sabato 30 giugno 2012

LEZIONI DI GEOMETRIA IN CUCINA: VOLUME E DIAMETRO DEL RISPETTO

Stanotte ho avuto la camera tutta per me, ma l'ho scoperto solo stamattina. Mi stavo chiedendo se per caso in quest'ostello io non sia l'unica italiana che non conosce l'inglese, e mi son quasi risposta di sì. Ieri però, udite udite, ho detto per la prima volta ufficialmente "ja" in risposta alla domanda "Sprichst du Deutsch?". Alcuni di quelli che ultimamente mi parlano in tedesco, o mi chiedono se lo parlo, sono membri dei gruppi punk.

Ieri in cucina ne ho conosciuto uno, il gruppo più normale: erano seduti nella veranda, ma sia la porta che la finestra della cucina erano aperte, la finestra era aperta per far passare il filo della radio che suonava al volume massimo la loro musica spacca timpani, che comunque non mi dispiaceva, anzi ho avuto l'impressione che anche l'acqua sul fuoco seguisse il ritmo segnato dalla batteria e dalla chitarra, raggiungendo il bollore prima del solito e consentendomi di pranzare senza aspettare i soliti venti minuti. La porta invece non aveva altro motivo apparente per rimanere aperta, se non quello di permettermi di fumare con loro: non so di preciso quali sostanze abbia fumato durante il mio pranzo, so solo che dopo mi son sentita meglio; dalla finestra aperta non entrava invece il freddo, dato che c’erano 7 gradi e si stava bene, bensì immagini di vita in comune, anche se non sempre mi sono arrivati i dettagli, perciò non vi so dire con precisione se il capellone riccio e il capellone moro si siano scambiati un bacio profondo o il fumo bocca a bocca: in ogni caso un modo come un altro per rendere l'altro partecipe delle proprie sensazioni. Uno dei ragazzi mi ha approcciato in cucina, naturalmente in inglese, poi mi ha presentato il suo amico, che aveva il compito di fingersi italiano, infatti mi ha salutato con un impastato "bonciorno".
I miei compagni d’avventura in questi giorni sono proprio loro: tante persone vestite di nero attillato, talvolta abbelliti da catene di varie dimensioni, ma non tutte le teste hanno creste colorate: per questo prima ho detto che questo è il gruppo punk più normale dell'ostello. La cosa strana è che sentire odore di birra (leggete "alito"), scambiare battute col tedesco o con il suo amico o chi era (non sono sicura di poterli distinguere in tribunale), e ascoltare musica ad alto volume, anche se non è proprio il mio genere musicale, mi ha fatto sentire a casa. Che razza di infanzia ho avuto, se mi sento a casa fra ubriachi tedeschi vestiti da scheletri?

I gruppi punk sono a Berlino per il Punk & Disorderly Festival, perciò non fanno orario d’ufficio. Oggi alle dieci del mattino sono scesa in cucina per la mia colazione, e ho trovato di nuovo, o forse dovrei dire “ancora”, il gruppo punk seduto fuori che rideva impastato come un matto, la porta aperta, la cassa di birra davanti a loro sul tavolo, il fumo che penetrava silenzioso in cucina, loro visibilmente andati. Io però ho aspettato di iniziare ad imburrare il mio pane, prima di poter interagire con qualcuno di loro, perché da quando sono diventata grande, nessuno mi rivolge mai la parola se non sto facendo colazione. Appena le prime due fette sono saltate fuori dal tostapane, io ho preso in mano burro e coltello, poi coltello e pane, e ho iniziato ad imburrare e, come mi aspettavo, qualcosa è successo.
Fetta di pane numero uno. Un tipo crestato entra da fuori, mi vede china sul ripiano vicino alla porta che da sul corridoio e si blocca sconcertato; il gesto di bloccarsi all'improvviso gli fa perdere lo scarso equilibrio che gli era rimasto e per poco non cade all'indietro; io mi giro quando sento un borbottio, pensando che sia il suo modo di salutarmi, ma vedo il suo sguardo perso nei chilometri apparentemente infiniti che separano me dalla porta: infatti continua a spostare lo sguardo da una all'altra (siamo io e la porta), e sembra davvero incredulo. Biascica qualcosa, di cui io capisco solo "toilette", mi sembra davvero in difficoltà, come se tutto il mondo che lui conosce (birra e cessi, suppongo) sia stato improvvisamente spostato e sostituito da una tipa senza cresta ma coi capelli raccolti in una coda, vestita di nero non attillato e privo di catene, che imburra il pane laddove un tempo passava la strada che conduce da un capo all'altro del suo mondo (ossia dalla birra al cesso).
- Toilette? - ripeto per maggior sicurezza, non voglio infatti dargli indicazioni sbagliate rischiando di gettarlo nel panico più totale.
Sempre biascicando lui trova il coraggio di chiedermi se quella porta è il bagno: evidentemente pensava che tutto l'ostello fosse costituito da veranda-cucina-porta del bagno. Però se io sono lì, e non sono passata davanti a loro per arrivarci, forse sono uscita da quella porta, e se da quella porta sono uscita io, forse quella porta non porta al bagno come lui invece credeva. Lui è finalmente giunto a questa conclusione, quando io gli confondo di nuovo le idee rispondendo inaspettatamente con un: - Ja. –
Lui, ormai terrorizzato, ripete: - Ja? –
Ed io a quel punto decido di dargli un aiutino, perciò, sempre sorridente come se cose del genere ne facessi tutti i giorni all'asilo dove insegno, gli apro la porta e gli ripeto: - Ja, hier links. –
Anche perché a destra c’è la sala ristorante, e non voglio essere causa di scompiglio nella metà borghese e benpensante degli ospiti dell'ostello. Lui mi ringrazia con tono veramente sollevato, ed esce dalla cucina verso il bagno; credo che all'uscita dal bagno poi si sia perso, perché non è passato dalla cucina, ma ha fatto il giro dalla reception ed è uscito in cortile dalla porta d’ingresso, e chissà a che ora era partito dal bagno per poter arrivare di nuovo in veranda solo quando io ero ormai alla quarta fetta di pane.

Fetta numero due. Due tipi vestiti di pelle nera (ma non come gli africani) entrano dal corridoio, mi salutano ed escono fuori in veranda; io quasi subito sento parlare di radio.

Fetta numero tre. Uno dei due tipi appena usciti, rientra e biascica qualcosa di cui capisco solo "Gesellschaft". Dalla mia faccia riesce a capire che non capisco, anche perché, ve lo dico subito, la parola che ho capito significa "società". Dopo aver ripetuto di nuovo la frase, decide di cambiare tattica, e usa un'altra frase, di cui capisco solo "Gast", allora intuisco che mi sta chiedendo se lavoro all'ostello o se sono una cliente. Io rispondo la verità e lui esce di nuovo.

Fetta numero quattro (è l'ultima, lo giuro). Rientra lo stesso tipo e mi chiede un'altra cosa impastata, di cui capisco stavolta solo "Radio". Ancora una volta deve ripetere, ma siccome io ho chiesto di ripetere con un semplice: - Wie? – lui intuisce qualcosa e mi chiede: - German? –
Allora mi rendo conto che aveva parlato in inglese, e lo confermo col ricordo di quella strana pronuncia: "redio". Ecco perché, premurosa, mi affretto a dire "ja", e a quel punto lui ripete in tedesco, e stavolta capisco tutta la frase: mi stava chiedendo se avevo visto una radio.
Io una radio l'ho vista ieri per ben due volte: la prima volta veniva ascoltata in veranda e per questo stava sul davanzale della finestra, aperta per lasciar passare il filo, invece la seconda volta una ragazza l'ha portata in reception, dove ha chiesto se gliela potevano custodire lì. Siccome non so se si tratti della stessa radio, rispondo semplicemente "nein". Lui però nel frattempo prende a gesticolare per farmi capire che la radio che cerca è rettangolare e grande più o meno così, ma la mia risposta negativa è definitiva, perciò alla fine lui esce di nuovo e senza radio. Un piccolo particolare che mi ha permesso di capire che si tratta dello stesso tipo della domanda sulla Gesellschaft, è che entrambe le volte è entrato in cucina con la sigaretta accesa, e sappiate che si tratta di un ostello in cui è vietato fumare ovunque, tranne in veranda (ma con la finestra chiusa) e in cortile.

