Era un azzardo, ci
abbiamo provato, ne è venuta fuori una serata coi fiocchi. Slam Poetry Versus Blues: le avanguardie più rivoluzionarie della poesia e una musica le cui radici si perdono in Africa,
in un tempo lontanissimo da noi. Un gruppo di ragazzi coraggiosi e talentuosi
(gli slammers e la band dei Jesus On A Tortilla), capaci di fondere in un
vibrante show, parole e note, immagini e suggestioni. Un viaggio emozionante,
attraverso un percorso lontano dai circuiti della cultura convenzionale,
eppure incrdibilmente vicino al cuore dell'ascoltatore. Se da un lato, la
poesia Slam, forma d'arte metropolitana che nasce in strada, in mezzo alla
gente, cattura il pubblico, lo scuote, lo schiaffeggia, lo induce a riflettere e
a dialogare, dall'altro, i grandi classici del blues, da Muddy
Water a Robert Johnson, accarezzano le orecchie dell'ascoltatore,
conducendolo in una dimensione quasi rurale, che evoca un'iconografia
color seppia e scioglie l'anima in un nostalgico viaggio a ritroso
attraverso l'alveo del Mississippi. Due forme d'arte distanti fra loro,
dicotomia fra passato e futuro, in cui la metrica libera del verso slam
confligge col rigore ritmico delle dodici battute del blues. Due mondi che si
confrontano, che si guardano in faccia e si studiano per buona parte dello
spettacolo, fino a quando nella catarsi di un finale a schema
libero, l'improvvisazione da jam degli strumenti e il free style di un
poetare quasi rap si fondono in una nuova entità artistica che non conosce barriere
temporali.
Martedì
prossimo, 4 giugno 2013, l'Orablù porterà questo suggestivo spettacolo
all'interno del Cesare Beccaria, il carcere minorile di Milano. Un altro
azzardo, una scommessa, un'intuizione estemporanea che, grazie
all'entusiasta adesione del personale del penitenziario e di tutti gli
artisti coinvolti, siamo riusciti a trasformare in realtà. Sarà, però,
uno show diverso, in cui cercheremo di abbattere l'ideale barriera fra pubblico
e artista, per rendere protagonisti della giornata soprattutto i ragazzi
detenuti, che potranno salire sul palco e recitare, a ritmo di hip hop,
le loro poesie. Ci piace pensare allora che quello di martedì sarà il
nostro evento più importante, e che per un pomeriggio, per tutti coloro che
saranno presenti, non esisteranno più sbarre nè catene, ma solo il
linguaggio salvifico della musica e
della poesia. Ali, altro non sono, per librarsi in cielo e sentirsi
finalmente liberi. Oltre una cella, oltre la prigione delle nostre ordinarie
esistenze.
Anche un colore come il giallo può presentare numerose sfumature. Quando il giallo incontra la narrativa non si può fare a meno di pensare al delitto, quello perfetto almeno nelle intenzioni magari. E via alle sfumature: il delitto seriale, quello passionale, quello classico della stanza chiusa, il delitto multiplo, quello per interesse e via discorrendo.
Ma le sfumature del giallo sono probabilmente ben più di cinquanta e sarebbe impossibile ora elencarle tutte. Concentriamoci su una di queste per il momento, una sfumatura che potrebbe portarci da subito fuori strada, come molti scrittori di gialli tentano spesso di fare con il lettore.
Il delitto dicevamo, la nostra sfumatura invece ci porta altrove e ci presenta un romanzo giallo dove non c'è delitto, non muore nessuno e non ci sono nemmeno sparatorie. Che cosa c'è allora? C'è la grande idea di uno scrittore, Donald E. Westlake, che decide di mischiare a una trama criminosa un alto tasso d'umorismo e lo fa sin dall'inizio degli anni '60, per un numero totale di romanzi molto, molto considerevole. Westlake ha pubblicato fino al momento della sua morte, avvenuta nel 2008, più di un centinaio di romanzi molti dei quali scritti sotto pseudonimo. A firma Richard Stark la celebre serie dedicata al criminale Parker che vide la luce nel 1962 con il primo episodio dal titolo Anonima carogne, serie di libri che si rifanno agli stilemi più classici dell'hard boiled.
Considerato uno dei maestri del giallo umoristico si è distinto anche come sceneggiatore, nominato all'Oscar per Rischiose abitudini, dai suoi romanzi sono stati tratti anche i filmPayback e Two Much.
In questo La danza degli Aztechi sono riscontrabili sia l'umorismo di fondo che accompagna tutta la vicenda sia, come succede anche nella serie dedicata a Parker, la predilezione per le vicende dei criminali (se così vogliamo chiamarli) più che per quelle di investigatori/tutori della legge.
Il romanzo si apre con un'incipit a mio avviso delizioso:
A New York, tutti cercano qualcosa. Gli uomini cercano le donne e le donne cercano gli uomini. Giù al bar degli invertiti gli uomini cercano gli uomini, e al "Barbara" e al Movimento di liberazione della donna, le donne cercano le donne. Le mogli degli avvocati, davanti a Lord & Taylor, cercano un tassì, e i mariti delle mogli degli avvocati, in Pine Street, cercano il rotto della cuffia. Le passeggiatrici davanti all'Americana Hotel cercano un gabinetto, e i ragazzini che aprono le portiere dei tassì davanti al terminal di Port Autohrity cercano mance. Così come cercano mance i tassisti, i fattorini, i camerieri e gli agenti della squadra Narcotici. I neolaureati cercano lavoro. Gli uomini che portano la cravatta cercano un lavoro migliore. Gli uomini che portano i giubbotti di pelle cercano invece migliori opportunità. Le donne in tailleur di linea severa cercano opportunità uguali a quelle degli uomini. Gli uomini con la cintura di coccodrillo cercano una roulette alla quale si possa barare. Gli uomini con i polsini lisi cercano dieci dollari fino a mercoledì. Gli imprenditori cercano profitti più alti e una bella villa in New Hyde Park.
E avanti così ancora per un pezzo e poi...
A New York, tutti cercano qualcosa. Edi tanto in tanto, qualcuno la trova.
Jerry Manelli gestisce un'impresa illegale di consegne all'interno dell'aeroporto di New York. Ogni tanto Jerry si fa aiutare nei suoi lavoretti dal cognato Frank e dal di lui fratello Floyd. Aggiungiamoci anche l'altro cognato Mel e il gruppo di sfaccendati è al completo.
