sabato 30 marzo 2013

Ciao Dutur

Quando cominciò la “fase operativa” del Controfestival alla parola Trash, riaffiorarono alla mente, istantanei, un paio di “personaggi” musicali: il piantatore di pellame e il maiale.
Non ero in preda a fumi di nessun tipo. Semplicemente, da bambina impazzivo quando vedevo Cochi e Renato, spesso accompagnati da quel tipo strampalato con gli occhiali dalla montatura che sembrava rubata alla scatola gioco del Rischiatutto, che li accompagnava alla chitarra.
Suonavano e cantavano cose che, alle mie orecchie, risultavano completamente senza senso, assurde.
Ieri, in una grigia e noiosa giornata di una stramba primavera, Enzo Jannacci, il tipo strampalato che suonava la chitarra, verso sera se ne è andato. Non ha incontrato più l’Armando…
Con “i scarp del tennis”, la giacca un po’ stropicciata e l’impermeabile ora starà suonando da qualche parte con un altro della compagnia, Giorgio Gaber, il Signor G.
…io sono in imbarazzo nel scegliere qualcosa che possa sintetizzare l’intelligente pazzia del dottor Jannacci che quando cantava, con quel suo biascicare, sembrava l’ultimo rimasto della compagnia uscita dal “trani” (tipica osteria milanese). Oggi, sicuramente, ovunque, imperverseranno le sue canzoni più famose: io lascio questa clip de “Il maiale”, a chi legge, la voglia, spero, di ritrovare (o scoprire) le tante, belle cose che ci ha lasciato il dottor Jannacci Vincenzo detto Enzo.

Cristina

mercoledì 27 marzo 2013

Battistrada scolpiti a mano sulla propria pelle

“Dunque, tesoro, eccoci qua a New York e anche se non ti ho detto proprio tutto quello che avevo in mente quando attraversammo il Missouri e specialmente nel momento in cui siamo passati davanti al riformatorio di Booneville che mi ricordava il mio problema carcerario, ora è assolutamente necessario posporre tutte quelle cose sorpassate concernenti i nostri personali affari amorosi e cominciare immediatamente a pensare a specifici progetti di vita lavorativa…”
Sin dall’incipit viene presentato Dean, che sarebbe l’unico protagonista di questo romanzo, se non fosse presente anche Sal, la voce che ne narra le gesta e ne riporta i discorsi. Dean arriva a New York nell’inverno del 1947, Sal aveva sentito parlare di lui e ne era incuriosito e una sera finalmente fa la sua conoscenza. Sin dall’incipit io questo romanzo non riuscivo a capirlo, Sal e Dean due scapestrati, Dean che fa discorsi strani e poi parte, e Sal che finalmente riesce a partire anche lui, senza soldi, con l’autobus poi con l’autostop: mi sembrava un romanzo troppo estivo da leggere a cavallo fra dicembre e gennaio, con la neve sotto il naso come ero messa io.
Ecco infatti che “nel mese di luglio del 1947, avendo messo da parte circa cinquanta dollari della mia pensione di reduce, fui pronto ad andare nella costa occidentale”, dice Sal; andare nel West era suo sogno, e scopre che lo era anche di Dean, il quale, una volta ricongiuntosi con lui, e divenuto vero e proprio protagonista della narrazione, risulta essere uno a cui non è necessario ripetere due volte certe proposte, perché al “che ne diresti” è già salito in macchina pronto a partire. E come guida! Come corre, quale resistenza per ore alla guida attraverso gli Stati Uniti!
Pensavo che il motivo per cui non capivo il romanzo fosse che io i miei lunghi viaggi in macchina alla scoperta del mondo li ho sempre fatti in estate, frase poeticissima ma fasulla, non scoprivo proprio nulla, in realtà andavo in ferie, e mentre guidavo ascoltavo musica e pensavo, quindi cosa c’entra tutto questo con Sal e Dean che invece partono alla scoperta del mondo?


Pensavo che il motivo, dicevo, che il motivo per cui non capivo il romanzo fosse che io i miei lunghi viaggi in macchina li ho sempre fatti in estate, invece mentre leggevo era inverno, la stagione del raccoglimento, del riscaldamento acceso (sfatiamo il mito del camino, ché non ce l’ha più nessuno), dei lebkuchen, della musica classica. Non del viaggio.
Invece presto mi sono dovuta ricredere: non solo lo potevo capire, ma potevo addirittura immedesimarmi nell’atteggiamento sconclusionato dei due, nel loro vivere alla giornata, nella loro profonda curiosità di tutto, nella voglia di nuove conoscenze, nella facilità con cui alcune se le lasciano dietro, e pure in certa parte della loro particolare goliardia.

martedì 26 marzo 2013

Psyco


Psyco
(USA 1960)
Titolo originale: Psycho
Regia: Alfred Hitchcock
Sceneggiatura: Joseph Stefano
Tratto dal romanzo: Psycho (inizialmente intitolato in Italia Il passato che urla) di Robert Bloch
Cast: Janet Leigh, Anthony Perkins, John Gavin, Vera Miles, John McIntire, Martin Balsam, Simon Oakland
Genere: psycopatico
Se ti piace guarda anche: American Psycho, Hitchcock, Bates Motel, Gli uccelli

Qual è il film più, come dite voi giovani?, cool del momento?
Il grande e potente Oz? The Host? Spring Breakers?
No, no e ancora no, cari i miei giovincelli cresciuti da madri distratte. Il film più attuale oggi è Psyco. Sì, quel Psyco. Quello del 1960 girato dal fu Alfred Hitchcock. Ne avrete sentito parlare di sicuro, a meno che non siate stati proprio tirati su da delle mamme, come le chiamerebbero i francesi?, ah sì: les incompétents.
Psyco è attuale più che mai perché negli USA è appena stata lanciata una nuova serie tv, Bates Motel, che è un prequel della storica pellicola thriller, in cui i panni del giovane Norman Bates sono vestiti da Freddie Highmore. Scelta quanto mai azzeccata: Freddie Highmore è stato qualche anno fa il tenero bambino dello strappalacrime Neverland, oh quanto m’ha fatto piangere quel film, e il suo volto innocente è quindi quanto mai perfetto per trasformarsi in una maschera d’inquietudine. Stessa scelta optata dal grande Hitchcock quando scelse un Anthony Perkins giovane quanto me ai tempi, un attore fino ad allora conosciuto principalmente come volto rassicurante in pellicole romantiche.
La novella serie tv Bates Motel va a rinverdire il filone dei serial killer che sta vivendo una grande stagione quest’anno sul piccolo schermo, grazie al social killer di The Following, di cui il mio caro (nel senso che mi fa spendere un sacco di soldi) figliolo vi avrà di sicuro già parlato, e grazie anche all’imminente ritorno di un altro dei più celebri maniaci di fiction di sempre: Hannibal The Cannibal Lecter nella serie NBC Hannibal, interpretato questa volta dal danese Mads Mikkelsen. ‘Sti cannibali però io comincio a non reggerli più. Vi rendete conto di cosa si prova ad avere un figlio che per nome d’arte o, com’è che dite voi giovani?, nickname, s’è scelto Cannibal Kid? Non ve ne rendete mica conto, no. Comunque di questa rivisitazione dalle tinte teen e in chiave moderna del personaggio avrà modo di parlarvene meglio mio figlio.
Io aggiungo anche che il mito di Psyco rivive pure sul grande schermo in Hitchcock, pellicola in arrivo a giorni nelle sale italiane. Un film da non perdere per ogni appassionato del regista inglese e del cinema in generale, ricco di aneddoti sulla lavorazione della pellicola. E poi c’è pure lo spot dei cereali Choco Krave che cita la celebre scena della doccia…

Queste sono le ragioni per cui Psyco sta ritornando prepotentemente alla ribalta, ma l’attualità della pellicola non è solo dovuta a questo pluri ripescaggio. Psyco è un film ancora oggi, a più di 50 anni dalla sua uscita, di un’estrema modernità, per tematiche e per realizzazione, oltre che sempre una visione di sconvolgente tensione, superiore alla totalità o quasi dei thrillerucoli usciti nel frattempo. Mi piace immaginarmi un po’ come questo film. Non intendo che sono inquietante allo stesso modo. Non è quello che volevo dire. Ciò che intendevo è che mi piace pensare di essere invecchiata bene proprio come questa pellicola. Si possono vedere le rughe, senza lifting è difficile non ci siano, però i nostri anni li portiamo bene.




