martedì 31 luglio 2012

Le pagine della nostra vita



Le pagine della nostra vita
(USA 2004)
Titolo originale: The Notebook
Regia: Nick Cassavetes
Cast: Ryan Gosling, Rachel McAdams, James Garner, Gena Rowlands, James Marsden, Kevin Connolly, Sam Shepard, Joan Allen
Genere: stracciamaronstrasentimentale
Se ti piace guarda anche: La memoria del cuore, I passi dell’amore, Keith, Remember Me, Dear John

Le pagine della nostra vita sono la quintessenza del nicholasparksismo.
Dopo aver letto questa frase, il 50% dei lettori, presumibilmente i lettori uomini, saranno corsi in bagno a vomitare nauseati. Oppure saranno andata a cercare su Wikipedia il termine “nicholasparksismo”. Non trovando risultati soddisfacenti, si saranno rifugiati a guardare YouPorn.
L’altro 50% dei lettori, presumibilmente le lettrici, avrà invece tirato un sospiro sognante: “Aaah”, ripensando al romanticume che questa pellicola, che presumibilmente avranno visto tra le 500 e le 1000 volte, emana da ogni suo poro.

C’è poco da fare. Non ci sono Titanic o Twilight che tengano. Sebbene ai tempi della sua uscita Le pagine della nostra vita (The Notebook) non abbia fatto sfracelli di incassi come i due celebri “colleghi”, nell’ultima decade è diventato il simbolo stesso del film romantico. Quello che qualunque donna (sì, anche la più indie-cinefila) si guarda ingozzandosi voracemente di gelato dopo la rottura o un litigio col fidanzato.
Cos’ha di tanto speciale questa pellicola?
Non lo so. Andate a chiederlo a una donna che, tra un sospiro e l’altro, forse saprà spiegarvelo. A un occhio maschile, tutto questo fascino è abbastanza inspiegabile. Io ad esempio ho trovato migliori e più coinvolgenti altri film sullo stesso genere come il recente La memoria del cuore, con la stessa Rachel McAdams, oppure I passi dell’amore, forse il più decente tra le pessime trasposizioni cinematografiche dei presumibilmente pessimi (dico presumubilmente perché non avendoli letti non posso affermarlo con certezza) romanzi di Nicholas Sparks.

Non sapete chi è Nicholas Sparks?
Per voi uomini duri che non sapete chi sia, e che vivreste benissimo anche continuando a non conoscerlo, è lo scrittore più strappalacrime in circolazione in America. E non solo in America. È uno cui gli Harmony glie fanno 'na pippa, glie fanno. È l’autore di un sacco di drammoni che ahinoi sono diventati anche un sacco film di altalenante ma spesso buon successo:
Le parole che non ti ho detto
I passi dell’amore
Le pagine della nostra vita
Come un uragano
Dear John
The Last Song
Ho cercato il tuo nome

Solo dai titoli vi sono cadute le palle?
Tranquilli, è normale.
Però cerchiamo di capire perché questo autore, oltre che tanto odiato e sbeffeggiato, sia tanto amato. Soprattutto: perché Le pagine della nostra vita è diventato un cult così clamoroso, almeno per quanto riguarda l’ambito delle pellicole stramegaromanticose.

A fare tanto, sono i due protagonisti: lui è Ryan Gosling. Ormai non ha più nemmeno bisogno di presentazioni, ormai è amato da tutte e da tutti. Dalle donne soprattutto per questo film dove ha la parte di Noah, un uomo che fa di tutto per stare insieme all’unico amore della sua vita, mentre dagli uomini è amato più che altro per l’interpretazione del silenzioso guidatore Driver di Drive.


Lei invece è Rachel McAdams, già perfida bitch Queen B in Mean Girls e attualmente lanciatissima nel cinema d’autore più d’autore che ci sia, tra Midnight in Paris di Woody Allen e i nuovi To The Wonder di Terrence Malick e Passion di Brian De Palma, entrambi in concorso al prossimo Festival di Venezia. Ma è anche l’erede di Juliona Roberts come nuova regina dei film romantici, grazie a titoli come La memoria del cuore, La neve nel cuore, Un amore all’improvviso e qualunque altra pellicola con cuore o amore nel titolo.