Fatto sta che in conseguenza di un traffico internazionale d'arte organizzato da tre sudamericani inetti di un paesello dimenticato da Dio, un oggetto del valore di un milione di dollari finisce all'aeroporto dove operano Jerry e soci. Il guaio è che per una serie di equivoci la statuetta finisce insieme ad altre quindici copie come premio da elargire ai componenti di un'associazione di volontariato. Come recuperare il cimelio? A chi dei sedici componenti sarà finito in mano? Ovviamente Jerry e i suoi non sono i soli in cerca della statua, ci sono gli intermediari, veri criminali (ma non troppo seri), gente che viene a sapere della cosa in maniera fortuita e via discorrendo.
Il racconto è un susseguirsi di avvenimenti e scene comiche, la ricerca della statua assume spesso i toni della farsa, la pletora di personaggi invischiati nella faccenda è quasi infinita: oltre a Jerry Manelli e i suoi tre fidi compari ci sono tutti e sedici i membri dell'associazione (o quasi), almeno tre o quattro personaggi di contorno e comparse varie. La scrittura di Westlake (qui tradotto da Laura Grimaldi) corre che è una meraviglia, ti tiene incollato senza esibire particolari voli pindarici. La semplicità è evidenziata già dai titoli dei capitoli, cose come All'inizio..., Ma..., Sfortunatamente..., Per non parlare di..., etc...
L'impressione è quella di leggere un film, un film che se realizzato io andrei a vedere molto volentieri. Ci sono tante sfumature di giallo, questa semplicemente è quella spassosa. La Firma Cangiante
Il Minimal Incipit in apertura del post è per ricordare che questa settimana è partito il sito ufficiale dove si possono acquistare online.
Cast:
Johnny Depp, Amy Locane, Iggy Pop, Traci Lords, Susan Tyrrell, Polly
Bergen, Ricki Lake, Stephen Mailer, Darren E. Burrows, Willem Dafoe
Genere:
rockabilly
Se
ti piace guarda anche: Grease, The
Loveless, The Rocky Horror Picture Show
One, two, three o'clock, four o'clock rock,
five, six, seven o'clock, eight o'clock rock,
nine, ten, eleven o'clock, twelve o'clock rock,
we're gonna rock around the clock tonight!
Nooo,
non siete finiti su Virgin Radio con la sua ultima hit, non avete
sbagliato posto, è proprio il vostro Dj Cannibal Kid che vi sta
parlando, qui, in diretta, live su Radio Pensieri Cannibali, oh yeah. Sentite
un po’, oggi vi presento Cry Baby, una novità assoluta, l’ultimo
film con Johnny Depp…
Aspettate,
mi avvertono dalla regia che abbiamo una chiamata, scusate per
l’interruzione.
Pronto,
ciao bello, dicci tutto:
“Cry
Baby non è un film nuovo. È vecchio come il cucco e poi…”
Oops,
scusa bello, devo aver fatto confusione con le date, comunque che
altro volevi dirmi?
“E
poi Rock Around the Clock è ancora più vecchia del cucco,
coglione!”
Ok,
grazie bello per le precisazioni fatte in maniera molto educata ma
non è colpa mia, su Virgin Radio me l’hanno spacciata come la
nuova hit del momento, quindi sorry a tutti gli amici in ascolto e mi
confermano dalla regia che in effetti no, “Rock Around the Clock”
non è un pezzo nuovo, lo so, sono shockato anch’io.
Anyways,
amici belli in ascolto, andiamo avanti.
Cry
Baby, dicevo, un film non nuovo bensì del 1990 e ambientato ancora
più indietro nel tempo, pensate un po’ che storia, fino agli anni
’50. Gli anni ’50 del primo rock’n’roll, oh yeah guys, avete
capito bene. Il rock’n’roll è ancora vivo e vegeto, alive and
kicking, solo qui su Radio Pensieri Cannibali, dove vi teniamo
compagnia 24 ore su 24 con musica, parole e tanta pubblicità.
Perché
vi consiglio di guardare Cry Baby, amici belli in ascolto? Perché è
il non plus ultra del rockabilly. Cioè, in questo film vi potete
beccare un sacco di tipi stilosissimi vestiti in perfetto stile
rockabilly, con i capelli brillantinati all’indietro e la banana
alla Elvis the Pelvis in Memphis Presley. Oh yeah guys, sto parlando
proprio di lui, The King. The one and only, you
know what I mean? No? Manco io, stavo solo sputando fuori
frasi random in inglese perché fa tanto deejay figo one nation one
English lesson.
Tra
questi tizi rockabilly super figosi c’è anche lui, il più figo di
tutti.
Elvis the Melphis in Memphis Presley?
No,
non lui. Diciamo allora il secondo dei più fighi figosi di tutti,
Johnny Depp!
Sì,
proprio lui. L’attore rock’n’roll per eccellenza. Quello che si
è ispirato a Keith Richards per il suo Jack Sparrow nei Pirati dei
Caraibi e ha vagamente imitato il re del pop Michael Jackson nella
sua versione di Willy Wonka. That’s right, guys? Questa è la sua
prima storica performance rock’n’roll dove veste i panni proprio
di Cry Baby, il personaggio title track, il protagonista della
simpatica pellicola. E il Johnny che di sicuro ci sta sentendo in
questo momento live su Radio Pensieri Cannibali, quindi lo saluto, è
un mio amico, ciao Johnny, è proprio in parte. Lui è nato per fare
il rocker, è anche un ottimo chitarrista, ha suonato su alcuni
dischi di suoi altri amici rocker oltre a me come gli Oasis e Marilyn
Manson. Proprio un tipo giusto, uno rock, no? E quindi se la cava
alla stragrande, anche se va detto che i pezzi in cui Cry Baby canta
non sono interpretati proprio da lui, Johnny, bensì da tale James
Intveld, così come i brani cantati dalla protagonista femminile, Amy
Lockane, in realtà non sono interpretati dalla protagonista
femminile bensì da tale Rachel Sweet. Ma a proposito di Amy Lockane,
in questo film sembrava la sorella maggiore di Kirsten Dunst e poi
che fine ha fatto? Mah! Amy, se sei in ascolto anche te di Radio
Pensieri Cannibali, chiamaci e facci sapere come ti vanno le cose
nella vita, che ci manchi. Ciao Amy, grande!
Perché
ho parlato tanto di cantare? Perché questo film è una specie di
musical. Se odiate i musical, non preoccupatevi. I momenti musicali
non sono tantissimi, non hanno il sopravvento sul resto e soprattutto
non sono stracciapalle come Les Miserables. Sono anzi dei momenti
molto figosi e molto rock’n’roll. You know what I mean? No? E
allora ve ne faccio sentire uno, qui, in diretta solo su Radio
Pensieri Cannibali.