Cos’ha tanto di speciale, questo Psyco? Me lo chiedeva sempre mio figlio. Poi l’ha finalmente visto e l’ha capito. È una pellicola straordinaria. Rispetto ad altri film già notevoli di Hitchcock, possiede una tensione ancora maggiore e costante. L’unica illusione di tranquillità è nella prima scena, in cui la macchina da presa ci accompagna dentro una stanza di un hotel. Non una camera inquietante come la numero 1 del Bates Motel, bensì una stanza in cui Marion incontra il suo innamorato. Oh, che teneri. Poi basta.
È solo un’illusione, ve l’ho detto. Subito dopo Hitchcock comincia a macinare le sue trame gialle. Inizialmente con la fuga di Marion, la bionda Marion. Com’è che gli uomini amano tanto le bionde, ma poi si sposano le more? Boh, sarà che siamo più affidabili, comunque meglio per noi more. Fatto sta che, laddove molte altre pellicole del regista cicciobombo, e diciamolo che magrolino certo non era, sono a tratti attraversate da vicende romantiche e toni da commedia leggera, qui a parte la citata concessione iniziale si viaggia a mille. E così Marion prende e va via in auto. Oh, quanto piacerebbe farlo anche a me. Scappare via dalla mia famiglia, almeno ogni tanto. Andare via da tutti. Peccato che sì ho la patente, ma è da così tanto tempo che non guido oramai che mi sono dimenticata come si fa. E l’auto, poi? Mio figlio non mi darebbe mai la sua. Maledetto Kid. Ma si può chiamarsi Cannibal Kid? A l’è propi ‘n drugà!


Quella con Marion che scappa via da tutto e da tutti è una parte tesa già di suo, ma non è che l’inizio di quello che rapidamente si trasformerà in un incubo. Io sono una romantica, a me piacciono le grandi storie d’amore, i film di paura di solito cerco di evitarli, sono più una roba per quel drugà di mio figlio, però Psyco è Psyco. E Norman Bates è Norman Bates.
Voi spettatori di oggi siete già preparati, ma noi che siamo andati a vederlo al cinema negli anni Sessanta eravamo del tutto inconsapevoli di ciò cui stavamo per assistere. Anthony Perkins, come detto, era un volto tenerone delle pellicole sentimentali che tanto piacevano a me. Non avrei mai sospettato che fosse capace di fare qualcosa di male, con quel bel visino lì. Sì, questo benedetto maledetto Bates Motel aveva un che di sinistro, però quello che succede dopo non ce lo potevamo mica immaginare, all’epoca.
La scena della doccia è stata uno shock pazzesco. La volete sapere una cosa? Da allora non ho mai più fatto una doccia in vita mia. Da allora in poi ho sempre preferito fare il bagno nella vasca. Lo trovo molto più rilassante. Sarà per colpa tua, dannato Hitchcock?




ATTENZIONE CHE VI RIVELO COSA SUCCEDE NEL FINALE O, COM’E’ CHE SI DICE?, ATTENZIONE SPOILER
Il resto della vicenda non è da meno. È persino più preoccupante. Il finale presenta un colpo di scena tanto clamoroso che, per non far perdere l’effetto sorpresa, Hitchcock cercò di acquistare tutte le copie del romanzo di Robert Bloch da cui ha tratto il film per impedire alla gente di scoprirlo. E cosa scopriamo? Scopriamo che la mamma era morta e Norman Bates aveva preso le sue sembianze. Vi sembra una cosa normale? Come se uno scrivesse un, come si chiama?, un post su, come si chiama?, su un blog e lo firmasse a nome della madre. E guardate come tocca a me firmare questo post? Come la mamma di Cannibal Kid. Ma dico, con tutti i nomi che poteva scegliersi, proprio uno così?
Io non farei mai del male a una mosca, ma due sculacciate questa sera prima di andare a dormire a quel debosciato di mio figlio non gliele leva nessuno.

(voto 10/10)

La mamma di Cannibal Kid


sabato 23 marzo 2013

mercoledì 20 marzo 2013

Sabato 23 marzo a L'OrablùBar i Guajo Live




Il progetto Guajo Acoustic nasce dal desiderio dei tre componenti storici dei Guajo di proporre una versione del repertorio elettrico della band con un'atmosfera e un feeling più soft e raffinati. L'idea è quella di offrire un'interpretazione acustica adatta ad ogni tipo di palco, spaziando dall'intrattenimento coinvolgente per i pub, al sottofondo d'ascolto per un aperitivo o happy hour.
La lineup acustica è formata da:
    •    Roberto Porta: lead vocals
    •    Marco "The Mariner" Marino: guitars, vocals
    •    Mauro Castelli: guitars, vocals
Il repertorio privilegia l'immediatezza e la purezza del suono delle chitarre acustiche e della voce, e si basa sulla reinterpretazione in chiave unplugged dei migliori brani della produzione rock internazionale: dal ritmo degli AC/DC, alla melodia degli U2, dalla grinta dei Nirvana, alle ballate dei Metallica, dalle note dei Guns'N'Roses alla sensualità dei Whitesnake, il tutto condito con la solita passione e la voglia di emozionarsi ed emozionare con del buon vecchio sano contaminato e sempre dannato e benedetto Rock'N'Roll.
Vi aspettiamo!



Mi accontento di poco. È il resto del mondo il problema.


In negozio, talvolta, sono confusa, infastidita dai turisti alla cassa, sempre i soliti, sempre gli stessi. Già dalla mattina.
Turista: - Prendo queste cartoline. –
Elle: - Uno, due, tre.. Cinque euro, grazie. –
- Purtroppo ho solo cinquanta euro. –
- E perché non cerca meglio in quel portafogli? –
- Come, prego? –
- Ho detto: bel portafogli. –
- Ah, grazie. Tenga. –
- Ah, sì, i cinquanta euro. Allora sono cinque, venti, quaranta. A lei. Arrivederci. –
- Grazie. Non è che per caso ha anche i francobolli? –
- Dirlo prima, no? –
- Come, scusi? –
- Dico, per la Germania, no? –
- Sì, per favore. –
- Per favore una ceppa. –
- Scusi? –
- Se ha fretta.. –
- Fretta cosa? Mi scusi, non capisco.. –
- Le do un sacchetto, se ha fretta.. –
- … -
- Per i francobolli, ma ci sente? –
- N.. no, grazie, li attacco subito. –
- Vabbe’, come vuole, sono due euro e venticinque, paga con la carta? –
- No, dovrei avere cinque euro. –
- Certo che ce li ha, glieli ho appena cambiati, no? –
- S.. sì, ma dove li ho messi? –
- Oddiossanto. Si vuole dare una mossa? Ho la fila.. –
- Do.. ah! Eh? Ma non c’è nessuno.. –
- Vuole discutere con me? –
- … -
- Eh? -
- N.. no, tenga. Due euro, ha detto? –
- Due e venticinque, cazzo, ma oggi tutti qui venite? –
- … -
- Grazie, il resto? Ah, lo vuole.. e allora lo prenda, è lì. Arrivederci. –*