Di me non si può certo dire ch'io abbia la puzza sotto il naso, anche se gli odori purtroppo li sento tutti, a volte ancor prima che vengano emanati. Incontrare tante persone, anche quelle che nel mondo da cui provengo vengono definite "strane", a me fa piacere, perché mi piace aprirmi a nuovi modi di essere, di vivere, di vedere il mondo. Ho imparato che una persona apparentemente strana, ad esempio nell'aspetto, nell'abbigliamento, nel modo di parlare o gesticolare, spesso nei fatti concreti si comporta "normalmente", e che persone del tutto normali secondo gli standard del mondo da cui provengo, una volta superato l'involucro più esterno, quello del primo impatto per intenderci, si rivelano completamente fuori dai loro stessi canoni. Ho imparato che per tutti esistono persone “normali” e persone “strane”, solo che le definizioni di ognuno portano a risultati differenti, e l'unico modo per conciliarli tutti è quello di dire "sono normali le persone come me, sono strane tutte le altre". Io però non riesco a vedermi come una persona normale in un mondo di normali, e allo stesso tempo non mi va nemmeno di essere etichettata come strana, piuttosto penso che ognuno sia qualcuno, qualcuno diverso dagli altri, ma senza voler dare alla parola "diverso" un'accezione negativa, bensì col significato di "a modo suo speciale". Ma se proprio volessi stabilire anch'io dei requisiti da possedere per poter essere definiti "normali" secondo il mio punto di vista, allora ne indicherei solo uno: rispetto.
Avendo sempre in mente che in ogni definizione, anche in quelle più lunghe di una sola parola, è bene includere di diritto un certo numero di eccezioni, vi invito a riflettere su una questione puramente tecnica: immaginate la cucina dell'ostello, e mi raccomando concentratevi perché dopo vi interrogo su quello che ho detto: la cucina è formata da un pavimento e da un soffitto, ciascuno dei quali ha una superficie di circa 3 metri per 4; tra il pavimento e il soffitto c'è una parete alta circa 3 metri, in tutta la cucina ci sono ben 4 pareti, e precisamente ce ne sono 2 larghe 3 metri e 2 larghe 4 metri; se voi ora vi prendete il disturbo di moltiplicare tutti assieme contemporaneamente questi numeri l'uno con l'altro, otterrete all'incirca il volume complessivo della stanza. Come potete vedere non è una cucina piccolissima, per questo la mia domanda è: perché stamane il mio Amico Punk, avendo a disposizione tutti questi metri cubi di spazio, ha agitato la sua sigaretta accesa precisamente sopra i soli dieci centimetri di diametro della mia tazza piena di caffè?


ELLE, sabato 30/06/2012

giovedì 28 giugno 2012

Planet Terror


Trama: Una nube verde, si propaga in una cittadina statunitense, facendo diventare quasi tutti i suoi abitanti degli zombi. Tra i pochi sopravvissuti c'è Cherry, una ballerina di lap-dance che finisce in ospedale dopo un attacco dei terribili mostri. Le viene amputata la gamba, al suo posto si ritroverà con un fucile automatico che la aiuterà, insieme a Wray il suo ex ragazzo, a porre fine alla minaccia dei mutanti nonostante l'intervento dell'esercito.

Se qualcuno si avvicina alla macchina, spara
Anche se è papà?
Soprattutto se è papà.

Dove sono i cadaveri?
È quello che volevo dirle, se ne sono andati.


Sotto un caldo africano, concludo "l'omaggio" (che parolone!) ad uno dei miei registi preferiti con quello che, personalmente, ritengo essere il miglior Rodriguez di sempre.
Premessa, a mio parere, doverosa e necessaria. Bisogna arrivare alla visione di "Planet Terror", vero e proprio prodotto per appassionati, adeguatamente preparati. Non è una questione di snobismo, per carità, è solamente una dato di fatto; perchè uno spettatore che decide di guardare "Planet Terror" senza sapere ciò che lo attende, sicuramente dopo pochi minuti si pone delle domande sulla sanità mentale dell'autore di una pellicola di questo genere.
Seconda parte del progetto realizzato dai due ragazzacci Tarantino Rodriguez e destinato ad omaggiare le Grindhouse, ovvero le sale adibite alla doppia programmazione, vere e proprie cattedrali del b-movie, parzialmente ridimensionato dall'uscita separata delle due pellicole, "Planet Terror" è eccesso allo stato puro.



Si parte con il fanta trailer di "Machete" , ma già da quel R.I.P., ovvero Rodriguez International Production (ma scritto su una lapide ha altro significato) si capisce come proseguirà la visione.
Perchè se il segmento tarantiniano "A prova di morte" a mio parere alla fine risulta eccessivamente compiaciuto ed un pochino deludente, Rodriguez, come e più del solito, si diverte a sorprenderci con qualcosa di apparentemente rozzo ed assolutamente folle.
Attenzione però, folle non vuol dire stupido.
Anzi, Rodriguez dimostra di conoscere la materia e di saperla padroneggiare da vero maestro.
Girato benissimo, fotografia bellissima con la pellicola volutamente sgranata, musica e sceneggiatura dello stesso regista, "Planet Terror" è una sorta di fumettone splatter rigorosamente destinato ad un pubblico adulto, in cui troviamo di tutto e di più.
Gas verdastri, testicoli tranciati di netto ed impacchettati, cervelli che scoppiano, eroine con un fucile al posto del mitragliatore, dottoresse sexi con la siringa per l'anestesia nella giarrettiera, militari diabolici.
Infarcito di litri di sangue ed ironia, ha un cast al servizio del suo regista.
La bellissima Rose McGowan buca letteralmente lo schermo, e poi, tra gli altri, Freddy Rodriguez, Josh Brolin, Naveen Andrews e Bruce Willis nei panni, non a caso, di un militare duro e puro che molto ha a che fare con Bin Laden.
Da segnalare il pazzesco cameo di Quentin Tarantino gentile omaggio del suo allievo prediletto.



Io mi sono divertita tantissimo.

mercoledì 27 giugno 2012

Dream about us

Un altro esordio su questo blog. Oggi è la volta di Melinda che propone un suo racconto. Benvenuta.


Il sole era appena tramontato e il cielo, limpidissimo, era di tre colori tenui; le ultime nuvole della giornata facevano capolino dietro le montagne. Alessia era stanca, aveva lavorato tutto il giorno e aveva solo una gran voglia di dormire. Dopo aver cenato con due piccoli panini con carne e tanta maionese, era andata in camera e si era buttata sul letto, completamente vestita, non aveva neanche la forza di indossare il pigiama. Dopo soli cinque minuti Alessia già dormiva profondamente e, quando squillò il cellulare, non lo sentì nemmeno. Dopo qualche minuto il cellulare suonò di nuovo e stavolta Alessia si svegliò. Aprì gli occhie dovette fare mente locale, che ore erano e soprattutto che giorno. Si alzò dal letto e si avvicinò alla scrivania dove era il cellulare, che con la vibrazione sembrava stesse per raggiungerla.

martedì 26 giugno 2012

Stress da Nicolas Cage


Stress da vampiro
(USA 1988)
Titolo originale: Vampire’s Kiss
Regia: Robert Bierman
Cast: Nicolas Cage, Jennifer Beals, Maria Conchita Alonso, Elizabeth Ashley, Kasi Lemmons
Genere: yuppie du
Se ti piace guarda anche: American Psycho, Fuori orario, Voglia di vincere

Ci sono dei film che potrebbero essere dei cult. Potrebbero esserlo facilmente. Prendi Stress da vampiro. Ok, il titolo italiano fa schifo, tanto per cambiare. Stress da vampiro? Ma chi l’ha deciso un titolo del genere? Nemmeno uno che intitola un post “Stress da Nicolas Cage” oserebbe tanto. Anche perché “Stress da vampiro” non vuol dire nulla, mentre “Stress da Nicolas Cage”, considerando come l’attorone americano ormai giri al ritmo di 6 o 7 pellicole da schifo l’anno, un senso ce l’ha eccome.

Il titolo originale è invece assolutamente cool: Vampire’s Kiss. Negli anni ’80 non era nemmeno ‘sto titolone, ma alla luce (si fa per dire, parliamo pur sempre di creature notturne) del successo globale dei vari Buffy, Twilight, True Blood, The Vampire Diaries e Underworld, un titolo del genere da solo basterebbe per aprire un nuovo franchise di successo.


Alla sceneggiatura della pellicola troviamo poi Joseph Minion, che all’epoca era fresco reduce da uno degli script più avvincenti dell’intero cinema 80s, quello per il Fuori orario (http://orablu.blogspot.it/2012/04/lora-cult-fuori-orario.html) di Martin Scorsese, che poi è anche il motivo principale per cui ho recuperato con curiosità questo film. Solo che, laddove Scorsese riusciva a tradurre in immagini la folle, grottesca, emozionante nottata fuori orario vissuta dal protagonista, qui le cose vanno parecchio meno bene.
Si può anche dire che la sceneggiatura in questo caso sia meno ispirata, molto probabilmente lo è, però non è nemmeno priva di spunti interessanti. Tutt’altro. Lo script di Minion mette sul fuoco tanta carne, e buona pure. La tematica vampiresca applicata a una vita più o meno “normale” oggi può apparire ormai stra-abusata, considerando come non venga quasi più prodotta alcuna serie tv o pellicola senza ALMENO un succhiasangue tra i protagonisti, ma negli 80s non erano così in voga, tanto che questo film potrebbe essere considerato avanguardia pura. Ho detto potrebbe.
E poi è presente pure la tematica della follia applicata allo yuppismo, con il personaggio di Nicolas Cage che è una sorta di fratello gemello del Patrick Bateman di American Psycho. Meno fissato con l’aspetto fisico, magari, ma non meno fuori di testa. Come nel romanzo di Ellis, e seguente film di Mary Harron, anche qui il protagonista ha due volti: da una parte è un rispettabile membro della comunità, un uomo attraente e di successo, anche se non si sa bene perché visto che come Bateman non è capace di fare nulla. Dall’altra parte è invece un pazzo psicopatico, in questo caso non è un serial-killer, bensì è un vampiro. O almeno si crede di essere un vampiro. Ma lo sarà o non lo sarà? Il dubbio resta, così come in American Psycho. Peccato che il protagonista di questo Vampire’s Kiss sia un Nicolas Cage davvero modesto; se ne Il ladro di orchidee (Adaptation) di Spike Jonze il Nicola Gabbia a sorpresa (grande sorpresa!) riusciva in maniera credibile a interpretare due gemelli contemporaneamente, qui il gioco della doppia personalità gli riesce parecchio meno bene (e questa non è una grande sorpresa).