La storia narrata tra Le pagine della nostra (ma nostra de chi?) vita poi è una storiona che contiene tutti, ma proprio tutti, gli ingredienti del melodramma più drammatico e racconta di un amore eterno, più forte di qualunque ostacolo. Tra questi vi sono:
I genitori che si oppongono all’unione dei due protagonisti, visto che lei è ricca e lui un morto de fame.
La guerra, perché lui va a fare il militare e lei la crocerossina.
Il terzo incomodo: un tipo bello, ricco, intelligente, sensibile, atletico, coraggioso, brillante, balla pure bene… Il classico super uomo che può essere uscito giusto da una fantasia femminile, o in alternativa dalla mente deviata dello Sparks.
La malattia, lei sarà colpita da una forma di demenza senile che le impedisce di ricordare per tipo più di 5 minuti il suo grande “indimenticabile” amore.

Gli ingredienti per un super mega melodramma strappalacrime quindi ci sono tutti. Solo che sono persino troppi e sono miscelati in una maniera talmente perfetta e precisina da risultare piuttosto asettici che commoventi. Così come le scene di bacio e i momenti più sentimentali appaiono davvero esagerati e artefatti. La regia da sceneggiato Rai di Nick Cassavetes (figlio di John Cassavetes e Gena Rowlands, che qui ha la parte di Rachel McAdams da vecchia) poi certo non aiuta. Niente da dire invece sui due protagonisti, ottimamente in parte, sebbene entrambi abbiano fatto di molto meglio, e con un’enorme chimica.
La spiegazione di un culto così enorme come classico d’amore assoluto credo però sia un’altra. In genere non mi piace fare ragionamenti sessisti, anche perché io per primo ad esempio sono appassionato di un sacco di film e soprattutto telefilm che sarebbero a target prevalentemente femminile. Ma per un film come questo non ci sono ca**i che tengano: se siete donne, lo amerete alla follia, piangerete come fontanelle, lo guarderete ingozzandovi di gelato fino ad avere il mal di pancia, desiderete vivere un amore come quello rappresentato e trovare un uomo come Ryan Gosling. Se siete uomini, arriverete all’ultima scena, vi chiederete: “Embé?”, rutterete fragorosamente a causa di tutta la birra ingerita per rimanere svegli e poi metterete su il DVD di Drive.
(voto 5,5/10)
Cannibal Kid

sabato 28 luglio 2012

L'isola dei segreti
di Scarlett Thomas

Orfano di “Lost” avevo bisogno di un’altra isola su cui rifugiarmi e quindi mi sono immerso nella lettura di questo libro della scrittrice britannica nata a Londra, classe 1972.
In realtà non è andata proprio così. Qualche tempo fa fui attratto in libreria da un libro (e da cosa sennò) con una copertina di rosso colorata e dal sapore molto psichedelico. Anche il titolo mi intrigava parecchio: “Che fine ha fatto Mr. Y?”. La trama fuori dagli schemi mi colpì immediatamente. Costava poco (4,90 euro), lo comprai, non l’ho mai letto.
Passa un po’ di tempo e allo stesso prezzo vedo pubblicato un libro della stessa autrice, copertina blu abbagliante, titolo criptico (PopCo), trama interessante. Comprai anche questo. Mai letto.
Un paio di settimane fa, forse meno, vedo questo libro verde pisello, sempre quattroenovanta, il titolo è “L’isola dei segreti” sempre di Scarlett Thomas, il disegno in copertina è uguale a quello del libro blu, la trama incuriosisce. Lo compro.
Arrivo a casa e lo metto in libreria vicino agli altri due, tutti colorati fanno la loro bella figura.
Voltandomi sento una voce alle mie spalle: “Allora, che vuoi fare? Vuoi comprare i libri di questa scrittrice per tutta la vita senza mai leggerne uno, solo perché sono colorati? Comprati una scatola di pennarelli deficiente”. Mi voltai ma in casa non c’era nessuno, il ripiano della Billy Ikea era inarcato verso l’alto, quasi a creare un’innaturale imbronciatura. Vuoi vedere che…. Ma no, che vai a pensare. Faccio un giro su Wikipedia e scopro che questo “L’isola dei segreti” è stato scritto prima degli altri due, qui da noi usciti in precedenza (misteri dell’editoria italica). Mi sporgo e guardo nell’ingresso. la libreria è lì, l’espressione di dissenso è sparita. Cioè, lo scaffale non mi sembra più inclinato. Vuoi vedere che…. Ma no, che vai a pensare. Mi alzo, prendo il libro verde e lo piazzo sul comodino. Vuoi vedere che è la volta buona, mi ci voleva l’incentivo della Billy.

Il libro si potrebbe dividere in tre parti anche se la scrittrice ne ha usate solo due.