La prima impressione è di fastidio, la seconda di curiosità. Aiuta il numero di pagine, nemmeno duecento, e poi è una sorta di giallo, credo, si scoprirà qualcosa alla fine, spero.
È la storia di un investigatore privato, Nick Belane, raccontata in prima persona da lui, al quale si rivolgono diverse persone per affidargli i loro casi dietro raccomandazione di un certo John Burton che, però, Belane non conosce. In ogni caso Burton si fida di lui e gli manda cani e porci.
Questi casi in qualche modo si intrecciano fra loro, ma non in maniera risolutiva, anzi ad un certo punto sembra che abbiano in comune solo il non poter essere risolti. Ma è davvero così, o è Belane che non lavora con il metodo giusto? Ma ecco che lentamente, e non senza inciampi, Belane porta tutti i casi alla soluzione, o quasi tutti, e allo stesso tempo si ha l’impressione che i casi si risolvano da sé, quasi cadendo in prescrizione, o con aiuti esterni affatto merito dell’investigatore. Uno se vuole può pure vederci lo zampino del destino, io no.
E nemmeno Belane, perché lui sa che il merito è tutto suo, sa di essere il migliore, il super investigatore, “il più dritto detective di Los Angeles”, me cojoni. La sua vita si svolge tra casa sua, dove però ha un vicino invadente, il suo ufficio, di cui tutti sembrano avere la chiave, e un numero indefinito di bar, gestiti e frequentati dai personaggi più assurdi, ma in fondo tutto il mondo è pieno di persone assurde, e questo lo nota anche Belane: “Finii il mio drink e uscii di là. Si stava meglio per strada. Camminai senza meta. Qualcosa doveva cedere e non sarei certo stato io. Cominciai a contare tutti gli scemi che incontravo. Arrivai a cinquanta in due minuti e mezzo, poi entrai nel bar successivo”.
Questa degli scemi l’ho notata pure io.

Ieri al lavoro, ad esempio, un tipo che stava tra lo scaffale dei boccali da birra in ceramica con coperchio in zinco e la parete con le calamite da frigorifero a forma di Porta di Brandeburgo continuava a fissarmi. Sentivo che mi guardava. Il negozio era vuoto, c’eravamo solo io, lui e il tirocinante nuovo che mi hanno affidato, un cinese che non capisce niente, né io capisco lui. Ho finito di leggere il capitolo e ho chiamato il tirocinante per ordinargli di portare un’altra pila di guide turistiche in italiano. Per agevolallo cerco di usare più parole possibili con la elle, così si sente a casa quelle poche volte che gli pallo. L’unica sua particolarità è un casco di capelli spioventi sul volto, che si uniscono al cappuccio della felpa di due taglie più grandi, che si unisce al pantalone del pigiama che usa al lavoro, che si unisce al pavimento. Ha sempre le mani in tasca, quindi di solito di lui vedo solo il naso e quei cazzo di occhi corrugati a punto interrogativo ebete.
- La pila, eh? – ha chiesto.
- Sì, un’altra pila, solo più alta. –
- Più alta? Più molti? Quanti? –
- Quelli che puoi. –
- Cosa vuol dile? –
- Non lo sai? –
- No. –
- Beh, mentre vai a prenderli, pensaci. –
Si è allontanato.
Il cliente vicino allo scaffale dei boccali da birra e alle calamite da frigorifero ha attirato la mia attenzione con un cenno della mano, e ha urlato:
- Sei italiana, vero? –
- No, non sono italiana. –
- Hai una bellezza tipica italiana. -
- Non me ne frega un cazzo se ho una bellezza tipica italiana. –
- Uh, ti sei offesa? –
- Mi hai offeso tu? –
In quel momento il tirocinante è tornato con la pila di guide turistiche in italiano, le ha appoggiate alla cassa accanto al libro che stavo leggendo, ha lanciato uno sguardo veloce al tizio vicino allo scaffale dei boccali da birra, e ha detto con tono triste:
- Non penso che tu sia una donna gentile. –
- E chi ti ha detto che potevi pensare? –
- Non sono obbligato a lispondeti. –
- Nemmeno a restare, se è per questo. –
- Non parlare più con quella! – ha urlato il tipo vicino allo scaffale dei boccali da birra, come fosse al mercato del pesce e non in un negozio di tutto rispetto.
- Tu pronuncia solo un’altra parola e ti rifilo una pedata su per il culo! -**

Belane ci accompagna nella sua quotidianità lavorativa, da quando gli viene affidato il primo caso anomalo, fino alla risoluzione dello stesso, cioè al pagamento, o mantenimento di una promessa, dipende dai punti di vista, in ogni caso questo ci insegna a stare attenti alle espressioni che usiamo, perché qualcuno potrebbe prenderle per promesse, appunto.
“Culo” e “coglioni” sono le parole che Belane usa più spesso, “ti inchiodo il culo” e “testa di cazzo” le sue frasi preferite. Fra le bevande la fanno da padrona vodka e scotch, mangia male, è grasso, scommette sui cavalli, cioè perde le scommesse, si indebita, incontra poche donne, ma decisamente affascinanti, anzi dovrei dire eccitanti, eppure non ci sono scene di sesso, nemmeno una, nada, nix, anche se quattro volte si arriva ai massimi livelli di eccitazione, sempre bloccati sul più bello, una volta addirittura da un mostro alieno, nascosto sotto una delle due donne più belle che Belane avesse mai visto. Poco male, per come la vede lui: “Eravamo seduti da circa mezz’ora quando entrò qualcuno. Un’altra donna. Si guardò in giro e poi venne a sedersi sullo sgabello alla mia sinistra. Due donne significano il doppio delle grane rispetto a una. Adesso avevo grane da tutte e due le parti. Ero chiuso in una morsa. Ero fottuto.”

Sono quasi duecento pagine di fatti inverosimili, come gli alieni dai poteri magici:
“- … l’ho vista fare certe cose. –
- Per esempio? –
- Be’, levitare fino al soffitto e cose del genere… -
- Lei beve, Grovers? –
- Certo, e lei? –
- Non funzionerei senza… -“
Duecento pagine di piccoli gesti: “Spensi il sigaro, mi misi il cappello, andai alla porta, la chiusi a chiave, raggiunsi l’ascensore e scesi al piano terra. Uscii sulla strada e rimasi fermo a guardare il via vai di gente. Lo stomaco cominciò a ribellarsi e camminai mezzo isolato fino a un bar, l’Eclissi, entrai, mi sedetti su uno sgabello. Dovevo pensare.”
Duecento pagine di riflessioni profonde: “Cominciai a pensare alle soluzioni della vita. La gente che risolveva le cose solitamente aveva molta tenacia e una buona dose di fortuna. Se tenevi duro a sufficienza di solito arrivava anche un po’ di fortuna. Però la maggior parte delle persone non riusciva ad aspettare la fortuna, quindi rinunciava. Non Belane. Non era un senzapalle, lui. Era roba di prima qualità. Un ardito. Un tantino fannullone, forse. Ma furbo.”
Duecento pagine di americanate: “Entrò e chiuse la porta. Presi la chiave e li chiusi dentro. Poi tornai alla scrivania e cominciai a spingerla lentamente verso la porta del cesso. Era una scrivania molto pesante. La spostavo di un centimetro per volta. Un inferno. Ci misi dieci minuti per spostarla di quattro metri. Poi la spinsi direttamente contro la porta.”
Duecento pagine di normale vita vissuta: “Poi si grattò le palle e sbadigliò”.

Duecento pagine di quotidianità condivisibile: “Era solo un lavoro, per l’affitto, per l’alcol, in attesa dell’ultimo giorno o dell’ultima notte. Un riempitivo. Che stronzata. Avrei dovuto essere un grande filosofo, avrei detto loro quanto eravamo stupidi a starcene in giro a riempire e a svuotare i polmoni d’aria”, dice Belane.
Ma in realtà Belane è già un filosofo: riceve soffiate sbagliate, prende granchi e si caccia nei guai, prende multe e non le paga, è perseguitato da allibratori, strozzini e padroni di casa a cui deve soldi, fraintende e fa figure di merda, va in bianco, viene sballottato da un bar assurdo all’altro dietro una pista che non esiste, a fare domande a persone ottuse che gli fanno perdere tempo, vive giornate di lavoro inconcludenti, e non sembra avere vere e proprie giornate di vita personale, certi giorni si sveglia depresso, ma la sera, la sera come tutti torna a casa: “Chiusi la porta. Mi sedetti e trovai mezzo sigaro spento nel posacenere. Lo accesi, feci un tiro, mi andò di traverso. Riprovai. Niente male.
Mi sentivo introspettivo.
Decisi che per quel giorno non avrei più fatto nulla.
La vita consumava, consumava all’osso.
Domani sarebbe stato un giorno migliore.”