Sono diversi i punti di contatto anche con Fuori orario, il più evidente è il contrasto tra vita diurna normale (o quasi) e vita notturna in cui dare sfogo al proprio lato oscuro. Il limite maggiore del film sembra però essere la regia, davvero modesta e con uno stile 80s patinato, ma di quell’80s troppo patinato per essere considerato cool, di Robert Bierman.
Robert Bierman, chi?
Ecco, appunto: Robert Bierman, chi? Di certo non è uno Scorsese. Tra il regista che si limita a scaldare la sedia e il Cage in versione inverosimile vampiro psicopatico, i due cattivoni ce la mettono tutta pur di affossare gli spunti presenti nella sceneggiatura del buon Joseph Minion, che da lì in poi non riuscirà più a riprendersi e realizzerà pochi script per film poco interessanti: qualcuno ha visto Motorama o On the Run? Davvero un peccato, per uno che all’esordio aveva firmato una sceneggiatura da fuoriclasse come quella di Fuori orario.

Poteva essere un cult, questo Stress da vampiro. Poteva essere considerato una sorte di anticipatore di Buffy e delle altre serie vampiresche, poteva essere, ancor più a ragione, un fratello maggiore di American Psycho. La sceneggiatura c’era, le idee pure. E invece si sono messi di mezzo una realizzazione che viaggia più sui binari del ridicolo che su quelli del grottesco, un titolo italiano inascoltabile e illeggibile, una regia anonima che non permette alla storia di crescere in tensione come ci si sarebbe potuti aspettare, ci si mette pure un Nicolas Cage protagonista per nulla all’altezza, più una Jennifer Beals che anziché come vampira fatalona è meglio come ballerina tamarra, nonostante Flashdance sia un mio altro scult personale.
Sarebbe potuto essere facilmente un grande film, questo Stress da vampiro, invece no. Colpa dello stress da cult?
(voto 5/10)


lunedì 25 giugno 2012

Melissa



Erano quasi le dieci di una mattina di fine maggio, senza sole e con le nuvole dietro la collina che minacciavano una pioggia torrenziale. Me ne stavo sotto la pensilina di legno della veranda di casa di Melissa e guardavo il Mississippi scorrere. Lei era in ospedale, dove lavorava come infermiera. La  mattina, quando era uscita, mi aveva baciato sugli occhi che ancora dormivo, sussurrandomi di fare la spesa perché “di lì a poco il frigorifero avrebbe fatto le ragnatele”.

sabato 23 giugno 2012

Miriam Mellerin

E' notte fonda, e nella stanza l'espressione "buio pesto" sembra essere un eufemismo, quando da un angolo si scorge una luce dai colori strani, uno squarcio nell'oscurità in mezzo al quale le zampe di un enorme ragno si muovono, poi un cd che comincia a girare e una chitarra acida e distorta ad aprire le danze. E' così - brancolando nel buio e con la sensazione che qualcosa lì in mezzo si stia muovendo - che si entra nel mondo dei Miriam Mellerin, power trio pisano formato da Diego Ruschena, Daniele Serani e Pietro Borsò che promette fuoco e fiamme....

Sono molto giovani i tre toscani, classi 1988, 1989 e 1993, come giovane è la loro band, ma l'età conta davvero poco quando ci sono talento e passione, tant'è che dal 2010, anno di nascita del gruppo, i Miriam Mellerin sono letteralmente esplosi, in un battito di ciglia si sono ritrovati appena ventenni a condividere il palco con Gazebo Penguins, Ovo, Titor e persino Giorgio Canali, e vengono notati quasi immediatamente da Edoardo Magoni, produttore già di un'altra ottima band toscana del circuito Alternative rock italiano, i Kobayashi. Magoni non ci pensa due volte e mette i tre sotto contratto per pubblicare l'album di debutto che ha visto la luce lo scorso 25 gennaio. "Miriam Mellerin", semplice titolo omonimo che dopo poche settimane era già sulla bocca di molti nell'ambiente, e ascoltando i sette brani che lo compongono è facile comprendere il perchè....

Ma torniamo a quella stanza buia e a quelle stranianti sensazioni, l'acida chitarra di Daniele Serani introduce il baluginìo dell'enorme ragno per qualche secondo, poi il ritmo si abbassa e la stanza torna a farsi tetra, è "Parte di me" la traccia di apertura, in bilico tra il post rock e il noise, in un crescendo continuo che inizialmente attribuisce al pezzo connotati quasi da ballata, per poi sferrare colpi di elttricità e rumore ben piazzati, con le sferzate di Serani sul tempo violentemente battuto da Pietro Borsò e la voce graffiante di Diego Ruschena; come se non bastasse ad impreziosire il brano arriva sul finale il riuscitissimo duetto di Ruschena in collaborazione con Diletta Casanova dei The Casanovas. Una prima traccia a dir poco significativa, che chiarisce da subito l'orientamento musicale dell'intero disco: quello che i Miriam Mellerin vogliono creare è un caos rumoroso in cui le sensazioni, le paranoie, la rabbia e gli istinti si incontrano e si scontrano, un plumbeo habitat, quello perfetto di una scricchiolante e inquietante stanza buia, in cui il trio toscano fa convivere pezzi nervosi e urlati, attimi di delirio paranoico e un sound che saccheggia quel che di migliore è stato creato dalla scena alternativa italiana e lo mescola con ispirazioni internazionali, in particolar modo con il rock spinto, quasi hardcore, tipico dell'underground statunitense. I tre pisani interpretano il rock in maniera molto personale, anche se i riferimenti e le similitudini con altre band italiane ci sono, l'aura di Verdena e Marlene Kuntz si nota nel sound e i testi a volte cantati o urlati e altre volte narrati ricordano non poco il teatro degli orrori, soprattutto nella seconda traccia, "Made in Italy", cadenzato rock rabbioso che con poco velate metafore spara critiche a raffica a questa nostra "povera penosa penisola", a quest'Italia in cui "non c'è nessuno che ti salverà da meccanismi di sottomissione delle coscienze", e come non ritrovarsi nella voce roca e nervosa di Ruschena che urla "Scappa! Via di qua!". Ma è dal terzo brano che i Miriam Mellerin cominciano a far pesare il loro talento, le splendide linee di basso di "Made in Italy" sfumano negli ultimi secondi e da qui in avanti non ci sarà un attimo di respiro, il buio diventa oscurità, la stanza chiusa si fa improvvisamente piccola e claustrofobica, il delirio comincia, e ha tutte le sembianze di una colonia di "Insetti". "Insetti", questo il titolo del brano forse più interessante dell'album, una paranoica immedesimazione negli istinti e nelle ossessioni di un'insetto - che poi sono davvero così diverse da quelle un essere umano? - suonata a ritmi forsennati con i bpm a numeri altissimi e da ascoltare a decibel da sordità, una bomba.

Siamo al giro di boa e "Trust", la quarta traccia è anche la prima in cui la band accantona l'italiano a favore dell'inglese, dimostrando di saperci fare anche con l'idioma d'albione; in "Trust" l'espressione post-rock prende forma nel migliore dei modi e il risultato è davvero splendido. Sullo sfumare finale di "Trust" il ritmo sembra abbassarsi, e anche le prime note della successiva "Ostrakon" sembrano annunciare un attimo di respiro, ma non è così, e quando la voce di Ruschena torna alla lingua italiana e scandisce le parole con fare acido ci si rende conto che il rallentamento è soltanto l'anticamera di nuove scariche di nervosismo.... Sono parole pesanti e critiche rabbiose quelle rovesciate sul sound schizofrenico del brano dai Nostri che chiariscono che saranno pure giovani ma certo non hanno paura a dire "Siamo stanchi del potere, non c'è rispetto per la candia ignoranza, vale la pena tradire chi si fida di te!", e fanculo i timori reverenziali! Il cantato inglese è lo sposalizio perfetto per "B.H.O.O.Q.", distorta e tirata, con incursioni melodiche spagnoleggianti, una parentesi quasi da soundtrack Tarantiniana e un finale che definire delirante e schizofrenico è riduttivo.