Uh
Johnny, che voce aauh! Volevo dire… James Intveld, che voce!
Visto?
Sentito? Ve l’avevo detto che i momenti musicali non sono una
mazzata sulle palle. Sono in verità tra i momenti forti del film.
Non ci credete ancora? E allora ve ne propongo un altro, miscredenti.
Niente
male, vero?
Se vi
aspettavate un Grease parte seconda, a parte che esiste veramente e
ha come protagonisti tale Maxwell Caulfield e Michelle Pfeiffer al
posto di John Travolta e Olivia Newton-John, questa è un’altra
storia. Una storia rock and roll, ok guys? Cry Baby è più che altro
una quasi parodia di Grease e, nonostante il titolo, più che
piangere, si ride, o, se preferite, si piange dal ridere. La
pellicola è infatti firmata da John Waters, quel matto di John
Waters, amici belli in ascolto. Un pazzo totale, il re dei freaks,
regista di cult movies come Mondo Trasho, e poi di altre spassose
genialate come La signora ammazzatutti, Pecker e A morte Hollywood!,
così come anche di un altro musical come Grasso è bello -
Hairspray. Uno sempre dalla parte dei diversi, degli outsiders, degli
strambi e anche questo Cry Baby è un inno alla diversità, uno
sfottò all’omologazione, un ennesimo sberleffo ricco di ironia
firmato da John Waters, signori e signore, ladies & gents, girls
& boys.
Un
film in pratica che non può mancare nella collazione di ogni
rockabilly che si rispetti, oltre che una pellicola perfetta
semplicemente per chi vuole godersi una visione divertente e
rock’n’roll, quindi andate a procurarvelo. Ultima curiosità: tra
gli attori del cast ci sono pure l’ex pornostar Traci Lords, più
Willem Dafoe, già protagonista del film rockabilly di Kathryn
Bigelow The Loveless, e poi c’è Iggy Pop. Sì, l’Iguana in
persona, that’s right. Che altro aspettate ancora a vedere questo
Cry Baby? Io adesso vi saluto e, visto che Rock Around the Clock mi
hanno fatto notare che può suonare un po’ datata, non so bene
perché, vi lascio in compagnia di una band rock’n’roll di
giovanissimi, i One Direction. Buon ascolto!
(voto
7+10)
Dj
Cannibal Kid è stato immediatamente licenziato. Ci spiace, fans dei
One Direction, ma al loro posto Radio Cannibale vi propone ora
un’altra song dalla pellicola Cry Baby. Vai Johnny!
A volte mi piace sognare come
sarebbe stato il mondo se i Beatles non fossero mai esistiti e ad un
certo punto fossero apparsi gli XTC da Swindon a insegnare al mondo come
si costruiscono perfette canzoni pop immediatamente godibili e
memorabili senza essere mai smaccatamente ruffiane o troppo commerciali.
Poi mi sveglio dal sogno e madido di sudore mi ricordo che anche
Andy Partridge e Colin Moulding senza i Beatles magari avrebbero fatto
il calzolaio o il lattaio a Swindon e non avrebbero mai nemmeno
imbracciato una chitarra. E accetto meglio la realtà, facendomene una
sana ragione."
Caracollando guardò la sua ombra sul marciapiede spostando il collo in avanti. I ragazzi avevano fatto il pieno, tirato a lucido la macchina e messo a punto il motore che rombava una bellezza. Lo guardarono aspettando che salisse. Quella sera si sentiva cosi triste che riusciva a vedere la sua disperazione specchiarsi sotto le luci delle insegne al neon. Con la sua voce rotta e gioiosa Rosa Maria disse: - Andiamo via da qui Bruno, andiamo via, in fondo è tutto quello che desideriamo -. E urlò forte in mezzo alla strada che puzzava di marcio. La guardò mentre scendeva dall’auto con i suoi stivali decorati e la giacca di jeans. Lei rifiutava le fatalità, la rassegnazione era sempre stata la più determinata di tutti loro.
Quando era poco più di una bambina stava quasi per uccidere il patrigno che aveva tentato di violentarla. Nel sonno gli piantò il collo spezzato di una bottiglia in mezzo al petto. Quell’uomo si salvò perché la forza con cui lo colpi non fu tale da arrivare al cuore. Rosa crebbe pigiando tutto dentro, centrifugando ogni cosa. Il gelo, la paura, la morte, non segnarono mai la sua anima. Tanto che appariva sempre sicura di sé da sembrare invulnerabile. Molti nel quartiere confondevano quella voglia di vivere per pazzia, ma lei era tutt’altro che pazza.
- Coraggio ragazzi! – continuò, - Torneremo con il bottino e daremo un senso alle nostre vite, balleremo come spiriti della notte, tutta la notte -. E lo baciò come solo un angelo solitario sa fare. La città era un imbuto, il quartiere un deserto, mentre l’oscurità avanzava e i loro cuori battevano come pistoni. Romeo in piedi sul lato sinistro della strada guardò Bruno. Anche lui aveva raccattato tutto il coraggio che aveva per essere lì quella sera, ma notò delle ombre sul suo viso che erano le sue stesse ombre.
La luce della vetrina era una stella cadente. Rosa Maria aprì il cofano della macchina, le pistole erano pronte per essere usate. Cadendo nel buio chi si era preso la loro parte migliore? Bruno se lo chiese sapendo che lei non era riuscita a convincerlo. Lei era nata per essere una regina, ma lui non voleva essere un suo martire e lo aveva scoperto casualmente quella mattina.
Alzandosi si sforzò per uscire dal letto. Mentre andava in cucina senti il brusio dei ragazzini del quartiere che giocavano per strada. Si trascinò fino al fornello preparandosi una tazza di caffè. Accese la radio e fu investito in pieno da un tizio che con una voce disperata cantava una canzone che lo tramortì all’istante. Quel tizio stava parlando di lui, di Romeo, di Rosa, di Liborio. Si sedette sulla sedia e guardò fuori dalla finestra, ascoltando quelle parole che gli si attaccarono addosso come un tatuaggio sulla pelle:
”Spanish Johnny arrivò ieri notte dai bassifondi con lividi sulle braccia e un’andatura traballante in una Buick tutta ammaccata ma vestito che era uno schianto. Provò a vendere il suo cuore alle dure ragazze di Easy Street ma loro gli dissero “Johnny, il tuo è così facilone e tu lo sai che i cuori oggi sono a buon mercato” e i protettori ruotando i loro bastoni dissero“Johnny sei un imbroglione”, allora i protettori ruotando i propri bastoni dissero “Johnny sei un bugiardo”, e dalla penombra giunse la voce di una ragazzina che disse ”Johnny non piangere” (Incident on 57 Street, Bruce Springsteen).