Oggi ho lavorato tutto il giorno nella libreria, perché hanno provato a prendersi il tirocinante cinese per fargli fare il lavoro sporco, ma lui riesce solo a sporcarlo di più. Allora hanno chiamato me, la super tirocinante da una vita, la più tirocinante dei tirocinanti. Ho mollato le calamite da frigorifero al loro triste destino di regalo inutile, e sono andata in libreria.
Mentre ero lì che facevo la muffa alla cassa, è arrivato uno dei clienti più fedeli, che è pure amico del Grande Capo, conosce a memoria i titoli di tutti i nostri libri, ma il mio nome non l’ha ancora imparato.
- Sei fortunato, - gli ho detto, burlona come sempre – ti sei perso per un pelo quell’ubriacona di Elle. Era qui che si vantava della sua nuova macchina da cucire marca Necchi. –
- Lascia perdere quella, - mi ha risposto ignorando il mio sorriso simpatico – hai una copia firmata de Il muro di Berlino 1961-1989 con le fotografie dell’archivio di Stato di Berlino? –
- Naturalmente. – ho risposto piccata.
- A quanto la vendi? –
Ho sorriso ammiccante: - Tu a quanto la vorresti? –
- Ci.. penso.. – ha balbettato.
- Scusa un attimo. – gli ho detto sbrigativa, poi mi son rivolta a un tipo che a pochi passi da noi sfogliava la prima edizione de Gli anni Venti a Berlino:
- Tu! Rimetti subito il libro sullo scaffale e levati dai coglioni! –
Il cliente alla cassa mi ha guardata sgranando gli occhi.
E io: - Ci credi che qualcuno entra perfino con il gelato in mano? – gli ho detto calcando la voce su “gelato in mano”, e fissandolo dritto negli occhi mentre mi chinavo leggermente verso di lui sul banco.
- Credo.. a cose ben peggiori. – ha balbettato.
Poi mi sono rivolta di nuovo al tipo:
- Ehi, tu! – ho urlato – VAI FUORI DAI PIEDI! –
Con un sussurro timido, il cliente alla cassa mi ha chiesto: - Ma.. perché ? –
- Io capisco al volo quando NON HANNO VOGLIA DI COMPRARE. – e ho urlato l’ultima parte in modo che il tipo mi sentisse. Quello ha posato il libro sullo scaffale e si è diretto verso l’uscita.
Il cliente mi fissava con insistenza, siamo rimasti lì in piedi a guardarci senza parlare, poi ha iniziato: - Ma.. –
Ma che cazzo. Ho fatto un passo indietro dalla cassa: - E tu non rivolgermi mai più la parola. E non fare niente, niente di niente che possa infastidirmi o ti faccio saltare la bocca da quella faccia di cazzo che ti ritrovi! –
Lui mi ha fissato ancora per qualche secondo in silenzio, poi si è scosso dal suo torpore del cazzo e si è avviato verso la porta senza mai voltarsi indietro.
Mentre la porta si richiudeva alle sue spalle, un uccellino è entrato saltellando nella libreria. Era un uccello carino. Mi ha guardato e io l’ho guardato. Poi ha cinguettato debolmente: “cip!” e non so perché mi ha fatto sentire bene. Mi accontento di poco. È il resto del mondo il problema.**

***

Pulp. Una storia del xx secolo di Charles Bukowski, tradotto da Simona Viciani e con un’illustrazione di Emiliano Ponzi in copertina.
L’edizione che ho letto io ha una prefazione della traduttrice che spiega i retroscena della stesura di questo romanzo, il significato che aveva per l’autore e per i suoi affezionati lettori, le differenze coi romanzi precedenti. In copertina c’è un’illustrazione molto particolare: il fumo nero del sigaro è a forma di colonna vertebrale, la camicia è fuori dai pantaloni, lui è nella bara, al suo fianco c’è uno scheletro con un abito rosso molto sexy e rossetto rosso, che ha una mano infilata nei suoi pantaloni (non nella tasca); è un’immagine che riassume in una sola scena tutto quello che c’è scritto nella prefazione, non ciò che verrebbe da pensare sulle prime vedendola, ossia che si tratti del solito gioco del dottore e dell’infermiera, in cui l’infermiera lavora mentre il dottore sta fermo e se la gode, bensì è qualcosa di molto più maturo: è la morte che lo tiene per le palle.

*questo brano è inventato di sana pianta, seguendo lo schema di una conversazione presente nel libro
**questi due brani sono rivisitazioni di brani tratti dal libro, con parti prese pari pari da diverse pagine e altre parti che ho modificato e/o integrato per adattarle alla mia quotidianità lavorativa; soprattutto le ultimissime righe dell'utlimo brano non sono mie

martedì 19 marzo 2013

La finestra sul cortile

La finestra sul cortile
(USA 1954)
Titolo originale: Rear Window
Regia: Alfred Hitchcock
Sceneggiatura: John Michael Hayes
Tratto dal racconto: It Had To Be Murder di Cornell Woolrich (scritto con lo pseudonimo William Irish)
Cast: James Stewart, Grace Kelly, Thelma Ritter, Wendell Corey, Raymond Burr, Judith Evelyn, Georgine Darcy
Genere: guardone
Se ti piace guarda (non necessariamente con il binocolo) anche: Omicidio a luci rosse, Le vite degli altri, Disturbia


Una volta, quando non c’erano la tv satellitare o lo scaricamento selvaggio di film e serie tv, i videogame così come gli smart phone, la gente doveva arrangiarsi come poteva, per divertirsi. Si doveva inventare dei passatempi con quello che gli passava il convento. James Stewart, fotoreporter costretto temporaneamente sulla sedia a rotelle con una gamba ingessata, si ritrova così tutto il giorno seduto di fronte alla finestra a spiare, pardon a guardare ciò che fanno i suoi vicini di casa. Voyeur, maniaco, guardone… chiamatelo come volete, la sostanza non cambia.
In effetti però, come dargli torto? Le vite dei suoi vicini vanno a comporre un palinsesto più variegato di quello stitico di Canale 5: c’è la commedia romantica con la single alla Bridget Jones, ci sono i servizi sugli animali come quelli della nuova imperdibile (si fa per dire) rubrica di Studio Aperto Colpo di coda, c’è il canale soft porno con l’affascinante vicina in reggiseno (oh, siamo pur sempre negli anni ’50, epoca di molto pre-Colpo grosso), c’è la casa musicale antenata di Mtv con i musicisti jazz anziché le popstar e i rapper, e poi naturalmente c’è la parte thriller. Essendo dentro un film di Alfred Hitchcock, è questa a fungere da vero motore di tutta la pellicola.
Il caso thrilla è avvincente e molto ben costruito, ma il vero grande fascino della pellicola sta nella sua riflessione sul guardare, sull’essere visti e sul cinema.