Nel finale si torna nuovamente all'italiano, e che italiano! Per concludere l'album Diego, Daniele e Pietro hanno tenuto da parte una vera e propria chicca: "Stilnovo" è un tributo versione hardcore-punk al più celebre sonetto di Cecco Angiolieri, "S'i' fosse foco, ardere' il mondo", tra i pilastri della letteratura comico-realista, un dissacrante affronto alle convenzioni stilistiche del "dolce stil novo", che faceva della dolcezza e della delicatezza dei versi uno dei suoi cardini. Uno scritto essenziale per la letteratura italica che già l'immenso Fabrizio De Andrè aveva musicato in chiave moderna nel 1968 e che torna sottoforma di un poderoso rock da pogo che si conclude con un vero e proprio delirio strumentale, una chiave forse non apparentemente consona, eppure il risultato rende giustizia al coraggio dei Miriam Mellerin, nonchè ovviamente al grande Cecco che ha scritto un pezzo hardcore con 700 anni di anticipo sui tempi, alla faccia del precursore!

La sintesi dell'album è tutta qui, in quest'ultimo pezzo, nel coraggio di portare in un debut album un sonetto di fine tredicesimo secolo rivisitato in chiave punk, nella passione e nel talento che trasudano da ogni singolo secondo delle sette tracce, nella loro capacità di rovesciare nella musica le nevrosi, i deliri, la rabbia e le sensazioni con la varietà stilistica giusta, senza restare ancorati ad un solo genere preciso, ma soprattutto nell'enorme energia di questi tre ragazzi, energia che loro stessi non risparmiano e che scaricano a suon di watt e ritmi alti in un esordio davvero coi fiocchi. Un solo consiglio, avanti così!

Voto: 7,5

Tracklist:

1. Parte di me (Feat. Lady Casanova)
2. Made in Italy
3. Insetti
4. Trust
5. Ostrakon
6. B.H.O.O.Q.
7. Stilnovo

Lozirion

venerdì 22 giugno 2012

Gli insegnanti de L'Orablù:
Adriano Minora


Inauguriamo oggi un nuovo spazio per far conoscere meglio chi da alcuni anni ci aiuta a crescere e a far crescere: i nostri insegnanti. L'Orablù ha da sempre organizzato corsi puntati sulla creatività e si è sempre rivolta ad esperti nei vari settori dell'arte. Iniziamo con Adriano Minora che ha fatto anche parte dei soci fondatori della nostra associazione e da circa tre anni conduce Dipingere nell'atelier - Laboratorio di pittura per grandi e piccin
i.

Adriano Minora è nato nel 1964 e risiede vicino a Milano. Nel 1984 consegue la maturità artistica ad indirizzo grafico-visivo e, dopo alcune esperienze nel settore creativo della grafica pubblicitaria, approfondisce gli studi e la ricerca artistica e inizia a lavorare con materiali e tecniche tradizionali, sperimentando anche materiali alternativi e nuovi e dando vita a un percorso pittorico astratto-informale su dimensioni medio-grandi. L'interesse per la contemporaneità e la "fusione" di linguaggi e significati, poi, spingono l'artista ad approfondire gli studi nel campo dell'arte, indagando teorie e aspetti linguistici e semiotici che caratterizzano i diversi codici del cinema, del teatro, della danza e delle altre arti visive; per questo, inizia a frequentare il corso di laurea D.A.M.S. presso la facoltà di Lettere e filosofia dell'Università degli studi di Bologna, dove consegue la laurea specialistica nel 2002, con una tesi in storia del mimo e della danza, sui rapporti tra le arti visive e il balletto contemporaneo. Nel frattempo, l'attenzione particolare verso la produzione di senso che investe il corpo, che attraversa le diverse discipline artistiche e che assume significati sempre nuovi, porta Adriano Minora ad interessarsi a questo tema, che si riversa anche nella sua pittura a partire dalla metà degli anni novanta e che è ancora molto presente nei suoi lavori. Nel 2007 Adriano Minora frequenta e si diploma nel corso di perfezionamento in Terapeutica artistica presso l'Accademia di Belle arti di Brera, a Milano, spinto ancora dall'interesse per la ricerca e dalla curiosità per l'arte e le sue possibilità d'applicazione in diversi ambiti; poi, a seguito di ulteriori approfondimenti sull'arteterapia, dopo il biennio di specializzazione, consegue anche la laurea in questa specialità. Oggi, accanto all'attività di artista visivo professionista, Adriano Minora svolge anche quella di arteterapeuta, utilizzando le tecniche e le significazioni dell'arte per stimolare la creatività e il benessere delle persone, collaborando con strutture pubbliche e private nell'ambito della scuola, della disabilità, della psichiatria, del disagio, dell'emarginazione.

Adriano Minora ha all’attivo numerose mostre collettive e personali ed ora si sta dedicando al progetto de “L’ALTROSPAZIO - ARTE NELLA CASA”, l’atelier per le arti visive ed espressive del quale è responsabile dal 2010.
L’ALTROSPAZIO” si trova a Bollate, in provincia di Milano, è aperto a tutti coloro che hanno voglia di esprimere la propria creatività coi linguaggi delle arti visive e che desiderano incontrare e conoscere artisti e nuovi amici. Infatti, si tratta di un vero e proprio atelier, uno studio d’arte dove bambini e adulti si incontrano per dipingere insieme e per creare con i materiali più diversi, dando libero sfogo alla capacità espressiva personale. Uno degli aspetti che caratterizzano “L’ALTROSPAZIO” è quello di non essere concepito come luogo pubblico, ma come UNA CASA CHE APRE LE SUE PORTE ALL’ARTE trasformandosi in un luogo di stimoli nuovi, uno spazio per potersi confrontare tra artisti e tra amici, dove poter mostrare il proprio lavoro e le proprie opere e vedere quelle degli altri.
Lungi dal voler essere considerato una galleria d’arte, con le quali non potrebbe comunque competere, “L’ALTROSPAZIO - ARTE NELLA CASA” è un vero e proprio appartamento dedicato all’arte, uno spazio indipendente aperto al pubblico, nel quale convivono fianco a fianco laboratori, corsi, mostre, incontri ed altre iniziative sperimentali all’insegna della fantasia, dello sviluppo della creatività e della curiosità.





I corsi di AdrianoDIPINGERE NELL'ATELIER
Laboratorio di pittura libera ed espressività pittorica adatto a tutte le età, da 6 a 99 anni. Nel laboratorio ognuno sviluppa il proprio lavoro partendo dal segno e dalla traccia, per realizzare un disegno ricco di forme e colori in modo del tutto personale. I conduttori hanno il compito di guidare i partecipanti nel percorso creativo e per far comprendere come si usano pennelli e colori.
Si dipinge in piedi, lungo la parete e su grandi fogli, con alcune regole da seguire, ma in un contesto libero dai giudizi e stimolante per tutti.Il metodo seguito è ispirato al "closieu" inventato nel dopoguerra da Arno Stern, artista che tuttora vive e lavora a Parigi. Il closieu è un luogo raccolto, protetto da giudizi estetici e da interpretazioni, uno spazio magico nel quale l'espressione del bambino, ma anche dell'adulto, può pian piano manifestarsi senza interferenze.
Nel 1947, Arno Stern creò uno spazio particolare, il closieu, appunto, per favorire l'aspetto del gioco, avendo scoperto l'importanza che riveste nell'ambito della pittura.
Adatto a tutti, da 6 a 99 anni;
Durata del laboratorio: quanto si vuole.
Ci si può iscrivere ogni mese, fare una pausa e riprendere quando si desidera da ottobre alla fine di maggio;
Incontri di un'ora e mezzo, una volta alla settimana, con materiali forniti da noi;
I gruppi sono composti al massimo da 7-8 partecipanti, seguiti da due conduttori.






FACCIAMO ARTE
LABORATORIO CREATIVO
Per ragazzi, giovani e adulti, nel quale potersi esprimere imparando ad usare tecniche molto diverse tra loro arricchendo in tal modo l'esperienza artistica personale. Ogni volta ci si confronta con materiali e supporti nuovi e tra gli esercizi proposti ci sono:
Facciamo il mandala, per creare un grande disegno, tutti insieme, fatto coi cristalli di sale colorato;
Facciamo l'impronta, per lasciare le tracce delle nostre mani, dei piedi e degli oggetti usando la creta e il gesso;
Facciamo la carta, per imparare a realizzare fogli nuovi usando e riciclando la carta da buttare via;
Facciamo la sagoma, per creare un personaggio di nostra invenzione coi colori;
Facciamo il collage, per realizzare un disegno o una storia composta dai frammenti che scegliamo da immagini di vario tipo;
Facciamo il dripping, per creare un'opera collettiva da dipingere con le gocce di tutti i colori su una grande tela.
Queste sono alcune tra le esperienze artistiche proposte, volte a stimolare la creatività e ad apprendere e sviluppare le competenze artistiche e percettive proprie di ognuno.
Il laboratorio è rivolto a persone che, a partire dai 7 anni, desiderano cimentarsi con l'espressione artistica e il gioco, principio fondamentale dell'arte e dell'uomo.