Dapprima restò stordito, annichilito su quella sedia, mentre il caffè si gettava di fuori e la moka prendeva fuoco. Il cuore gli si spappolò in mille pezzettini e una lacrima solitaria scese lentamente lungo il viso. Poi il pianto divenne sommesso, lungo, infinito, liberatorio. Quella canzone fu un vero dono di Dio. Per la prima volta in vita sua non si sentì più un relitto, la strada si era ad un tratto illuminata, capì cosa poteva fare e quel dolore sordo che gli stringeva il petto scomparve. Uscì in fretta e furia e andò in città, comprò quel disco di cui si era appuntato frettolosamente il nome ed il titolo e stette tutto il giorno ad ascoltare quelle canzoni che adesso davano un senso alla sua vita.
Rosa Maria si accorse che c’era qualcosa che non andava. Si avvicinò a Bruno cercando di abbracciarlo. Lui fece un passo indietro per non sentire quel calore che lei riusciva a trasmettergli e che lo inebriava, ma nello stesso tempo ebbe paura che lei si accorgesse di quel segreto che celava in fondo, nel buio del suo cuore. Allora davvero avrebbe perso tutto.- Non vengo, Rosa- disse, - Non è la mia vita questa, voglio ricominciare, ma in un altro modo, senza inganni, senza bugie. Ti amo e ti amerò per sempre, ma adesso è tempo che io vada, lo devo a me stesso e alla mia famiglia che mi ha tirato su con fatica. Voglio trovare un posto e ricominciare tutto da capo, in modo pulito, non voglio finire ammazzato o in galera, pretendo una possibilità come per tutti gli altri. Sguscerò nell’oscurità e non mi volterò mai indietro finché sarò sparito ed andrò avanti, avanti da solo e c’è la farò. Puoi contarci -.
La strada si ammutolì le ombre danzarono al chiaro di luna. Avrebbe bevuto volentieri un sorso d’alcool mentre restava da solo in mezzo alla strada dove non c’era più nulla che gli somigliasse un po’. Poi sentì il clacson della macchina si girò, vide Romeo che, seduto dalla parte del passeggero, gli faceva segno di salire. Bruno corse verso l’auto ed era come se corresse verso la vita, l’unica vera amante di tutti noi.
Come sublimare l’abbandono? Uno
sguardo complice al barattolo da mezzo kilo di nutella, imbracciare
il cucchiaino e ingollarsi con pantagruelica grazia la mitica crema
di nocciole, formulando uno strano mix di pensieri negativi verso il
fedifrago e positivi verso l’inventore del provvidenziale alimento…
Sir Bradley Wiggins ha abbandonato il
Giro d’Italia. Errori di valutazione, una preparazione sbagliata,
una primavera folle che più folle non ce né. Wiggo ha lasciato.
E io? Ho pensato di affogare la
disperazione nelle maltodestrine o meglio ancora di strafogarmi di
carnitina (che magari, invece mi aiuta a bruciacchiare un po’ di
ciccia) poi, da quella intellettuale dalle morbide forme quale sono,
mi sono buttata anima e corpo nella lettura. Ma non mi sono troppo
allontanata dal tema. Da tempo in attesa di lettura, sul mio tavolino
giaceva placido “Il Giro a sbafo”.
Di ciclismo si scrive tanto, tutto e di
più, Guido Foddis, l’autore, ce ne parla in un modo assolutamente
originale, da suiveur … dei catering!!!
Inventatosi la rivista culinaria Mangia
Piano, si è autoproclamato inviato ed è partito per la folle
impresa di seguire il Giro a costo zero.
Da Le premesse di un’impresa:
“…Ecco quindi che la presa in
giro che mi accingo a compiere andrà in eredità agli affamati del
domani, coloro che sono costretti a nutrirsi di cibo spazzatura
poiché non dispongono di un reddito sufficiente a degustare qualche
grammo di leccornia pagando cifre da country club. La mia impresa
mostrerà al mondo le infinite risorse cui può attingere un perdente
come me quando viene chiamato a sopravvivere. Attraverso questo Giro
d’Italia in bolletta svelerò a tutti gli stomaci vuoti quanto cibo
gratis si cela dietro le transenne della più importante corsa
ciclistica nazionale. Lo faccio anche per tutti i peones come me che
mi leggeranno nel tinello di una scalcinata casetta, costretti a
stare a galla con uno stipendio che, tolto l’affitto, corrisponde
grossomodo a quanto io intendo spendere durante l’intero mese della
Corsa Rosa: 250 euro, vitto alloggio e spese di macchina!”…
Non è necessario aver “subito un
abbandono” o essere malati di ciclismo per godersi questo libro,
piacevolmente scritto come un vero diario di viaggio, con il tono
scanzonato di uno che non si prende troppo sul serio…
Ha ufficialmente inizio una nuova collaborazione con L'Orablù. Siamo infatti lieti di presentarvi il grande Badit, che si unisce a noi dalla meravigliosa Palermo, con infinita fantasimpatia!
C’era un volta un ragazzo che si era innamorato di un genio, un genio
che si esprimeva attraverso dei pennarelli, pennelli, chine e matite e
trasformava i propri disegni in opere vive e le lettere in frasi nuove,
squillanti
Questo ragazzo riusciva a vivere storie non sue grazie
alle prodezze del genio, quando le leggeva si perdeva dentro talmente
tanto da far fatica a tornare alla realtà
Il genio abitava questa terra ma il ragazzo sapeva che questa terra non sarebbe bastata al genio, che il genio la soffriva
Così un giorno il genio decise di abbandonarla lasciando il ragazzo solo, senza storie in cui perdersi
Il
ragazzo all’inizio si sentì perso, abbandonato ma risucì a diventare
adulto con la consapevolezza di avere avuto un’enorme fortuna che pochi
posso raccontare in una vita: aver conosciuto un genio, aver letto,
raccolto e tramandato le sue storie, per sempre...
Vi abbiamo già detto dell'ultimo appuntamento che Gianni Biondillo terrà a L'OrablùBar vero? e che ospite della serata sarà Michele Monina? sì mi sa che via abbiamo detto pure questo... però c'è un'altra cosa che non vi abbiamo detto... anche perchè l'abbiamo saputo da poco... insieme a loro ci sarà anche Eleonora Tosca, cantante del gruppo pop Ariadineve... cosa aggiungere... la serata si preannuncia proprio come promesso sulle locandine: storie, visioni e musica dal vivo!