La finestra sul cortile è una finestra aperta sul mondo del cinema ma che oggi, in epoca post grandefratelliana, può essere tranquillamente estesa ancora di più al mondo della reality tv. Soffermandoci sul cinema, il film ci mostra come il punto di vista sia sempre parziale. La percezione di una storia dipende da dove la guardiamo. Una celebrazione della ripresa soggettiva, così come una celebrazione del ruolo del regista. Noi spettatori siamo come James Stewart, seduti nelle nostre poltrone (si spera con le gambe non ingessate) e costretti a vedere solo ciò che il metteur en scène decide di mostrarci. Il ruolo dello spettatore non è però passivo. A un certo punto, James Stewart interviene direttamente nella storia, con l’aiuto delle sue due “aiutanti”, la sua girlfriend Grace Kelly e la sua infermiera e massaggiatrice (solo massaggiatrice, specifico) Thelma Ritter. Quindi Hitch ci suggerisce che lo spettatore con il suo punto di vista e con la sua percezione è fondamentale nel cucire assieme gli stimoli da lui proposti. Un’ipotesi poi confermata da quella che è probabilmente la scena più celebre diretta dal regista britannico, la sequenza dell’omicidio nella doccia di Psyco. Qui Hitchcock infatti non ci mostra direttamente la violenza. Non ci fa vedere la lama che affonda nella carne. Il collegamento viene fatto dallo spettatore.



Uno dei grandi pregi del suo cinema sta quindi nel non trattare i suoi spettatori come degli idioti, o come degli strumenti di fruizione passiva, ma di stimolare in loro, in noi, una riflessione. Come in un gioco enigmistico, lui ci mette i puntini, poi sta a noi unirli. Se è il maestro della suspance è anche per questo. Non solo perché è un mostro nel far salire la tensione, costruendo storie che spesso e volentieri partono lente, non disdegnando i toni della commedia romantica, e poi si fanno sempre più avvolgenti. L’arma in più che tiene tra le mani è quella della partecipazione attiva dello spettatore.
In un buon thriller, chi guarda vuole essere trascinato dentro la vicenda. Vuole diventare il detective dell’indagine. Hitchcock gli permette di esserlo, ed è questo ciò che rende i suoi film tanto riusciti. Poi vabbè, c’è anche dentro la sua maestria nel muovere la macchina da presa che comunque non è mai fine a se stessa, ma è appunto usata per svelarci qualcosa.
Da applausi in tal senso è il finale della pellicola. Non mi riferisco alla parte thriller. Parlo dell’ultimissima scena, in cui non abbiamo una celebrazione del matrimonio come ci si potrebbe attendere da una pellicola hollywoodiana anni ’50. I due protagonisti stanno ancora insieme, lui ha smesso di essere ossessionato dalla vita degli altri e ha finalmente girato la sedia a rotelle dall’altra parte, mentre sembra che Grace Kelly abbia rinunciato ai suoi propositi nuziali, almeno per il momento, e si gode semplicemente il ruolo della fidanzata. La ragazza assenda le passioni di James Stewart, mentre fa finta di leggere una guida avventurosa sull’Himalaya, e allo stesso tempo si dedica pure a se stessa, con la lettura della rivista di moda Bazaar. Una coppia di fatto che rende ancora più moderna una pellicola che porta (quasi) 60 anni benissimo.
Io ora credo di aver detto tutto quello che avevo da dire sul film. E voi, sempre qui? Che avete ancora da guardare?
(voto 8,5/10)
Cannibal Kid