La prima parte ci presenta i sei personaggi che saranno i protagonisti della vicenda, sei ragazzi giovani, tre uomini, tre donne.
Anne è molto intelligente, sa tutto di molte cose senza averne diretta esperienza.
Jamie, laureato in matematica a Cambridge con il massimo dei voti, odia i numeri.
Thea, anche lei massimo dei voti all’università, pulisce culi in una casa di riposo.
Bryn, buon talento per la fotografia, spaccia droga.
Emily, bella, intelligente, non ha molte inibizioni. Prova anche a fare la escort.
Paul, esperto di computer, lavora per un provider e tenta di seminare caos.
Sei tipi interessanti con almeno due cose in comune. Tutti hanno menti brillanti, tutti rispondono a un annuncio di lavoro pubblicato sul “Guardian”.
I ragazzi, che non si conoscono tra di loro, si recano al colloquio di lavoro.
I ragazzi si risvegliano su un’isola deserta.

La seconda parte è incentrata sul rapporto che si instaura tra i sei “prigionieri” che non sanno come sono arrivati sull’isola, chi ce li ha portati e perché.
Dopo aver appurato che sull’isola ci sono una casa e scorte di generi alimentari che garantiranno loro la sopravvivenza per molto, molto, tempo i sei protagonisti si concentrano sulla reciproca conoscenza. Si studiano, si stuzzicano, si sentono sempre più tranquilli, e pian piano vengono fuori segreti e verità, simpatie e attrazioni sessuali. E’ più facile parlare con un estraneo delle proprie paure, dei propri segreti. Tra discorsi frivoli, citazioni di cultura Pop inglese e internazionale, serate passate a giocare a “obbligo o verità” si arriva ai tre quarti del libro.

All’inizio dell’ipotetica terza parte succede qualcosa, qualcosa di molto brutto. Alcuni dei ragazzi vanno in crisi e ci si avvia verso la soluzione (?) finale.

Il libro scorre via veloce, si legge in poco tempo e non annoia. Si sorride spesso grazie alla scrittura della Thomas. Per la maggior parte il racconto è basato sulle chiacchiere tra i sei ragazzi. Si parla di esperienze di vita, delle proprie paure, di amore e di sesso, di serial Tv (sicuramente gli inglesi coglieranno maggiormente i riferimenti a Eastenders e prodotti simili, più dura coglierli per noi italiani), film, musica, amenità e cose serie.
I rapporti cambiano, si evolvono.

Lo scrittore Jonathan Coe ha usato la parola “sensazionale” per definire questo libro. Io userei qualcosa tipo “divertente” o “intrigante”. Non userei di certo “sensazionale”. Beh, se mi pagassero per farlo potrei anche usarla in fondo.

mercoledì 25 luglio 2012

Abbasso l'amore

 Abbasso l’amore
(USA, Germania 2003)
Titolo originale: Down with Love
Regia: Peyton Reed
Cast: Renée Zellweger, Ewan McGregor, Sarah Paulson, Jeri Ryan, Ivana Milicevic, Melissa George, David Hyde Pierce, Tony Randall, Chris Parnell, Laura Kightlinger, John Aylward
Genere: retrò
Se ti piace guarda anche: Austin Powers, Pleasantville, A qualcuno piace caldo