CORSO DI ACQUERELLO
Dodici incontri nei quali sperimentare la tecnica sia su foglio asciutto oppure bagnato, per avvicinarsi all'acquerello e comprenderne le ampie possibilità d'uso. I partecipanti al corso potranno lavorare liberamente sul colore o scegliere soggetti figurativi tratti dai lavori di autori famosi, oppure inventarne di propri.
Sono ammesse entrambe le modalità di lavoro, che si integrano a vicenda favorendo l'uso creativo della tecnica dell'acquerello.
Durante il corso si potranno usare formati e fogli diversi, a grana grossa o fine, in relazione al soggetto che si vuole dipingere.
Il corso di 12 incontri è adatto a tutti e per seguirlo non è necessario essere già esperti della tecnica, ma basta la curiosità e la voglia di imparare ad apprenderla. Le lezioni cominciano a metà febbraio ed ognuna dura due ore. Si può scegliere se frequentare il lunedì pomeriggio dalle 16.30 alle 18.30, oppure il giovedì sera dalle 21 alle 23

CORSO DI PITTURA
Nel corso di pittura si sperimentano e si acquisiscono gli elementi che costituiscono il dipinto, e cioè il colore, il valore tonale, la linea, la consistenza e la materialità.
Inoltre si approfondiscono la composizione e il soggetto del quadro, qualunque esso sia: natura morta, fiori, paesaggio, corpo umano, astrazione.
All'inizio si usano i colori acrilici, poi si passa ai colori ad olio, ma è previsto anche l'uso di altre tecniche pittoriche come sanguigna, carboncino, tempere e acquerello, che possono essere approfondite per chi dimostri interesse.
Tra le esercitazioni previste, i partecipanti sceglieranno l'opera di un artista contemporaneo famoso che dovrà essere reinterpretata in modo personale con disegni, schizzi, collage, alterazioni di colore, su foglio e su altri supporti.
Gli iscritti dovranno anche scegliere uno scorcio del paesaggio urbano, che dovrà essere fotografato e tradotto in quadro.
L'obiettivo del corso è quello di sviluppare e affinare delle capacità tecnico-artistiche e di valutazione critica necessarie alla creazione e alla lettura di un dipinto. Alla fine, i partecipanti saranno in grado di raccogliere il materiale attraverso schizzi, foto, collage per progettare la nascita di un quadro, e di
produrre un lavoro artistico valido in cui siano presenti elementi originali di creatività personale;
Inoltre, sapranno riconoscere la validità e la bellezza di un elaborato, valutando in modo critico il lavoro.
Per frequentare il laboratorio di pittura non sono necessarie competenze preliminari e ci si può iscrivere in ogni momento dell'anno.
La durata è di 12 incontri a cadenza settimanale, con inizio lunedì 17 ottobre per il corso serale, dalle 21 alle 23; il corso pomeridiano inizierà lunedì 7 novembre, dalle 16.30 alle 18.30
Per altri dettagli e informazioni sui vari corsi  telefonare al 3402563469,
oppure scrivere una mail a altrospazioatelier@gmail.com

mercoledì 20 giugno 2012

Il cielo nella Staatsbibliothek di Berlino


“Passai quasi tutto il pomeriggio successivo nella biblioteca dentro cui Wenders Ha girato molte scene del suo film Il cielo sopra Berlino. La Staatsbibliothek di Hans Schroun direi che è un luogo privo di volumi, se l’espressione non suonasse come un calembour un po’ cretino. Lo spazio pare avvolgerti e nello stesso tempo collocarti a distanza da ciò che ti circonda. Gli altri sembrano privi di profondità. Impressione di pura superficie, scivolamento. L’edificio, magnifico esempio di quella che si chiama architettura organica, è quasi coetaneo del Muro: curioso come un Paese possa dare di sè, nello stesso momento storico, due immagini così diverse- una soffice ed accogliente, l’altra rigida, fratta. Quando uscii, verso sera, guardai Berlino come fosse la versione tutta a colori del film di Wenders. Una versione più morbida, tumefatta.”
Mario Fortunato, Quelli che ami non muoiono


La Biblioteca Nazionale di Berlino, progettata da Hans Scharoun, venne costruita volutamente e provocatoriamente, negli anni della guerra fredda, a ridosso della “terra di nessuno”, la zona della vecchia Postdamerplatz, ripresa da Wenders ne “Il cielo sopra Berlino”.



Nel film di Wenders (1987),  due angeli, Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander), scendono sulla terra e si mescolano fra la popolazione di Berlino. Damiel incontra Marion, una trapezista; per lei deciderà di perdere le ali. Un ex angelo (Peter Falk) lo aiuterà a trasformarsi in un semplice mortale.


Giacy.nta

Topo glassato al cioccolato


Altra follia geniale di Donato Sansone realizzata nel 2011...buona visione...

martedì 19 giugno 2012

Boxing Helena


Sono in vena di scult. Lo so che la rubrica si chiama L’ora cult, però non è nemmeno colpa mia. Beh, forse un po’ sì. Mi sono volutamente andato a recuperare uno dei titoli più scult della cinematografia anni Novanta, al punto che l’autorevole critico Morandini lo mette tra le peggiori pellicole di tutti i tempi, e quindi che mi aspettavo?

Boxing Helena
(USA 1993)
Regia:
Jennifer Chambers Lynch
Cast
:
Julian Sands, Sherylin Fenn, Bill Paxton, Kurtwood Smith, Art Garfunkel, Nicolette Scorsese, Meg Register
Genere
:
scult
Se ti piace guarda anche
:
il film del Lynch vero, David

Avevo un ricordo vago, addirittura vaghissimo di Boxing Helena. L’avevo visto da piccolo, quando ero un tween, e invece di ascoltarmi Justin Bieber o gli One Direction visto che forse manco erano ancora nati cominciavo ad appassionarmi di cinema. Già allora mi era sembrato un’enorme delusione. Ne avevo sentito parlare come di un “film scandalo”, come “la pellicola della figlia di David Lynch”, come “una cosa talmente forte che persino Kim Basinger reduce da 9 e settimane e ½ si è rifiutata di girarlo e ha fatto causa alla produzione”.
Da simili aspettative mi attendevo una visione sconvolgente, disturbante, qualcosa magari di brutto ma se non altro di indimenticabile. E invece me ne sono del tutto dimenticato. Boxing Helena? Boh, perso nei mendri della mia mente. Avevo resettato ogni suo ricordo al punto che adesso, ad anni di distanza, ho ritentato e l’ho recuperato come se lo vedessi per la prima volta. Sperando di essermi sbagliato da giovane tween che non capiva nulla di cinema. Allora magari ero troppo piccolo per comprendere la portata epocale di un film del genere. Poco importava che negli ultimi anni i commenti in suo proposito fossero passati da “film scandalo” a “film ciofeca”, e si fosse passati da parlare della “pellicola della figlia di David Lynch” ad affermare: “la dimostrazione di come i figli raccomandati dei geni non dovrebbero cercare di imitare i genitori”. E qualcuno non tiri di mezzo Sofia Coppola, una che si è costruita una poetica tutta sua, lontana dall’ingombrante peso del nome Francis Ford, oppure Ami Canaan Mann, la figlia di Michael Mann, fresca autrice dell’esordio Le paludi della morte – Texas Killing Fields, pellicola non perfetta ma comunque dotata di un suo fascino.
Oppure, ancora, si è andati da commenti come “una cosa talmente forte che Kim Basinger si è rifiutato di girarlo e ha fatto causa alla produzione” a commenti del tipo “una cosa talmente schifosa che Kim Basinger ha fatto bene a non girarlo”. Sebbene la sua carriera successiva, L.A. Confidential a parte, sia proseguita comunque in direzione viale del tramonto.

La parte che era stata offerta a Kim Basinger, e prima ancora a Madonna, è così stata scaricata da diva a diva fino ad arrivare a Sherilyn Fenn, la Audrey di Twin Peaks. Stupenda Sherilyn Fenn, memorabile nella serie di David Lynch, però l’erotismo proposto da questa pellicola è talmente patinato che finisce per assomigliare a una puntata del Playboy Late Night Show. Una roba talmente asettica che la sua carica erotica si sprigionava sicuramente di più quando danzava leggiadra sulle note di Angelo Badalamenti nei picchi gemelli. Benché lì fosse vestitissima.