mercoledì 13 marzo 2013

Una storia in un racconto nel romanzo


Scrivere una recensione è difficile, si sa. Esistono vari tipi di recensioni, di cui cito i primi tre che mi vengono in mente.
1) Recensione obiettiva ed esperta con paragoni con altre opere dello stesso autore e con opere simili di altri autori, all’interno di un filone o del panorama nazionale di tutti i tempi, se invece si tratta di un’opera prima, analisi dettagliata di pregi e difetti dello stile, della lingua, dei contenuti, ricerca di tracce di plagio, ovvero di spunti malriusciti, ricerca di un eventuale autore maestro, scelta di un soprannome che inizi con “novello..” e grido per questa nascita infine, se il maestro non si vede, e soprattutto se si vede che ce ne sarebbe stato bisogno, consiglio dell’esperto su come migliorare, se non addirittura parere in odor di stroncatura.
Una recensione del genere io non riesco a scriverla, innanzitutto perché non conosco i predecessori proprio di nessuno, col panorama nazionale sono ferma a Dante e non l’ho nemmeno letto tutto, e per cogliere somiglianze in quanto già letto non dico che dovrei ricordarmi di cosa parlava il libro, ma almeno saper citare autore e titolo mi sarebbe utile.
Ad esempio ho appena finito di leggere Non ti muovere e, all’inizio mentre leggevo, obiettivamente pensavo: “Uh, bellissimo questo inizio, la scelta di raccontare proprio questa scena e proprio in questo modo, con questi spazi bianchi fra punti chiave del racconto (peraltro sempre azzeccati da qui alla fine del libro), e questo punto di vista che sembra giungere dall’alto, ma subito avvolge e penetra il racconto, come se il narratore fosse presente, invece non c’è ancora ma questo si scopre dopo, quando la scena è già cambiata, quando lui si materializza nella storia, ed esce dalla premessa pronto ad entrare nel vivo del suo racconto, ed è chiaro anche se non esplicito il motivo per cui inizia a raccontare (su questo mi sono ricreduta, il vero motivo, più sottile, si scopre alla fine), cioè l’inizio è una sorta di scusa (non una cornice, ma proprio un la) per una storia più lunga e più intensa, quasi una confessione (mi pareva, all’inizio, ma non lo è) di un uomo che si vuole raccontare e però basta con queste storie di borghesi insoddisfatti, che se queste cose non le aveste le vorreste, ve lo dico io, e cosa credi tu, che se fossi povero e ignorante apprezzeresti la tua povertà e ignoranza? La seconda non sapresti nemmeno di averla e la prima te la terresti proprio perché da ignorante non immagineresti mai di avere anche tu diritto alla ricchezza, fermo restando il dubbio sulla tua capacità di ottenerla, e poi di quale ricchezza vogliamo parlare? No, perché per essere davvero ricco ti basterebbe sfruttare la tua (ipotetica) intelligenza per far fruttare la tua ricchezza (di qualunque tipo sia) in maniera costruttiva, anziché piagnucolare perché vorresti un’altra vita altrove, sappi che per fare il medico senza frontiere, se il tuo problema è davvero che in ospedale guadagni troppo, ti basta girare l’angolo della tua città e sei in una periferia, che da quando esistono le città (e ti sto parlando del 1200 al più tardi) sono piene di cenciosi, loro sì, che sono in questa situazione contro la loro volontà e non sanno come uscirne, non tu che non vorresti l’attico in centro, la moglie bellissima e la carriera avviata ma puoi sempre scegliere di lasciare tutto, le palle, ti mancano, solo quelle”.
Ma veniamo al secondo tipo di recensione.
2) Recensione soggettiva, ovvero l’insieme di sensazioni che il libro stimola, ovvero una recensione inutile, se è vero che le recensioni vengono lette da chi vuole avere un’idea generica della trama e della qualità del libro, per poterlo leggere e farsi emozionare, innanzitutto perché le emozioni sono soggettive, e poi perché nello stesso soggetto possono variare in base al periodo in cui si legge un romanzo (e dico “periodo” per semplificare perché le variabili, anche nello stesso periodo, sono tante).
Ad esempio a me forse ultimamente capitano solo storie di persone che stanno ferme, eppure si lamentano perché vorrebbero essere altrove, sanno addirittura dove, però non si muovono, proprio come il protagonista, nonché voce narrante, di Non ti muovere, frase, questa, che lui ripete a tutti nel corso del romanzo, vorrebbe che tutti si fermassero, invece quello fermo è lui, ne è pienamente consapevole, anzi proprio per questo vorrebbe che tutti si fermassero: vorrebbe averli vicino, e non farli soffrire, eppure sembra proprio che tutto ciò che renderebbe felice lui quando lo vuole lui, farebbe però soffrire gli altri, allora sta fermo, non si muove, o si muove pochissimo quasi senza impegno, ma quel poco basta a cambiare le cose, a cambiarle dall’interno, in maniera invisibile ad occhio nudo, soprattutto all’occhio degli altri (o questo lo crede lui).
È l’ennesimo esempio di qualcuno che ha quasi raggiunto, già in giovane età (ha 40 anni o poco meno), l’apice della sua vita: studi universitari e carriera, in quest’ordine; amicizie consolidate e inspiegabili, con annesso divieto di porsi domande, perché se si tratta di persone apparentemente obiettivamente raccomandabili non importa che ci si senta diversi o addirittura estranei, si è amici da sempre e questa è una garanzia; infine l’amore e il matrimonio, con conseguenza di suoceri e figli, questi ultimi spesso sono prima di tutto tanto attesi nipotini. Alla pensione ci pensiamo poi, se proprio vogliamo pensarci, per ora preoccupiamoci di allevare i nostri figli secondo la sana educazione che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, quella che ancora oggi ci opprime, solo che con l’età adulta abbiamo imparato a sorridere ciononostante, e anche se il nostro sorriso sembra vero, noi sappiamo che non lo è, ma anche questo è previsto dall’educazione che abbiamo ricevuto, e ci tranquillizza sapere che i nostri figli, che ora si ribellano al sorriso forzato e tengono il broncio, un giorno finalmente impareranno a proprie spese a sorridere sempre, e ci tranquillizza pensare che quel giorno ci diranno “avevi ragione”.
E allo stesso tempo ci opprime sapere che noi stiamo insegnando ai nostri figli ad auto-opprimersi consapevolmente, a non muoversi dal solco nel solco del solco dei secoli nei secoli e così sia.
3) Oppure, molto più semplicemente, si fa un elenco dei personaggi, anche dei minori, se è ramificato di considerazioni sui loro rapporti è meglio, così sembra che abbiamo letto e capito il libro, si traccia un filo dello svolgimento, aggiungendo qualche commento se questo non è cronologico e se i salti nel tempo appesantiscono e confondono, infine si cita una frase preferita o esemplificativa del romanzo, si aggiungono i propri buoni propositi per l’anno nuovo, ad esempio leggere più libri di questo autore, e si augura a tutti buona lettura, sperando che basti questa scheda a far prendere in considerazione l’idea di leggere il romanzo con tante grazie a noi per il consiglio.
Io ad esempio ho scelto due frasi preferite e esemplificative da Non ti muovere.
“Il tempo lavora così, Angela, con sistematica gradualità. Un invisibile ma implacabile movimento di usura. La trama dei tessuti si allenta e si riassesta sul telaio delle ossa, e un giorno, senza che nessuno ti abbia avvisato, indossi la faccia di tuo padre”.
“Ognuno di noi, Angela, sogna qualcosa che scardini il suo mondo ordinario. Lo sogni seduto sul divano, sbracato in mezzo ai benefit che la vita ti aggiunge ogni giorno. D'improvviso, spinto da un ridicolo moto di rivolta, cerchi l'osso dell'uomo che ti sarebbe piaciuto essere. Ma per tua fortuna sei avvolto da un bendaggio di adipe che si è ben assestato intorno a te per proteggerti dagli spigoli, e dalle stronzate che ogni tanto ti racconti”.
In entrambe le frasi, ciò che mi ha colpito di più è quel nome per inciso: “Angela”.
Fra i personaggi del romanzo infatti c’è pure lei, eppure non verrebbe da includerla nella lista, se non forse all’ultimo posto, perché non parla mai, non si muove mai, c’è e non c’è, ed effettivamente non c’era all’epoca dei fatti raccontati; è quasi sempre solo una parentesi nel racconto, solo ogni tanto vengono nominate alcune sue caratteristiche che suo padre, nonché voce narrante, ricorda. E se non fosse la protagonista di quella primissima scena e, forse proprio per questo, la destinataria del racconto successivo (nonché di quello stesso riepilogo di fatti a lei accaduti), Angela non esisterebbe come personaggio, nemmeno come scusa per un incipit stilisticamente perfetto.
Ci si dimentica di lei per pagine e pagine, finché la narrazione incontra un rigo bianco che ci catapulta tutti di nuovo nella stanza in cui si trova suo padre da quando ha iniziato a raccontare, a pochi metri da lei, che è lì e non si muove. Fra uno di questi ritorni dal flash back e l’altro spuntano qui e lì solo piccoli incisi, questi “Angela” fra virgole che danno la pelle d’oca, perché ci ricordano che lei, Angela, c’è ancora, c’è di nuovo, c’è già, nonostante la storia sia un’altra, e fino alla fine continueremo a chiederci cosa c’entra Angela, qual è il suo segreto? C’è un segreto, o suo padre vuole semplicemente raccontare questa storia, vuole confessarsi e ha scelto lei perché il caso l’ha portata in quella stanza dalla quale non può muoversi?
“Non sto cercando pietà, non sto cercando nulla, Angela, credimi, non so nemmeno io perché ritorno a queste cose”. Questo dice Timoteo, ossia la voce narrante, verso la fine del libro, e per me la lista dei personaggi potrebbe finire qui, perché nonostante la storia che Timoteo racconta ad Angela sia un’altra, e questa a sua volta possa essere vissuta e quindi analizzata secondo almeno tre differenti aspetti della vita di un uomo, e nonostante mi sia chiesta più volte se davvero un uomo pensa queste cose, se davvero le racconterebbe a sua figlia, se davvero le direbbe così, e pur essendo convinta che il motivo per cui le racconta questa storia sia un altro (e lo si scopre solo alla fine), o forse proprio per questo, per me questo romanzo è semplicemente la storia del rapporto di un padre con sua figlia: un rapporto a distanza in cui non è il fatto che sua figlia in questa storia non c’entri nulla a determinare lo spazio fra loro, né il tentativo di avvicinamento è dato dalla mera confessione di fatti che potrebbero macchiare l’immagine che una figlia ha di suo padre: senza peccato, antico, responsabile, palloso, nobile e rassicurante, venerabile e proprio per questo irrimediabilmente distante.
Questa è una storia che parla di padri, perché pur con tutta la buona volontà data da tutto il senso di inadeguatezza che determina tutto un voluto apparente disinteressamento, un uomo quando diventa padre smette di essere un uomo. Non in assoluto, bensì agli occhi di un figlio, o meglio: agli occhi di un figlio non è mai un uomo, ma nasce (con lui), e muore, come padre. Uno impiega una vita di delusioni e fatica a costruirsi come uomo, o un’estate di consapevolezza determinante a rinascere come uomo, ma i suoi figli, sia che lo chiamino “papo” sino al giorno del proprio matrimonio sia che lo mandino affanculo già dalla quinta elementare, lo vedranno sempre come un padre circoscritto in un ventaglio di caratteristiche predeterminate, dal quale “scegliere” che tipo di padre essere, ad esempio un padre che si accontenta di guardare crescere la figlia convincendosi che le basti la complicità con la madre. Invece dietro questa immagine di padre c’è sempre un uomo e, cosa più assurda per una figlia (o per un figlio), c’era anche prima, quando lei non c’era, non era desiderata né pensata.
Sin da subito, in gesti minuscoli e parole semplici si avverte il legame di questo padre con la figlia. Non ti muovere, Angela, non ti muovere. Di solito il colpo mi arriva, se mi arriva, inaspettato nel finale, questa è la prima volta che una storia mi fa piangere nelle prime pagine, e poi ancora ogni volta che quel padre torna dal suo racconto lontano a quel capezzale di figlia, e questo nonostante le sensazioni per la gran parte del romanzo siano altre: fastidio, disgusto, disapprovazione. Ogni volta che dice “Angela”, ogni volta che la chiama “figlietta mia”, indipendentemente da quello che vuole dire (il mio amore era un altro, figlietta mia, non tu, non tua madre), traspare tutto il suo essere padre, io vedo tutta la loro complicità, il loro affetto reciproco abitualmente nascosto dalla quotidianità. E ogni volta, ho sentito tutte le mie lacrime agli occhi.