Sceneggiatura:
Stuart Beattie, Baz Luhrmann, Ronald
Harwood, Richard Flanagan
Cast:
Nicole Kidman, Hugh Jackman, Brandon Walters, David Wenham, Ben
Mendelsohn, David Gulpilil
Genere:aborigeno
Se
ti piace guarda anche: Via col vento, Moulin Rouge!, Il mago di
Oz, Ritorno a Cold Mountain
Non
essere piaciuto me molto Australia. Io australiano aborigeno e io
essere offeso da questo film. Noi no parlare come bambino della
pellicola. Noi parlare peggio.
No
piaciuto me, però due cose rimaste me in testa dopo visione. Numero
uno: Mrs. Boss o anche Missus Boss. Dopo vedere film, io gridare:
“Missus Boss! Missus Boss!” come cretino per due ore almeno.
Perché Missus Boss, Missus Boss?
Perché
così bambino del film chiamare Nicole Kidman. Perché essere donna
boss. Una che sapere fare valere sue ragioni. Io no vedere mai donna
così prima. Come dire noi da parti nostre: avere le palle, quella
bianca. Anche se da parti nostre noi chiamare Nicole Kidman anche:
“Bella fregna!”, non so da vostre parti come essere costume.
Numero
due delle cose rimaste me in testa dopo film: “Somewhere Over the
Rainbow”. Io no sapere significato delle parole della canzone, ma
io cantare per giorni e giorni. Prima cantare solo canzoni dei One
Direction, ora cantare: “Somewhere Over the Rainbow”. Io
migliorare. Tra poco magari ascoltare anche Radiohead.
A
proposito dei Radiohead, loro cantare canzone su titoli di coda di
Romeo + Giulietta. Io amare molto quel film. Io romanticone? Forse,
ma io amare amore tragico di Romeo + Juliet, no amare amore ruffiano
e stucchevole di Australia tra Missus Boss bella fregna Nicole Kidman
e muscoloso stalliere stallone mandriano Hugh Wolverine Jackman. Io
sapere cosa significare stucchevole. Mica ignorante, io. Io no
parlare bene vostra lingua strana per non dire lingua demmerda, così
dire a Roma, ao’? Però io no ignorante. Australia essere troppo
sdolcinato. Missus Boss e Wolverine tutti e due vedovi all’inizio
litigare e poi dopo trombare? Oh, troppo prevedibile.
E poi
3 ore di film? Voi bianchi noiosi. Voi tirare le cose troppo per le
lunghe. Da noi fare film di 5 o 10 minuti massimo, perché noi no
avere soldi per fare film lunghi. E perché noi annoiare con film
lunghi. Voi no? Voi sprecare tempo. Ricchi bianchi maledetti.
Voi
ora contagiare me. Io parlare a vanvera come voi. Io perdere filo di
discorso. Io prima parlare di Romeo + Giulietta. Io amare molto quel
film. Io avere già detto? Se dopo Australia io gridare: “Missus
Boss! Missus Boss!”, dopo Romeo + Giulietta io gridare:
“Ulieeeeta!”. Io amare molto anche film dopo di Baz Luhrmann,
Moulin Rouge! Io cantare e ballare molto con quel film. E Missus Boss
Missus Boss lì era ancora più fregna. Dopo quel film, io no volere
gridare. Io volere fare amore con Satine fino a prime luci dell’alba.
Io
amare molto cinema di Baz Luhrmann, io già comprare biglietti per Il
grande Gatsby, ma io no amare molto Australia. Australia è lungo,
noioso, mettere dentro troppi temi: amore, Seconda Guerra Mondiale,
dramma di noi bimbi mezzi bianchi e mezzi neri, noi generazione
rubata. Troppa roba. Troppa. E i personaggi essere troppo
stereotipati. Io sì, sapere anche cosa volere dire stereotipati. E
no avere a che fare con stereo. Io sapere. Io no ignorante anche se
sembrare parlare come ignorante vostra buffa lingua complicata.
Missus Boss, il mandriano, il bimbetto, il cattivone… Quanto essere
stereotipati. E poi situazioni troppo alla Via col vento, troppo da
pellicola fuori dal tempo, troppo melò, persino per il cinema melò
di Baz Luhrmann. Io no piacere Australia. Io però tenere me in testa
e per sempre me in cuore due cose del film: “Somewhere Over the
Rainbow” e Missus Boss! Missus Boss!
Quella per il teatro è
una passione trasversale, che unisce giovani e meno giovani, in un sogno a occhi
aperti che solo le suggestioni che nascono su un palcoscenico sanno
creare. Non c'è bisogno di un testo importante per catturare attenzione, basta avere intuizione,
freschezza e sincero trasporto, e il gioco
delle emozioni riesce comunque, perfettamente.Così, quando vanno in scena Le Bollicine, i
giovani attori della compagnia teatrale legata all'associazione culturale L'Orablù, la prospettiva resta intatta e
l'arte prende nuova forma, diversa dal consueto
forse, ma non per questo meno suggestiva. In un clima festante e
informale, ieri pomeriggio, grandi e piccini hanno affollato l'aula conferenze
dellla biblioteca di Bollate, per assistere a uno
spettacolo giovane, frizzante e divertentissimo, lontano anni
luce da quell'idea troppo convenzionale che talvolta, sbagliando, ci facciamo del teatro. Un teatro che,nello specifico, diviene
soprattutto un momento di condivisione ludica, in cui il
sorriso e la leggerezza illuminano la scena, il silenzio è figlio della
partecipazione e l'applauso finale si
trasforma in giocosa catarsi. I primi a esibirsi sono i bambini
del Circo Dei Delfini Dal Naso Rosso, piccoli e "avventurosi" artisti,
che inscenano uno spettacolo circense in cui abilità, equilibrismo e
coordinazione motoria sono l'essenza di suggestive coreografie e brillanti
esercizi di giocoleria. Un breve ma coinvolgente antipasto, che scalda il
pubblico in attesa dei veri protagonisti della serata. Quando infatti Le
Bollicine entrano in scena per presentare la loro pièce, intitolata
semplicemente "TV", l'emozione è palpabile e gli applausi
piovono scroscianti. Nella suggestiva cornice dell'essenziale
scenografia ideata da Alberto Ipsilanti, i giovani attori danno vita a
una rappresentazione dal ritmo serrato, in cui i dialoghi, spesso
surreali e al limite del non sense, gettano uno sguardo beffardamente ironico su
un mondo televisivo stereotipato e totalmente privo di contenuti.
