti atteggiamenti collegati, che non è difficile trovare un po’ ovunque, basta saper interpretare gli indizi per individuare di città in città la maschera giusta dietro la quale si nascondono, perché paese che vai, usanza che trovi, maschera che usi.


Elle