Elle

martedì 12 marzo 2013

Questi sono i 40


Questi sono i 40
(USA 2012)
Titolo originale: This Is 40
Regia: Judd Apatow
Sceneggiatura: Judd Apatow
Cast: Paul Rudd, Leslie Mann, Maude Apatow, Iris Apatow, Megan Fox, Charlyne Yi, Chris O’Dowd, Lena Dunham, Jason Segel, Albert Brooks, John Lithgow, Melissa McCarthy, Ryan Lee, Robert Smigel, Graham Parker, Billie Joe Armstrong, Ryan Adams
Genere: Apatow
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Uscita italiana prevista: 16 maggio


I 40enni sono i nuovi 30enni. I 30enni sono i nuovi 20enni. I 20enni sono i nuovi bimbiminkia. E i bimbiminkia possono marcire all’inferno.
Questi sono i 40 parte come sequel spinoff di Molto incinta. Avete presente quella commedia con Katherine Heigl che si fa mettere incinta, ebbene sì, da Seth Rogen? Bene, dimenticatevi di loro due, visto che loro due qui non ci sono più, nemmeno per una comparsata veloce. Che antipatici, non appaiono manco un secondo.
I protagonisti sono invece i loro amici, Pete e Debbie, al secolo conosciuti come gli attori Paul Rudd e Leslie Mann. Se avete visto Molto incinta bene, sapete già più o meno cosa aspettarvi da questo film, se invece non l’avete visto male, perché vi siete persi un’ottima commedia, ma vi va comunque bene perché potete gustarvi lo stesso questo This Is 40. Si tratta infatti di una pellicola del tutto indipendente, anche se comunque va inquadrata all’interno del corpus di opere di Judd Apatow.



Il regista e sceneggiatore americano, definito da qualcuno tra cui me il nuovo king of comedy, ha uno stile tutto suo e i suoi film alla fine sono un po’ tutti uguali. Judd Apatow è un autore che bene o male ripete sempre la stessa storia, gli stessi personaggi, le stessa tematiche (soprattutto la paura di invecchiare) e ossessioni. Come un Woody Allen meno intellettualoide, meno newyorkese e più middle class e sboccato.
Judd Apatow va dunque preso come Autore, non autore serio magari, anche se un film come il suo precedente sottovalutato Funny People in particolare era velato di un notevole alone di malinconia, piuttosto va considerato un autore comedy. Professione del tutto rispettabile. In Italia come autori comedy abbiamo Leonardo Pieraccioni e Alessandro Siani, negli USA le cose vanno decisamente meglio con Apatow.



Non è difficile vedere Questi sono i 40 come un film autobiografico. Non che io conosca Judd di persona e posso dire che la sua vita è davvero così, però considerando come nel cast ci siano sua moglie Leslie Mann e le sue figlie Maude (fissatissima con Lost) e Iris Apatow, possiamo presumere che la parte affidata al protagonista Paul Rudd possa rappresentare un suo alter-ego. Paul Rudd è una versione un po’ più figa del vero Judd Apatow, ma d’altronde è sempre così, nei film. Nei film sono tutti più belli e cool che nella realtà.
Più che una pellicola di fiction vera e propria, sembra allora di assistere a un documentario romanzato di quella che potrebbe essere la vera vita di Apatow con la sua famiglia. Alcune gag probabilmente sono prese proprio da momenti di suo vissuto personale. Sarà così o non sarà così, fatto sta che questo This Is 40 appare più sincero e vero di molte commedie, e non solo commedie, in circolazione. Altro merito mica da poco è quello del divertimento: il film a me ha fatto ridere, ridere un sacco.
Tra le note positive, ci metto dentro anche l’utilizzo di una canzone inedita di Fiona Apple, “Dull Tool”, perfetto accompagnamento dei momenti più intensi e drammatici del film. Non preoccupatevi, non troppo drammatici, siamo pur sempre in una commedia cazzona di Judd Apatow.
La musica gioca sempre un ruolo fondamentale nei films di Apatow e, oltre alla canzone della Fiona Mela, possiamo assistere anche alle comparsate in carne e ossa dei cantanti Graham Parker, Ryan Adams e Billie Joe Armstrong dei Green Day.
E poi…
Non l’ho ancora nominata?
Non volevo bruciarmela subito…
Di chi sto parlando?
Di Megan Fox.
In questo film c’è Megan Fox. E che parte fa?
Che parte volete che gli facciano fare, se non quella della strafiga?
Per la serie: “Faccio un film e lo faccio per realizzare le mie fantasie personali”, Judd Apatow si e ci regala una scena in cui sua moglie Leslie Mann mette le sue mann sulle tette di Megan Fox.
Judd, confessalo, hai realizzato questo film solo per girare questa scena, vero?
Bravo. Così si fa!


Tra le altre guest-star del film ci sono poi l’irlandese sempre più lanciato Chris O’Dowd e Lena Dunham, la protagonista di Girls, serie cult in cui Apatow figura tra i produttori. Perché il king of comedy non si limita a mettere su pellicola i suoi (e non solo suoi) sogni erotici personali, ma ha pure una cricca di amici/collaboratori/comici abituali che produce e sostiene.



Fino a qui tutto bene e io la recensione la chiuderei pure qui, perché la visione scivola via in maniera del tutto piacevole nonostante le due ore di durata, di solito eccessive per una commedia, ma che qui non pesano per nulla. Due ore e passa di intrattenimento puro. Visto che però fino a qui questa più che una recensione sembra un lungo pompino fatto ad Apatow, allora facciamo anche due critiche, va là, se non vogliamo essere criticati a nostra volta e passare per faziosi.
Il difetto principale del film è che non presenta una trama molto articolata, svolte particolarmente inventive, soluzioni geniali o idee davvero forti. Questi sono i 40, come si può immaginare dal titolo, ci presenta una coppia di neo quarantenni alle prese con le difficoltà di essere dei neo quartantenni. Niente di più e niente di meno.
Chi si aspetta una commedia rivelazione o qualcosa di diverso dal solito Judd Apatow style, rimarrà deluso. Chi invece si aspetta un film Judd Apatow style con una serie di dialoghi al fulmicotone (da godere preferibilmente in lingua originale), scenette spassose, un linguaggio sboccato ma niente di poi così volgare e una leggera, leggerissima riflessione sugli anni che passano, avrà di che gioire.
Questi sono i 40. Questo è Judd Apatow.
(voto 7/10)

lunedì 11 marzo 2013

Un Biondillo tira l'altro - Secondo appuntamento
16 Marzo 2013 Alberto Tonti




Sabato prossimo si svolgerà, a L'OrablùBar, il secondo appuntamento della rassegna "Un Biondillo tira l'altro" avrà come ospiti Alberto Tonti e Marco Sbarbati oltre all'immancabile Gianni Biondillo, direttore artistico della rasegna.Conoscitore e amante della musica, Alberto Tonti è critico musicale per varie testate nazionali e autore e conduttore di programmi radiofonici a Radio Popolare, alla Rai e a Radio24. È stato consulente musicale per Quelli della notte di Arbore e direttore dei programmi di Videomusic. Nel 2007 ha pubblicato Ballarono una sola estate. 70 meteore della canzone italiana anni sessanta in cui  ripercorre una stagione di successi che apparvero travolgenti ma si rivelarono fuochi di paglia. Recentemente, insieme ad Andrea Kerbaker, ha pubblicato Let It Beatles, un omaggio ai Fab Four a cinquant’anni dall’uscita del loro primo 45 giri. Con Enzo Gentile ha curato Il dizionario del Pop & Rock, un’opera che dona al lettore una panoramica della realtà musicale degli ultimi sessant’anni attraverso 2130 artisti e 31.000 album. Siamo venuti a sapere che beve solo coca-cola e mangia molte pizze...
Alla serata parteciperà  in veste di special guest il cantautore Marco Sbarbati. Marchigiano, 32 anni, oltre a numerosi premi vinti, Sbarbati vanta una collaborazione con Lucio Dalla, che ha voluto inserire la sua I Don’t Wanna Start nella colonna sonora del film Ameriqua, scritto da Bobby Kennedy III e interpretato da Giancarlo Giannini, Alec Baldwin, Alessandra Mastronardi, a breve in uscita nelle sale italiane.