Quasi Teatro Dell'Assurdo, in cui manca però il senso tragico del
dramma, qui sostituito da un approccio testuale, senz'altro
ingenuo e scanzonato, ma ricco di lucidi spunti critici. Quarantacinque minuti
di autentico spasso, in cui la risata diviene anche strumento non banale di
riflessione e approfondimento. Le Bollicine frizzano, divertono e
convincono. E soprattutto, ci trasmettono, senza più filtri, l'essenza che dovrebbe
animare, sempre, ogni forma d'arte: quella spontaneità che talvolta noi adulti
perdiamo di vista e fatichiamo a
recuperare.
Mentre mi radono i capelli osservo il mio volto stanco e tirato, sono stati giorni duri questi per me. Ho ingoiato sangue e odio e tutti mi guardano come fossi merda secca. Ma sono un uomo, un semplice uomo, che ha cercato riparo mentre imperversava la tempesta. Sono cresciuto in Oklahoma ma sarei potuto nascere in qualsiasi altra parte del mondo. Quando ero piccolo, rannicchiato nel mio letto, mia madre mi accarezzava i capelli e pregavamo il Grande Spirito. Poi spegneva la luce e mi dava il bacio della buonanotte e non chiudeva mai la porta della mia stanzetta, perché sapeva che avevo paura del buio. Crescendo, sentivo tante cose nel mio cuore. Per questo in un diario segreto scrivevo tutto quello che mi passava per la mente. Me lo ricordo ancora, quel quaderno era a quadretti piccoli con la copertina verde ed è stato il mio migliore amico per tanto tempo. Non mi ha mai tradito. L’ultima volta scrissi che da grande volevo andare dove splende il sole, anche se è la pioggia che fa crescere i fiori.
Quando conobbi Esmeralda fu subito amore. Lei era tutto per me ed io ero tutto per lei. Facemmo l’amore per la prima volta nel granaio in mezzo alle galline. Nessuno dei due sapeva che fare. Provammo vergogna come due bambini, ma ci arrangiammo e fu bellissimo. Avevo sedici anni è il mondo mi rideva, portavo collane e bracciali, avevo i capelli lunghi e scrivevo canzoni. Mio zio Tom, il mio vecchio zio, mi aveva regalato una chitarra Stella che un marines gli aveva venduto quando dovette partire per il Vietnam. Ora quell’uomo è tornato, non suona più la chitarra e abita sulla collina dove coltiva marijuana. Lo zio mi insegnò a suonare le canzoni di Hank Williams, il rock’n’roll e il blues di Mississippi John Hurt. Ma a me piaceva cantare le canzoni che scrivevo, anche se erano storte e sgangherate come diceva lui. Ogni tanto i miei mi permettevano di esibirmi davanti a loro nel cortile di casa. C’erano ancora i miei nonni, si beveva birra e mangiavamo lo stufato di montone. Bei tempi quelli, si proprio bei tempi.
L’amavo la mia Esmeralda, l’amavo con tutto me stesso. Tutti i giorni mi alzavo e andavo a lavorare in un officina meccanica. Avevo le unghie nere e puzzavo di benzina, ma mi piaceva aggiustare le moto, era il mio regno ed ero felice. Il capo mi trattava con dignità e anche i clienti avevano imparato a rispettare un indiano Cherokee. Il sabato, quando il buio calava sulla città, ce ne andavamo in giro abbracciati, lei si metteva il vestito rosso e si agghindava i capelli. Le luci al neon illuminavano i nostri sogni, ero un vero romantico con la mia ragazza di campagna. Le tenevo la mano e le compravo sempre una rosa rossa da Willy il fioraio che aveva i fiori più belli dell’Oklahoma. Non le promisi mai nulla perché le promesse di un uomo sono le menzogne di un altro. Avevo tutto scritto negli occhi. Ringrazio sempre la buona stella che mi ha dato lei. Ecco guarda ho le sue iniziali tatuate sul braccio.
Ero solo un ragazzo, un ragazzo normale che voleva vivere la sua vita. Volevo costruirmi una famiglia come mio papà aveva fatto con la mia mamma. Non mi interessava diventare ricco, ma avrei fatto del mio meglio per renderla felice, prendendomi cura di lei e dei nostri bambini. Quando ci sposammo ci recammo in macchina in Nebraska a trovare dei suoi cugini. Sulla strada sognai molto e ci intendemmo meglio. Quel giorno le nuvole in città erano nere e gonfie d’acqua, ma in seguito il tempo fu bello che arrivammo d’un fiato. Fu in quel viaggio che lei restò incinta di nostro figlio. Se non ero troppo stanco, alle volte suonavo con il mio amico Steve a cui piacevano le mie canzoni. Tutte quelle che ho scritto quando mi hanno arrestato le ho regalate a lui. Durante un colloquio mi guardava e singhiozzava come un bambino. Non c’e giustizia in Oklahoma disse .
Una sera tornando da lavoro mi fermai in quella stazione di servizio come avevo fatto un centinaio di volte per prendere delle birre. Il ragazzo del banco giaceva a faccia in giù sul pavimento in una pozza di sangue. Invece di girarmi e scappare, feci quello che ogni buon cittadino americano avrebbe fatto: aspettai che arrivasse la polizia. Quando giunsero mi guardarono e solo perché ero indiano, dissero che ero stato io a sparare e mi arrestarono. Al processo il giudice mi condannò a morte non avevo i soldi per difendermi. Il mio avvocato d’ufficio alzò le spalle, chiuse la valigetta, girò i tacchi e se ne andò. Fu un gioco fin troppo facile gettarmi in questa cella per nove lunghi anni, dove ho incontrato solo poveri e negri e non tutti colpevoli. Questa è la mia ultima ora. Il prete è venuto a prendermi. La guardia mi ha legato i piedi e le mani con le catene e sta gridando, mentre apre la cancellata, che sono un “Uomo morto che cammina, un Uomomorto che cammina”. Ma chi siete voi per giudicare con certezza che un uomo è colpevole. Mi chiamo Billy Austin, ho 29 anni, sono nato in Oklahoma e vengo dal quartiere Cherokee.
Il sottotitolo di questo libro “Storie
di viaggio da Milano a St Moritz” strideva un po’ con il titolo
(Cuochi, Artisti, Visionari), forse per questo ha attirato
immediatamente la mia attenzione, di solito poco colpita (o forse, in
realtà, diffidente) delle “civette” editoriali. Non riuscivo a
capire di cosa si trattasse: reportage di viaggio (non
obbligatoriamente devono essere fatti rispetto a mete lontane e
paradisiache) o piuttosto l’ennesima opera cultural-gastronomica
scritta sull’onda del “mangiare bene è di moda”.