Qual è il problema di un film che vorrebbe essere uno sguardo negli abissi della perversione umana, della mania di controllo, della possessione sessuale più degenerata? Il problema numero uno è che questa pellicola si prende talmente sul serio da finire per essere involontariamente comica.
L’altro problema è che su tutto il film d’esordio di Lynch Jennifer si stende l’ombra del padre. Detta così può sembrare una cosa inquietante, invece il film è davvero poco disturbante e finisce quasi per essere una parodia, di Lynch David.
La storia è quella di un tizio (intepretato da un risibile Julian Sands, di recente rivisto in Millennium - Uomini che odiano le donne), un dottore apparentemente normale e rispettabile, pure felicemente fidanzato, ma che in realtà è uno stalker a livelli colossali. La sua ossessione per Sherilyn Fenn è totale, persino ridicola. Se volete sapere cos’è un uomo zerbino, un servo della gleba, guardate questo film e ne avrete un’idea precisa.
ATTENZIONE SPOILER
Un giorno poi Sherilyn viene investita da un auto proprio di fronte a casa sua e il dottore maniaco decide di curarla e di tenerla con sé. Con curarla, intendo che le amputa le gambe e pure le braccia. Con tenerla con sé, intendo che la reclude in casa senza che nessuno sappia dove si trova. Sherilyn finisce così come un uccellino in gabbia, scontatissima metafora abusata dalla stessa Lynch, intrappolata senza via di fuga nella dimora di questo malato di mente.

Così come noi rimaniamo intrappolati nella visione di un film brutto brutto, ma nemmeno a livelli così abissali al punto da infilarlo dentro le peggiori pellicole di sempre come fatto dal Morandini. È più un brutto brutto tipo un incidente stradale da cui tuo malgrado non riesci a distogliere lo sguardo. Un incidente in cui l’unico soccoritore che arriva è un pazzo psicopatico che amputa le gambe alla vittima.
Super scultissimo degli anni ’90, quindi. Ma se lo guardate come fosse un film comico, vi regalerà parecchie soddisfazioni.
(voto 4+/10)


Videogioco


VIDEOGIOCO by Donato Sansone from Enrico Ascoli - Sound Design on Vimeo.

Video pluripremiato nel 2010, realizzato nel 2009 da Donato Sansone a.k.a Mily Eyes ... semplicemente bellissimo!

lunedì 18 giugno 2012

Sei pezzi da mIlle
di James Ellory

22 Novembre 1963. John Fitzgerald Kennedy è stato ucciso, con questo episodio James Ellroy aveva chiuso il suo splendido American Tabloid. Proprio dallo stesso momento l'autore riprende la narrazione con il suo Sei pezzi da mille con il quale lo scrittore ci racconta la sua personale Storia Americana fino al Giugno del 1968.
Partiamo per una volta dalle note dolenti: Sei pezzi da mille non è all’altezza del suo predecessore.
E’ un buon libro, lo stile di Ellroy è sempre riconoscibile e le tematiche portate avanti sono le medesime. Non potrebbe essere altrimenti: la Storia Americana è bagnata nel sangue, trame oscure scorrono sotto la superficie e il mondo non le vede, Ellroy ce le racconta.
A Dallas qualcosa è andato storto, l’attentato è riuscito ma qualcosa trapela. Qualcuno ha visto, qualcuno ha sentito. I protagonisti del precedente romanzo (e lo saranno anche di questo, almeno alcuni) devono mettere le cose a posto e fare i conti con la propria coscienza. Ne vengono fuori personaggi forse più realistici ma meno epici, meno coinvolgenti, schiacciati dalla Vita. Almeno uno dei cardini del precedente romanzo qui non è presente (non vi svelerò quale, tranquilli), ed era uno di quelli di maggiore fascino. Nuovi protagonisti ne prenderanno il posto ma nessuno, nemmeno Wayne Tedrow Jr. l’uomo con i sei pezzi da mille del titolo, riuscirà a eguagliarne il carisma.
Si ha inoltre la sensazione che la storia vera, quella con la S maiuscola, sia lontana questa volta. Se escludiamo la parte finale del libro (di ben 760 pp.), sembra che i personaggi interagiscano meno con gli eventi realmente accaduti e anche le vicende dei veri protagonisti della Storia sembrano osservate da una certa distanza. Se in American Tabloid seguivamo da vicino quel che succedeva ai fratelli Kennedy, ai signori della malavita, a Jimmy Hoffa e via discorrendo, in questo seguito sembra di non avvicinarsi mai a Bobby Kennedy, a Martin Luther King, a Howard Hughes o a Lyndon B. Johnson. Si ha di questi personaggi una visione esterna.
I motivi di interesse restano comunque numerosi. Oltre a vedere come si evolveranno le vite degli uomini ai quali ci siamo ormai affezionati leggendo American Tabloid, si potrà seguire l’influenza che su di loro avranno la politica di Lyndon Johnson, la guerra in Vietnam, le macchinazioni di J. Edgar Hoover e il movimento per i diritti civili in favore dei neri d’America portato avanti da Martin Luther King.
Grande importanza rivestiranno le donne dei protagonisti. Donne che odiano la Vita nella quale sono invischiati i loro compagni, donne maltrattate che non dimenticano, donne che tornano sotto forma di fantasmi dal passato. Donne in gamba e scaltre quanto e più dei nostri protagonisti.
Una delle costanti di questo romanzo è il tradimento. A chi ancora interessano le vecchie cause come quella Cubana? A chi sta a cuore il destino dei soldati americani in Vietnam? A chi invece interessano solo la droga e i guadagni che questa (com)porta? Quanti sono disposti a girare le spalle a vecchi compagni con i quali hanno condiviso la Storia e non una semplice birra?
Altra grande protagonista è la città del peccato, Las Vegas, con i suoi casinò, con la mafia e con il desiderio di un ormai sbiellato Howard Hughes di diventarne il padrone.
Ancora un romanzo d’odio, di sangue, di violenza ma anche di ideali e di amore.
Ricreare l’atmosfera di American Tabloid era difficile e infatti questo libro non ci riesce. Rimane comunque una buonissima lettura alla quale i fan del primo romanzo non potranno resistere.

domenica 17 giugno 2012

The best Blow Job

Niente che non si possa non vedere, il video è adatissimo a tutti nonostante il titolo che potrebbe far pensare ad altro... il fotografo lituano Tadao Cern’s ha realizzato un progetto fotografico Blow Job poi diventato video grazie a quelli di Spotas.

sabato 16 giugno 2012

La pazienza ha un limite,
Pazienza no


Il 16 giugno del 1988 a Montepulciano si è conclusa la brevissima apparizione su questa terra di uno dei più grandi artisti italiani del novecento, la sua arte era il fumetto e il suo nome era Andrea Pazienza. Come recitava l'intestazione di Frigidarie (vedere foto sopra) del numero di Luglio 1988 "Morto un genio NON se ne fa un altro".
Nel 1982 ebbi la fortuna di ammirarlo per un pomeriggio intero mentre lasciava mini capolavori del disegno sui alcuni volumi appena acquistati dai suoi aficionados. Tempo fa ho creato e cercato di portare avanti un blog personale dedicato al Paz dove si possono trovare vignette, storie e altro. Vi lascio con un video che rappresenta un'esibizione 'live' del grande Paz.

venerdì 15 giugno 2012

Machete

 
Pensavo che Machete non mandasse messaggi
Machete improvvisa.


Trama: Machete è un ex agente federale creduto morto dopo lo scontro con uno spietato boss della droga. Rifugiatosi in Texas viene coinvolto nell'attentato ad un senatore razzista. Ma scoprirà ben presto di trovarsi al centro di un complotto.

Circondato da grandissima aspettative, elevato al rango di cult movie praticamente già prima della sua uscita in sala, "Machete" era uno di quei film che dovevo assolutamente recuperare.
Perchè i film di Rodriguez, a casa nostra, piacciono, e pure tanto. Sono eccessivi, divertenti ma posseggono anche una cura nella realizzazione che dimostrano una profonda conoscenza della materia.
Espansione del finto trailer proiettato prima dell'incredibile "Planet Terror" sicuramente "Machete" è Rodriguez allo stato puro.



Sicuramente non il migliore, non diverte completamente come "Dal tramonto all'alba", non possiede l'incredibile follia nel suddetto "Planet Terror" nè la classe, e lo dice una a cui il film non è piaciuto per niente, di "Sin City", ma si tratta senza dubbio di una pellicola in cui il carattere del suo creatore è fortemente presente.
Confezionato con l'intento di ricreare un b-movie anni 70, "Machete" contiene tutte le caratteristiche del cinema di genere, l'eroe tradito creduto morto che si trasforma in giustiziere, armi improbabili, donne bellissime e letali, cattivi da manuale, inseguimenti e combattimenti incredibili; trovando il suo punto di forza, senza dubbio, nel cast.



Danny Trejo non interpreta Machete, Danny Trejo è Machete.
Laconico, letale, ammazza i cattivoni, aiuta i più deboli e, senza dubbio, lascia il segno.
Lo affiancano due fanciulle tostissime. La splendida Jessica Alba nei panni di un agente dell'ufficio immigrazione in tacchi a spillo dalla pistola facile, che diventerà ben presto alleata di Machete, e Michelle Rodriguez, letale vendicatrice solitaria, personaggio che sembra cucitole letteralmente addosso.
Contro di loro un manipolo di cattivi da manuale.
Steven Seagal, con parrucchino e letale assistene in bikini pare uscito da un fumetto, lui e Machete valgono da soli una visione del film. A contorno, il senatore iperazzista Robert De Niro, Jeff Fahey,
Don Johnson ironizzano su loro stessi e si divertono come matti (si vede).