Abbasso l’amore è un film sui Sixties a.M., ovvero avanti Mad Men.
Ebbene, sì. È esistita anche un’epoca avanti Mad Men. Cosa che significa che in questo film sono presenti tanti ma proprio tanti stereotipi legati all’esaltazione dei magnifici anni Sessanta come vera e propria epoca d’oro, quando Mad Men è riuscita a farci vedere anche le sue inevitabili ombre.
Cosa che però significa anche che qui dentro ci sono un sacco di trovate parecchio fa-vo-lo-se. Proprio nel suo rendere il decennio in maniera idealizzata e “finta”, Abbasso l’amore riesce a essere una commedia a tratti irresistibile. Vecchio stile e prevedibile fin che si vuole, ma anche maledettamente godibile.
Abbasso l’amore è come se dicesse “Abbasso una visione nuova e originale degli anni ’60 e viva il passato”, quello che non è manco mai esistito, se non nei film con Marilyn Monroe, Doris Day o Frank Sinatra. Perché il quadro del decennio che ne esce è del tutto fiction e ci propone i Sixties non come sono stati nella realtà, o come probabilmente devono essere stati nella realtà, ma solo come sono stati nelle commedie hollywoodiane del periodo. Per quanto io preferisca, e nettamente, il ritratto dipinto da una serie capolavoro come Mad Men, anche questa visione fittizia e molto naif del decennio ha il suo fascino flower power vagamente alla Austin Powers, giusto un filo meno scemo.
Niente male, davvero niente male poi alcune trovate parecchio inventive presenti, come la fantastica la “scena di sesso” in split-screen tra i due protagonisti. Uno sberleffo nei confronti del politically correct fatto in maniera leggera quanto allo stesso tempo incisiva.
Ma chi sono i protagonisti di questa scatenata comedy tutta basata su un continuo gioco di equivoci, in perfetto stile Sixties, e sul rapporto tra uomini e donne, con il femminismo che all’epoca si faceva sempre più largo?
Renée Zellweger, attrice che non è mai rientrata tra le mie personali preferite, qui offre una prova davvero più che convincente. Se lo dico io, fidatevi. E poi c’è Ewan McGregor, attore che invece è sempre rientrato tra i miei personali preferiti e che qua, in un ruolo più allegro e brillante rispetto ai suoi soliti recenti depressoni (Beginners, Perfect Sense, Il pescatore di sogni…), è gigione quanto basta per fare la sua ottima figura nei panni del playboy senza scrupoli.
La storia si risolve tutta nell’incontro/scontro tra i loro due personaggi. Lei è una femminista che ha scritto il best-seller che dà anche il titolo originale alla pellicola, ovvero “Down With Love”, in cui offre consigli alle donne su come rinunciare all’amore e diventare spietate nella relazioni sentimentali come e più degli uomini. Lui è invece un giornalista misogino che farà di tutto per farla a pezzi, architettando un diabolico piano per prima conquistarla e poi mandare in rovina tutte le teorie descritte nel suo libro…
Divertente, frizzante, leggera, una commedia fuori dal tempo, tanto ingenua quanto contagiosa.
Abbasso l’amore? No, viva Abbasso l’amore!
(voto 7/10)


martedì 24 luglio 2012

Tre cose su cui riflettere
e l’ombra del dubbio

Ieri mattina ho finito di leggere il romanzo della settimana: L'ombra del vento, fregandomene dello Zwischentest di tedesco imminente, e godendomi due ore di attesa con aria condizionata a palla dentro l'ufficio postale che, se non mi avessero collegata a un'operazione delicata ed importante per la vita di un essere umano, mi sarei volentieri risparmiata a favore di chissà cos'altro, benché normalmente contribuiscano ad alimentare la mia fama di persona paziente fino all'annullamento di sé. Soprattutto se ho nella borsa un romanzo letto a metà, so essere molto paziente.
L'argomento del romanzo, dopo molte peripezie, intrighi, misteri, segreti e un'ambientazione libraria e poliziesca, è nientepopodimeno che l'amore vero. Ma io non l'avrei mai detto finché non sono arrivata al personaggio di Nuria, infatti fino ad allora il mistero del personaggio di Juliàn mi aveva distratto dal suo amore incondizionato ed eterno, mentre siccome attorno a Nuria non c'era nessuno mistero, anche se lei sembrava informata sui fatti del mistero di Juliàn, la mia attenzione si è potuta concentrare sull'elemento amore. A quel punto ho notato che un certo legame d'amore vero ci poteva stare anche a proposito di Daniel nei confronti di...
Non tutti gli amori di questa storia finiscono bene, e la storia sa essere davvero triste, nel suo ineluttabile destino d'amore. Ma l'amore non è l'unico argomento del romanzo, perché ci sono anche la conoscenza e la dimenticanza. Si inizia coi libri dimenticati, si finisce con le persone dimenticate, nelle parole di Nuria, parole che stavano per strapparmi una lacrima se non mi fossi accorta in tempo di essere seduta sul pavimento dell'ufficio postale, in attesa del mio lontanissimo turno. E poi c'è la conoscenza della verità: Daniel vuole scoprire a tutti i costi la verità su Juliàn, mentre Nuria pensa che sia meglio non far sapere a Juliàn la verità.