Niente di tutto questo, o meglio, più
di tutto questo. L’autore viene inviato per una serie di réportages
nelle zone di confine tra la Lombardia e la Svizzera: quelle “terre
di mezzo” fra la Pianura Padana, la città e la grande civiltà
della montagna, dei suoi abitanti e dei suoi prodotti. Un reportage
gastronomico, iniziato “sotto il segno della gola”, alla ricerca
di coloro che, nel terzo Millennio mantengono vive le tradizioni dei
secoli passati (“…E la candela la sta mai ferma e la se moev
cum’è la memoria, anca el raagn soe la balaustra ricama el quadru
de la sua storia, la ragnatela di me pensee la ciapa tutt quel che
riva scià ma tanti voolt la g’ha troppi bocc e l’è tuta de
rammendà…”).
Un viaggio, che ben presto si trasforma in un
moderno pellegrinaggio. Alle soste nei “crotasc” (in italiano,
crotti, grotte originate da frane, quindi “attrezzate” di crepe e
scanalature che permettono la circolazione dell’aria) antiche
cantine ma anche luoghi destinati all’agape conviviale della
domenica, ora per lo più chiusi o (nel migliore dei casi)
trasformati in preziose trattorie per gustare la “chisciatola”
(una sorta di crèpe, fatta con il grano saraceno) o i pizzoccheri di
Chiavenna, piuttosto che la “slinzega” (striscia di carne
essiccata); il nostro giornalista alterna incontri con antichi
artigiani. Quali gli anziani cavatori di pietra. Di quella pietra
ollare che troviamo oggi, bella, squadrata, quasi finta nei barbecues
che troneggiano nei nostri giardini o sulle nostre terrazze. La
stessa pietra che, scura, diventa rovente al sole. Quella “pioda”
(in dialetto) sulla quale qualche antico spaccapietre aveva posato un
pezzo di toma o di taleggio, inventando (inconsapevole chef) la
svizzera raclette o la lombarda cucina alla pioda...
Un moderno pellegrinaggio fatto anche
di esperienze e di ricordi di una terra fra laghi e montagna. La
Grigna, il Resegone, il monte Badile: alpi prese d’assalto dai
milanesi in libera uscita, da veri montanari e da scalatori della
domenica. Le montagne di confine, quelle dei contrabbandieri (“ninna
nanna, dorma fioeu che te sognet un sacch in spala per rampegà de
dree al tò pà…….so questa vita che vivum de sfroos in questa
nòcc che prégum de sfroos….”)
Quei rami del lago di Como, spazzati
dalla Breva e dal Tivano (Breva e Tivann, Breeva e Tivann, i tirén e
i molen e i te porten luntàn, varda de scià, varda de là, la
spunda la ciàma ma la barca la va) . Su su fino all’Engandina, nei
luoghi dove visse i suoi ultimi anni il pittore Segantini per cercare
di vedere e filtrare con i propri occhi tutto quello che il pittore
aveva ritratto nelle sue tele.
Cercare Segantini e scoprire
Giacometti. Il primo che in Svizzere cercava la luce, il secondo, di
quei luoghi nativo, che cercò l’ispirazione altrove…
Ecco, questo è “Cuochi, artisti,
visionari”, di Paolo Paci.
So di aver proposto un triplo salto
mortale ai non pratici di dialetti nordici con le citazioni (in
originale) delle liriche di Davide van des Sfroos ma l’autentica
genuinità delle persone e delle cose incontrate in questo libro
hanno spesso richiamato alla mia mente le parole e i personaggi
cantati e descritti dal cantautore lariano. Il sottofondo delle sue
musiche (in particolare quelle dell’album Breva e Tivan) non è
obbligatorio ma vivamente consigliato a chi volesse godere appieno
dell’atmosfera che si respira in questo godibilissimo libro di 270
pagine.
Sì, lo sappiamo, manca più di una settimana ma noi siamo previdenti e ci portiamo avanti... ;-) Anche perchè è l'ultimo appuntamento, almeno fra quelli previsti, con Gianni Biondillo e i suoi amici autori. Sappiamo già che ci mancheranno questi sabati, però non è detto che siano finiti del tutto... Per la serata del 25 maggio l'ospite principale sarà Michele
Monina.
Instancabile scrittore, critico
musicale, reporter, traduttore e autore televisivo, Michele Monina -
anconetano di nascita e milanese di adozione - in quindici anni di
professione ha pubblicato oltre 60 libri (compreso quelli sotto
pseudonimo) tra narrativa, saggistica, libri di viaggio e libri
interviste. Ha saputo raccontare in numerose biografie le storie di
grandi della scena internazionale musicale e sportiva come Vasco
Rossi, Lady Gaga, Valentino Rossi. Recente è il suo mega progetto
Grand Tour de Force, composto da 12 reportage su 12 capitali in 12
mesi, ognuno dedicato a una capitale europea al tempo della crisi.
Insieme a Gianni Biondillo ha scritto Tangenziali, un insolito
reportage sulle tangenziali milanesi girate a piedi. Per la
televisione ha ideato il programma Stasera niente Mtv, condotto da
Ambra Angiolini.
Non mancheremo la prossima settimana, attraverso questo blog o la pagina facebook, ti ricordarvi questo appuntamento. Nel frattempo vi consigliamo di fare uno salto in libreria, in questi giorni è uscito Cronaca di un suicidio, il nuovo romanzo di Gianni Biondillo.
- Capo.
- Sì?
- Il soggetto rientra dalla farmacia.
- Bene.
- Entra in casa.
- Bene.
h 10.45
- Cazzo cazzo cazzo!
- Marietti, che c'è?!
- Il soggetto sale in macchina!
- Cosa?!
- Capo, il soggetto sale in macchina ed esce in retromarcia.
- Seguitela, presto!! Salite in macchina, forza!
- Capo, le stiamo dietro.
- Marietti cosa succede?
- Capo non lo so, il soggetto si dirige verso l'uscita del paese.
Continuano
gli arrivi all'OraBlù. Approda oggi, Diamond Dog. Il proprietario di Rocksaloon ci delizierà dalle pagine del
nostro blog fornendoci spunti per ascolti vecchi e nuovi, mediati da un
punto di vista diverso dal solito. BURATTINO SENZA FILI
Concept
album troppo spesso dimenticato, uno dei primi dieci dischi della storia
della Musica Italiana. Il Pinocchio moderno di Edoardo Bennato, il
capostipite, e, forse, l'unico vero rocker italiano, resterà pe sempre
scolpito nella nostra memoria. Qui di seguito, il gran finale del disco,
l'amaro destino di quello che "voleva diventare uno di noi..."