Rodriguez, come al solito, non si risparmia e non ci risparmia praticamente nulla, mani mozzate, gole tagliate, persino un inseguimento in ospedale con uso di intestini come mezzo per fuggire.
Alla fine ne risulta un "filmaccio" tamarro che può deludere un pochino le aspettative, personalmente ho preferito nella sua rozzezza "Planet terror", ma non da buttare, anzi, consigliabile per una sana serata di spasso.

Newmoon

I suoni della bici


Bicycle Sounds from Stephen Meierding on Vimeo.


giovedì 14 giugno 2012

È un classico

Quest’anno è iniziato sotto la stella dei buoni propositi. Ne ho fatti in tutto uno: leggere di più.
Io infatti mi pongo obiettivi alla mia portata, e siccome son già abbastanza impegnata nella vita, perché faccio la disoccupata a tempo pieno, ed è tutt’un’improvvisazione che non sto a dire, non ho tempo per altro. Ci tenevo però a rispolverare e rinvigorire la mia prima passione, e unica, perché tutte le altre cose che mi piace fare fatico a chiamarle “passioni”. Ci tenevo anzi a riappropriarmene, dopo che il mio io-carceriere aveva detto che leggere è una perdita di tempo (il mio io-hyppie l’ha fatto fuori nell’autunno 2011, tranquilli).
A proposito di letture (non dei miei io) l’evento più importante del mio 2012 è senz’altro aver iniziato, portato avanti con calma, e finito di leggere Anna Karenina, e ce l’avevo a portata di mano solo da tre mesi, che volete che sia leggere un mattone in quasi tre mesi, per una che un tempo leggeva almeno un libro al giorno?

Se mi è piaciuto? Sì, perché è molto attuale nei sentimenti e negli atteggiamenti, pur essendo ambientato in altri luoghi e altri tempi: i pensieri, le paranoie, le mire sociali, le convenzioni e la paura delle critiche sociali, il fatto che non per tutti siano priorità comprensibili. Il mio personaggio preferito è Levin, nella cui vita c’è un ideale che, purtroppo, non è andato del tutto soddisfatto; sognava una famiglia di un certo tipo, si è sposato con una scemetta con la testa piena di fesserie convenzionali: la cerimonia di nozze secondo un’usanza quasi burocratica, la tradizione, gli oggetti necessari in una casa che si rispetti, le persone della famiglia che le devono ruotare attorno prendendo in mano la situazione, nonché la vita di tutti compresa quella di Levin. Non l’ho invidiato poveretto, anzi mi è dispiaciuto per lui, perché aveva la sua azienda agricola, il suo lavoro nel quale credeva, studiava per migliorare l’azienda, per modernizzarla a modo suo e compatibilmente con quei tempi, quali che fossero io non l’ho capito, si preoccupava dei suoi contadini nonostante loro per primi fossero diffidenti verso i cambiamenti, e sognava di sposarsi e di avere una famiglia, ma purtroppo non aveva la più pallida idea di cosa l’aspettasse, perché pur essendosi sposato per amore, ha dovuto star dietro a tutta quella serie di regolette convenzionali che gli hanno quasi rovinato l’idillio. In ogni caso lui non ne capiva la necessità.

Vogliamo parlare di Kity? Mi sta sul cazzo. Quella non si è sposata con Levin per amore!, si è sposata solo perché Vronskj l’aveva mollata per mettersi con l’Anna. Una ragazzina lagnosa, questa è la mia Kity, le avrei dato due schiaffi, a lei e a sua sorella che, poiché Levin si era fatto da parte col cuore ferito, gli ha lavato ben bene il cervello per convincerlo che Kity in fondo era innamorata di lui e che inizialmente gli aveva detto di no solo perché troppo giovane per capire i propri sentimenti (no, non perché voleva fidanzarsi a tutti i costi, e Vronskj gliel’aveva chiesto per primo ma prima che incontrasse l’affascinante Karenina). E quel cretino le ha creduto. L’amore è proprio cieco ve’. Il lavaggio del cervello naturalmente gliel’hanno fatto solo dopo che Vronskj si è messo con l’Anna, perché inizialmente (e anche successivamente) Levin non piaceva alla famiglia di Kity, non era un buon partito, preferivano Vronskj.

Vronskj e Anna invece. Anna faceva l’inquieta perché credeva che il problema del suo matrimonio fosse la differenza d’età con suo marito e l’amore inesistente, invece con Vronskj non ci sarebbe stato problema, no?: lui l’amava, si amavano, questo vorrà pur dire qualcosa. Certo che sì, se l’amore c’è davvero e l’unione non si basa solo sull’aspetto fisico o sull’età dell’amato, no perché a me è sembrato che Anna fosse un po’ fissata con questo. È un classico: siccome lei aveva mollato il marito per una novità più giovane e prestante, Vronskj appunto, le è venuta la paranoia che Vronskj a sua volta potesse mollare lei per una novità più giovane e attraente, nonché libera di sposarlo, visto che Anna non riusciva ad ottenere il divorzio dal marito (e in ogni caso la sua reputazione non si sarebbe ripulita del tutto). La monotonia della vita di coppia isolata ha fatto il resto: aveva i soldi, la bellezza, le conoscenze giuste, Anna, ma non le servivano più, perché a causa della sua scelta di lasciare il marito è stata tenuta a distanza da tutti, quindi ancora una volta essere conformi alla società e alle aspettative delle persone vicine è una priorità, o comunque è bene far sì che la cosa la.. “non conformità” non si sappia in giro. Anna invece ad un certo punto ha continuato apertamente la sua storia con Vronskj togliendosi da sotto i piedi il pavimento sul quale si basano molte unioni per andare avanti: se la società non l’avesse esclusa (i suoi cosiddetti amici) Anna non avrebbe avvertito come pesante e insopportabile la sua condizione e la sua vita di coppia, così invece non ha retto, e mentre Vronskj cercava di vivere normalmente, lei prendeva ogni di lui abitudine come indifferenza nei suoi confronti, e alla fine come odio.

L’ultima coppia del romanzo è quella composta dal fratello di Anna, già consapevole che nella vita ognuno si deve fare i cazzi suoi di nascosto per poter continuare senza intoppi (sociali), e la sunnominata sorella di Kity, anche lei così legata alle convenzioni da essere disposta a sopportare i tradimenti del marito (peraltro inizialmente era stata convinta proprio da Anna a non lasciarlo) nascondendosi sotto una facciata tranquilla, mentre dentro di sé odia suo marito sempre più fino a staccarsi da lui, a ritirarsi a casa della sorella (povero Levin, ma chi gliel’ha fatto fare di sposarsi, non stava bene da solo nella sua casa in campagna, lontano da questi intrighi mondani?), e a lasciar fare al marito tutto ciò che vuole, nonostante lui non le avesse mai chiesto il permesso di farsi le istitutrici dei figli. La coppia più falsa del mondo.
Non è attualissimo?

Devo dire che in mezzo a tutti questi sguardi, pettegolezzi, chi ha detto cosa a chi e soprattutto quando ma non importa perché, cose sconvenienti e cose che vanno fatte, amori e tradimenti vari, quasi quasi la parte più interessante di tutto il romanzo sono i discorsi di economia e agricoltura che faceva Levin, il quale mi ha annoiato solo un po’ alla fine, quando ha incominciato a riflettere sulla religione in direzione di una moderata (ri)conversione, oramai contagiato e traviato dalla moglie che, buona buona e senza la consapevolezza di irretire il proprio marito, dava anzi per scontato che lui in fondo al cuore credesse in dio, e alla fine pure lui ha creduto di crederci. Ecco che Levin si è lasciato trasportare da quell’associazione a delinquere femminile, mentre io speravo che rapisse suo figlio neonato e scappasse, invece no, si è adeguato. Per amore, dite voi? Beh, ma per amore le persone devono essere accettate per quello che sono e non guardate e trattate per quello che si vorrebbe che fossero. Perciò dico che Kity non lo ama e mi sta sul cazzo, mentre lui poveretto c’è cascato in pieno ma sapete che vi dico? Cazzi suoi: io il libro l’ho finito ed ora posso pensare al prossimo thriller che leggerò.

Elle

Chilly Gonzales
Solo Piano II


Chilly Gonzales Solo Piano II - Piano Vision Medley from Chilly Gonzales on Vimeo.