Vi aspettiamo sabato 16 marzo dalle ore 19e30 per l'aperitivo con gli autori.

martedì 5 marzo 2013

Skyfall



Skyfall
(UK, USA 2012)
Regia: Sam Mendes
Sceneggiatura: Neal Purvis, Robert Wade, John Logan
Cast: Daniel Craig, Judi Dench, Javier Bardem, Ralph Fiennes, Naomie Harris, Bérénice Marlohe, Ben Whishaw, Rory Kinnear, Albert Finney
Genere: spionistico
Se ti piace guarda anche: Il cavaliere oscuro, gli altri film su James Bond


Il mio nome è Boh. James Boh.
Se cercate qualcuno che vi dica tutto sull’agente 007, qualcuno che abbia letto tutti i libri di Ian Fleming, qualcuno che vi sappia citare ogni punto di contatto con i film precedenti, che vi faccia notare quali sono le novità di questo ultimo Skyfall, qualcuno che vi nomini tutte le Bond Girls e le canzoni usate, ecco avete sbagliato agente. A parte giusto le Bond Girls e le canzoni, io del magico e avventuroso mondo di James Bond non ne so niente.
Se cercate invece il punto di vista di qualcuno che si approccia per la prima volta a una visione bondiana, io sono l’agente che fa al caso vostro. L’ultimo Bond-vergine del mondo rimasto. Chi infatti non ha mai visto un film con protagonista 007?
Io. Fino ad ora ero sempre rimasto immune al fascino dell’agente più cool del mondo. Sarà che non mi hanno mai attirato i suoi vari interpreti. Nemmeno Sean Connery, per cui (lo so che dirò una bestemmia) ho sempre provato una congenita antipatia. Non lo so perché, a me gli scozzesi in genere stanno pure simpatici. E adoro tutto, ma proprio tutto della cultura britannica. James Bond però proprio no. Come detto, fino ad ora.



Skyfall è riuscito a riportare alle stelle l’hype nei confronti del brand Bond. Con un’operazione di marketing da ammirare e di cui ogni esperto nel settore dovrebbe prendere appunti, Daniel Craig in versione 007 si è presentato a prendere la Regina Elisabetta durante la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Londra. Un evento di nicchia, seguito giusto da qualche miliardo di persone nel mondo. Per la canzone deputata a fare da tema musicale al film è stata poi scelta soltanto la cantante che ha venduto più dischi negli ultimi anni, una certa Adele, in grado più tardi di portarsi a casa l’Oscar, cosa mai successa a un brano bondiano.
Con due mosse appena, di cui una muovendo la regina regina e l’altra muovendo la regina della musica, il nuovo film di James Bond aveva quindi già posto le basi per un successo globale senza precedenti. Le altre due pellicole con protagonista Daniel Craig Casino Royale del 2006 e Quantum of Solace del 2008 avevano infatti risvegliato l’interesse mondiale nei confronti del personaggio, dopo la lunga parentesi Pierce Brosnan, però niente a che vedere con il successo di Skyfall, riuscito ormai a superare il miliardo di dollari di incasso a livello globale.
Tutto merito di un’astuta e clamorosamente riuscita operazione di marketing, oppure dietro si cela anche della sostanza cinematografica, come le numerose critiche positive ricevute dalla pellicola lasciavano intuire? Tra i soldi spesi per la campagna promozionale, alcuni sono stati utilizzati anche per pagare i giornalisti pregandoli di parlarne bene, oppure una visione la merita davvero?



Da buon agente operativo, se non altro a livello cinematografico, ho cercato di indagare per scoprirne di più. Per una volta ho messo da parte le mie resistenze nei confronti di un personaggio così affascinante per tutto il mondo, ma che a me invece non ha mai affascinato minimamente. Un incentivo me l’ha dato la regia di Sam Mendes, regista che apprezzo parecchio fin da quel gioiellino d’esordio di American Beauty. Sinceramente, mi giravano le palle a perdermi un film di Sam Mendes, di cui ho visto l’intera Opera, solo perché sono sempre stato un anti-Bond. Alla fine allora ho ceduto e… mi è piaciuto. Non mi ha magari esaltato a livelli assurdi, non m’è venuta voglia di recuperarmi tutte le altre pellicole su 007, ma se non altro Skyfall non mi ha fatto sky-fo.
E pensare che mono partito con il mirino puntato sull’obiettivo e alla prima sequenza stavo già per sparare. Una lunga, e per quanto mi riguarda poco appassionante, scenona d’azione. Un inseguimento inverosimile, ovvero proprio ciò che mi aspettavo alla vigilia. Poi invece succede l’inaspettato. A Bond sparano per davvero.
Oh, mio Dio! Per una volta che mi metto a vedere un film con 007, me lo fanno fuori subito?



Ovviamente Bond non è davvero morto, però il film sa sparare qualche altro bel colpo riuscito, a partire da dei titoli di testa di un’eleganza infinita, accompagnati dalle splendide note del tema musicale cantato da Adele, di diritto tra i migliori nella Storia bondiana. Per quanto non abbia una enorme, anzi, per quanto non abbia alcuna conoscenza delle altre pellicole, le canzoni usate in 007 le conosco bene e Skyfall di Adele non sfigura affatto al fianco delle memorabili “Diamonds Are Forever” e “Goldfinger” cantate da Shirley Bassey, oltre alla splendida “Nobody Does It Better” di Carly Simon.
La pellicola scivola poi via benissimo, nella prima parte grazie allo humour british contenuto nei dialoghi tra il roccioso Daniel Craig e il giovinastro Q interpretato dall’ottimo Ben Whishaw, grazie ai flirt innocenti con Naomie Harris e quelli meno innocenti con Bérénice Marlohe, Bond girl da togliere il fiato. E poi grazie alle atmosfere Christopher Nolan friendly in cui piomba la pellicola nella sua seconda parte, quella in cui entra in scena Javier Bardem in versione terrorista cattivone. Tutti a scomodare il paragone con Il cavaliere oscuro e io che faccio? Devo confermare pure io tale paragone. Non avendo grande confidenza con il genere action, Sam Mendes deve aver appreso molti appunti durante la visione dei Batman nolaniani, e si vede.
Skyfall non presenta quindi niente di radicalmente nuovo, a livello cinematografico, però è un film che ha stile. Un film che ha saputo affascinarmi. Anch’io per la prima volta sono rimasto rapito dal fascino bondiano. Rapito magari è un termine esagerato, visto che nell’ultima parte la pellicola si adagia troppo sul versante action e lì mi ha stupito decisamente meno.
Nel complesso quindi devo riconoscere il fallimento della mia missione. Ero stato inviato per sparare a zero su zero zero sette, invece ho finito per farmi conquistare dalla vittima. Dovevo immaginarmelo, nei film va sempre a finire così.
(voto 6,5/10)
Cannibal Kid

lunedì 4 marzo 2013

L'8 marzo all'OrablùBar insieme alle Testharde


Solo hard rock esplosivo per le TESTHARDE, una band tutta al femminile che si ispira al sound anni '70 con arrangiamenti che ricordano molto lo stile di quegli anni, in onore ai Led Zeppelin, ai Deep Purple... Niente cover per le ragazze romagnole , ma pezzi originali  di loro composizione, cantati in italiano con uno stile coraggioso e trascinante pieno di melodia, ritmo, tecnica e originalità. Nata nel 2009, già nel 2010 la band viene notata al Solarolo Festival, dove debutta con il brano "Ubriaca" aggiudicandosi la vittoria nella categoria Inediti, premio che le consentirà  di accedere di diritto alle semifinali di Castrocaro 2011. Il repertorio delle TESTHARDE conta già oltre 20 brani inediti. Da vedere, oltre che da ascoltare!



Venerdì 8 marzo a L'OrablùBar

Ingresso dalle ore 21: 8 euro con prima consumazione
È gradita la prenotazione allo 0283412369