Cast:
Kim Bodnia, Mads Mikkelsen, Zlatko Buric, Laura Drasbæk, Peter
Andersson, Slavko Labovic, Nicolas Winding Refn
Genere:
spacciato
Se
ti piace guarda anche: Pusher 2, Pusher 3, Bleeder, Drive
Una
settimana nella vita di un pusher. Non è un nuovo reality di Cielo,
non è il sostituto di Teen Mom su Mtv, bensì è il film d’esordio
di Nicolas Winding Refn. Il danese che tutti amiamo per Drive e che
qualcuno, come me, allo stesso tempo odia anche per il comatoso
Valhalla Rising. Prima dell’esplosione mondiale, prima del suo
ingresso nella Hollywood che conta, prima della sua venerazione a
livelli quasi religiosi e terrencemalickiani, tutto ha avuto inizio
con Pusher.
Come
anticipato, Pusher parla di un pusher, uno spacciatore, uno che si
guadagna da vivere vendendo la roba. Che vi aspettavate, d’altra
parte, con un titolo del genere? Un film su un chierichetto? Nel
mostrarci una “tranquilla” settimana del suo protagonista, Refn
non si risparmia certo. Da una materia tanto pulp, il regista ha
tirato fuori un film tanto pulp con sesso (più parlato che fatto),
droga e rock’n’roll, così come scatti di violenza improvvisi,
qualche rissa e scene leggermente splatterose. Da una materia così
pulp, volendo il Refn avrebbe potuto esagerare ancora di più,
d’altra parte eravamo proprio nel mezzo dei pulpissimi anni ’90,
ma il suo intento non sembra quello di voler stupire a tutti i costi
per gli eccessi di quanto filma. Il danese sembra voler stupire più
per la messa in scena, che per come mette in scena. E ci riesce alla
grande. In
quanto opera d’esordio, ci troviamo di fronte a un film ancora
acerbo, eppure lo stile del regista emerge già con prepotenza. La
primissima scena, i titoli di testa che ci introducono i personaggi
con il loro nome scritto in sovrimpressione, ci riportano nel mezzo
di una scelta stilistica tipicamente anni ’90. Considerata la
tematica tossica, l’impressione iniziale è allora quella di
potersi trovare di fronte a una copia danese di Trainspotting o poco
altro. Bastano pochi minuti e l’impressione si rivela subito
sbagliata. Sbagliatissima. Refn non sembra avere l’intenzione di
copiare nessuno, semmai è alla ricerca di uno stile proprio. Uno
stile che in apparenza può sembrare di stampo documentaristico, ma
non è così. Il regista non adotta quello stile mockumentary che nel
nuovo millennio avrebbe conosciuto grande fortuna. Refn segue i
personaggi con macchina da presa a mano, segue da vicino il suo
pusher protagonista, per fortuna evitando quell’effetto tremolante
da mockumentary, appunto. Pur girando con un budget ridotto, Refn fin
dal suo esordio vuole fare Cinema, grande Cinema, non robette dal
sapore amatoriale. Pusher passa così dall’essere un potenziale
clone pulp dei successi in auge negli anni Novanta, o dall’essere
un potenziale documentario pseudo realistico sulla vita di uno
spacciatore, all’essere un piccolo e prezioso saggio
cinematografico su come seguire un personaggio e gettarci all’interno
della sua vita. Una lezione da cui sembra aver tratto insegnamento
anche il Darren Aronofsky di The Wrestler e Il cigno nero, pellicole
in cui si instaura un rapporto quasi fisico tra macchina da presa e
personaggio in una maniera molto vicina a quanto visto in questo
Pusher.
Naturalmente
questo folgorante esordio getta anche le basi per il Refn-style
successivo, quello che sviluppato a dovere e con alcuni accorgimenti
lo porterà a realizzare il suo capolavoro, Drive. Un elemento
fondamentale nella riuscita di quest’ultimo è la scelta delle
musiche. L’atmosfera electro-pop tanto anni ’80 e
contemporaneamente attuale getta la pellicola in una dimensione fuori
dal tempo molto originale. In Pusher invece la selezione musicale è
più scontata e tipicamente anni ‘90. A tratti la soundtrack del
film spacca parecchio, però non colpisce fino in fondo. Per la scena
dell’inseguimento del pusher con i poliziotti, viene ad esempio
usato un pezzo punk-rock; una scelta efficace, quanto prevedibile,
laddove quella di Drive è parecchio più imprevedibile.
Altro
elemento che non convince del tutto è la costruzione del personaggio
protagonista, il pusher Frank, interpretato da un ottimo Kim Bodnia,
che tornerà anche nel successivo film di Refn, Bleeder. Seguiamo
questo personaggio per un’intera settimana, eppure non scatta mai
nei suoi confronti una vera empatia. La freddezza emotiva credo sia
una scelta precisa del regista, qui anche sceneggiatore a quattro
mani con Jens Dahl, però a coinvolgere maggiormente sono i
personaggi secondari. Sono loro a regalare i momenti più “umani”
alla pellicola: il picchiatore che confessa il suo sogno di aprire un
ristorante, o la prostituta innamorata del pusher Frank, così come
la madre dello spacciatore che cerca di aiutarlo finanziariamente, e
una maggiore umanità la si ritrova persino nella sbruffonaggine del
suo amico Tonny, interpretato dal sorprendente esordiente Mads
Mikkelsen, che ritroveremo protagonista assoluto di Pusher II. Una
freddezza emotiva che verrà risolta in Drive in maniera non ruffiana
o cuoriciosa, solo regalando al protagonista Driver un maggiore
sentimentalismo. Rendendolo più umano, “a real
human being, and a real hero”.
Il
finale di Pusher è sospeso, proprio come quello di Drive. Laddove
quest’ultimo lascia però con la sensazione di aver assistito a
qualcosa di pienamente riuscito e con un gusto buono, Pusher lascia
un po’ l’amaro in bocca. Un esordio folgorante, un talento
registico genuino da tenere d’occhio, ma anche l’impressione che
manchi qualcosa. Col senno di poi, possiamo comunque dire che Refn
con Drive riuscirà a portare a completo compimento quanto di buono
mostrato con un esordio che, sempre col senno di poi, non si è certo
rivelato un fuoco di paglia.
E
adesso? Adesso non ci resta che attendere Only God Forgives
fiduciosi, per scoprire se il danese saprà far battere i nostri
cuoricini come con Drive o se riuscirà persino a volare ancora più
in alto. Una cosa sembra però certa: almeno per gli occhi, sarà uno
spettacolo tutto da non perdere.