Un personaggio molto particolare questo Chilly Gonzales. Delle sue svariate anime preferisco quando si accomoda davanti al pianoforte. E questo video ben rappresenta la sua maestria... buona visione.

mercoledì 13 giugno 2012

Omaggio a Ray Bradbury
(1920-2012)


Fahrenheit 451
(UK 1966)
Regia: François Truffaut
Cast: Oskar Werner, Julie Christie, Cyril Cusack, Anton Diffring, Alex Scott
Genere: distopico
Se ti piace guarda anche: Pleasantville, Orwell 1984, Gattaca

“I libri sono soltanto un mucchio di spazzatura. Non servono a niente.”

Forse per alcuni libri, la frase pronunciata dal capo dei ‘pompieri’ di Fahreinheit 451 non è nemmeno tanto campata per aria…



Questioni mocciane a parte, 451 gradi Fahrenheit è la temperatura di autocombustione della carta. E alla fine nemmeno solo quella. Ad occuparsi di quest’operazione incendiaria ci pensano paradossalmente i pompieri. Nel futuro distopico immaginato negli anni ’50 da Ray Bradbury e portato su grande schermo nei 60s da François Truffaut, i pompieri infatti i fuochi non li spengono bensì li accendono, per bruciare i libri.
Perché lo fanno?
Perché i libri rappresentano la cultura, la fantasia, il libero pensiero, contribuiscono a rendere ‘diversi’ dalla massa uniforme, schiava del governo, delle regole e della televisione.

Il racconto originale di Ray Bradbury è stato pubblicato per la prima volta nel 1953 su Playboy, alla faccia di chi pensa che il porno sia solo cul e non cultura, andando a fare il paio con 1984 di George Orwell (pubblicato nel 1949). Per quanto entrambi siano riflessioni di stampo fantascientifico sui regimi totalitari, risultano storie sempre attuali e avvertimenti utili anche per gli stati (teoricamente) democratici in cui abbiamo la fortuna di vivere oggi.
Le regole sono una delle basi su cui si fonda una società e, per quanto io non abbia nessuna voglia di cantarne le lodi, sono necessarie. Il problema è quando queste regole diventano opprimenti, proibizioniste e finiscono per diventare assurde. La cosa ancora peggiore è però quando le persone smettono di rendersi conto di quanto assurde esse siano.

In Fahrenheit 451 la gente, pure i bambini, si divertono a vedere prendere fuoco i libri. Non ci sono proteste. Non c’è una ribellione. La società è stata addomesticata al punto che quasi nessuno riesce a pensare a un mondo differente. Per quanto immaginato in maniera meno complessa e stratificata rispetto al romanzo di Orwell, anche il governo del racconto di Bradbury ha vinto. Ha annientato le persone, le ha rese tutte uguali, ha annullato il libero pensiero, ha regalato a tutti un’apparente felicità fatta di pillole e programmi idioti alla tv che ti danno l’illusione di poter diventare anche tu un protagonista. Non mi sembra un quadro tanto diverso da quello dipinto dalla società capitalista attuale dominata dai reality-show e dal pensiero di dover possedere determinati oggetti per uniformarsi alla massa. Anche se per fortuna adesso stiamo, forse, passando da un’era dominata dalla tv, un medium che lascia lo spettatore passivo, a una dominata o meglio accompagnata da Internet, medium che invece non ha un centro e lascia l’utente attivo, in una posizione realmente democratica. Almeno fino a che non cercheranno di regolamentare troppo anche la rete. E ci stanno provando.



La bellezza delle grandi storie è proprio questa, riuscire a parlare a epoche differenti con immutata efficacia. François Truffaut ha trasportato questa grande storia su grande schermo dall’alto del suo grande talento registico, con il suo primo film a colori nonché la sua prima produzione internazionale. Il francese ha adottato uno stile visivo molto 60s, si è divertito a usare vari stratagemmi cinematografici, rimanendo comunque sempre concentrato soprattutto sulla storia, ed ha inserito anche un paio di chicche-omaggi: in mezzo ai libri bruciati figura un numero di Cahiers du cinéma, prestigiosissima rivista cinematografica francese per cui lo stesso Truffaut scriveva, mentre nel finale viene citato Cronache marziane, raccolta di racconti realizzata dall’autore di Fahrenheit.



Venendo al finale, il film riesce a regalare un messaggio di speranza. Nel corso della pellicola non vi sono momenti particolarmente violenti, a eccezione della scena in cui un’anziana appassionata di libri viene bruciata viva insieme a loro o del ‘finto’ omicidio del protagonista Guy Montag. L’umanità di Fahrenheit 451 non è annientata tanto sul piano fisico, quanto su quello culturale. E non c’è cosa peggiore. Essere oppressi, senza neppure rendersene conto.
A questa umanità del tutto annientata si contrappongono per fortuna alcuni spiriti liberi, o forse è meglio definirli spiriti libri. Persone che imparano a memoria ognuno un libro differente, in modo da poter tramandare a livello orale la tradizione letteraria. Quella dei grandi autori. Quelli come Moccia? No, quelli come Ray Bradbury.

(voto 7,5/10)


Cannibal Kid

I video di Vimeo

Ecco a voi una nuova sezione del nostro blog dove segnaleremo e faremo vedere alcuni video pubblicati su Vimeo, rete sociale di video di proprietà. "Caratteristica fondamentale di Vimeo è che non consente la pubblicazione di video commerciali, videogiochi, pornografia o qualsiasi opera che non sia stata creata unicamente dall'utente; in questa maniera il sito si pone come una vetrina internazionale per registi e creativi consentendo la possibilità di condividere e pubblicare video su altri siti e commentarli. Si possono caricare anche video ad alta definizione, primo sito di questo tipo a consentirlo, che viaggiano in rete." (da Wikipedia)
Come primo video abbiamo scelto Les Paysages di Jerónimo Rocha realizzato con la tecnica dello stop motion (qui trovate il making of del video).
Buona visione

martedì 12 giugno 2012

Black Country Communion
Black Country




Joe Bonamassa (miglior chitarrista blues dell’ultima generazione) alla chitarra elettrica; Glenn Hughes (Deep Purple) al basso e alla voce; Derek Sherinian (Dream Theatre) alle tastiere; Jason Bonham (figlio del compianto John) alla batteria. Non è uno stralcio da un compendio di storia della musica, ma la formazione dei Black Country Communion, supergruppo di fenomeni alle prese con l’hard rock anni ‘70 e suoi derivati. Chi ha amato Deep Purple e Led Zeppelin si cominci a sfregare le mani e a farsi venire l’acquolina in bocca: questo è il disco che far per lui. Chi invece pensa a una penosa operazione commerciale dei soliti dinosauri che non si rassegnano alla pensione, resterà deluso. Black Country è una bomba che una volta innescata non smetterà di deflagrare dalle casse del vostro stereo. L’hard come si suonava una volta, con qualche spunto psichedelico e la bella, puntuale e precisa chitarra di Bonamassa a irrorare il tutto di tonnellate di blues. Brividi che hanno percorso la schiena di tre generazioni e tornano prepotenti ai giorni nostri come se il tempo si fosse fermato a 40 anni fa. Impossibile non godere come ricci, soprattutto perchè queste undici canzoni (tutte inedite a parte la cover di Medusa dei Trapeze) profumano di fresco e scintillano al sole come spade appena forgiate. Per rendersene conto è sufficiente la title track, piazzata all’inizio come una martellata degli dei: up tempo tiratissimo sorretto dal basso di Hughes vibrante come ai bei tempi e da un assolo fulmicotonico di Bonamassa, che tira a lucido la gloria che fu di Blackmore. “I’m a messenger, listen my prophecy!”, canta Hughes con la voce di un sessantenne mai cresciuto, che prende acuti, uno dopo l’altro, con tecnica e precisione, con una tensione sempre massimale, con una passione che nasce dallo stomaco e si arrampica in cielo. Basterebbe questa canzone a giustificare l’acquisto del disco. Arrivederci e grazie. Invece, i pezzi, clamorosamente belli, si susseguono senza soluzione di continuità, e non vorresti mai spegnere lo stereo. Il singolo  One last soul  col suo approcio melodico, l’inarrivabile Down Again, con Bonamassa cheintreccia riff e assoli in un unico grande affresco purpleiano, l’acidissima Beggerman con Hughes in grandissimo spolvero, tanto da far pensare addirittura ai fasti di Burn. Una dietro l’altra, ad allungare un immaginario tappeto rosso per la passerella decisiva di Song of Yesterday, capolavoro del disco, otto minuti abbondanti in cui si fondono Zeppelin, Purple, la chitarra blusey di Bonamassa,l a voce nervosa di Hughes e un tappeto melodico quasi impercettibile a far da fondamenta. Una di quelle canzoni che gli amanti del genere terranno stretta al cuore, nei secoli a venire, come anni fa fecero con Baby i’m gonna leave youChild in time. Chiude il disco Too late for the sun, jam session di undici minuti, in cui i quattro, se ce ne fosse bisogno, ci dimostrano quello di cui sono capaci con in mano rispettivi strumenti. Black Country non solo rispolvera i gloriosi anni in cui il rock si faceve con zeppe e basettoni, ma si candida a diventare, segià non lo è, un classico dell’hard rock moderno.

Blackswan