Un breve succo della storia sarebbe opportuno per quanti di voi non hanno idea della trama, ma è semplice, tranquilli: Daniel è figlio di un libraio, il quale conosce una sorta di bibliotecario che custodisce un'immensa biblioteca di libri "dimenticati" ossia di copie di libri che non appartengono a nessuno. Messo a parte del segreto della biblioteca, anche Daniel bambino può scegliere un libro, che diventerà suo. Sceglie quello scritto da Juliàn, autore di cui nessuno sembra conoscere la storia. A Daniel piace così tanto il romanzo che, al contrario, vuol sapere quanto più possibile sul suo autore, e piano piano nel corso degli anni ci riesce, coinvolgendo nella ricerca sempre più persone che gli danno indizi in più, benché parziali, utili a svelare il mistero. Perché sembra proprio che di mistero, e di segreto custodito a tutti i costi, si tratti. L'ex mendicante Fermìn, raccolto dalla strada da Daniel per esigenze logistiche della libreria di suo padre, e che si rivelerà un vero amico, aiuta Daniel a dipanare la matassa sempre più intricata, finché ad uno ad uno non vengono fuori tutti i personaggi della storia, vivi o morti o di nuovo vivi.
C'è la storia dell'amicizia, quindi, dell'amore adolescenziale mancato ma, chissà, forse mai davvero dimenticato, e c'è la storia dell'amore per la verità, della curiosità.
A parte la bellezza del romanzo, la capacità di Zafòn di scrivere e coinvolgere, eccetera eccetera eccetera, due argomenti hanno attirato in particolare la mia attenzione. No, erano tre. Quanti avevo detto? Tre.

L'amore: attendere per anni l'amore perduto, fermi, in attesa che sia lui a raggiungerci mi pare troppo comodo, ma anche poco conveniente. Vivere per anni in funzione di quell'amore perduto, senza riuscire a provare con nessun altro quella sensazione celestiale, senza poter provare per nessuno qualcosa di più di una profonda amicizia, mi pare già più realistico. Questo succede, e non è stupido, è amore. Ma si può davvero farlo? Non si rischia di buttar via la propria vita dedicandola ad un sogno? Non parlo di castità, badate bene, non lo fa più nessuno, parlo proprio di "buttarsi via" come persona (concezione comune di certo tipo di vita, di certa abnegazione) perché niente ha più importanza, e l'unica cosa che trascina nel sentiero della vita (non l'autostrada, troppo affollata, ma un sentiero riparato e nascosto) è la speranza di ritrovare quella persona, o meglio ancora: la certezza di poter amare per sempre e solo quella persona (ovunque sia finita), di non aver bisogno di cercare oltre, di aver già trovato l'amore.
Anche se la vita come ricerca dell'amore non mi convince, averlo già trovato e pertanto non sentire il bisogno di "vivere" oltre (non necessariamente biologicamente, ma di vivere come persona) mi sembra vero amore. Io però non credo che riuscirei mai a dedicarmi completamente al ricordo di una persona che potrebbe essere ovunque a godersi la vita alla faccia mia, e magari senza nemmeno immaginare che io qui mi struggo d'amore. Come invece ha fatto Nuria.

La conoscenza: su questa ho le idee più chiare, infatti ho sempre pensato di voler sapere tutto chiaramente e crudamente, perché l'idea di essere ingannata, anche solo con una bugia a fin di bene per non farmi soffrire, mi fa soffrire dannatamente. Mi da una sorta di senso d'impotenza e di oppressione. Ma quale grado di potere da, invece, non sapere di non sapere? Juliàn ad esempio non sapeva di non sapere tutto, non sapeva che i suoi amici più cari, che lo amavano tanto da non volere che soffrisse, gli davano lo zuccherino di una versione migliorata della realtà crudele, gli regalavano un mistero meno fitto, una giustificazione più lineare dei fatti. Fatti che erano sempre negativi, cattivi, ma per motivi diversi da quelli che gli raccontavano. Diversi, e quindi più negativi? Sicuri sicuri?
Con che diritto? Mi chiedo io alla luce delle mie convinzioni adolescenziali. Già, perché ora, alla mia età più avanzata rispetto alle mie prime riflessioni sull'argomento, penso che se ogni tanto qualche dispiacere nudo e crudo ci viene risparmiato, soprattutto quelli ai quali non si può metter rimedio, non è poi così male. Ma nascondere una morte, nascondere una cruda realtà non equivale a favorire la codardia di fronte alla vita? Prima o poi si deve crescere. Mi sono aperta infatti alla possibilità di essere "ingannati" a fin di bene, dopo aver letto questo romanzo, ma ad una condizione: che sia un "inganno" a breve termine, una piccola omissione (non una bugia bell'e buona) che faccia slittare fino al momento più opportuno la verità. Ci sono effettivamente dei momenti in cui io urlerei "Noo perché? Anche questo, noo!" e degli altri momenti in cui invece supplicherei "Dimmi qualcosa, anche se è brutto, ti prego, mi sto annoiando a morte". Il piacere di vivere va alimentato anche con le sofferenze, che sono quelle che, e non mi stanco ancora di ripeterlo, a me fanno sentire viva: una vita piatta di novità, belle o brutte che siano, equivarrebbe alla morte.
Una vita piena di sofferenze però, stiamo attenti, è una vita di merda. Ci vuole equilibrio.

La dimenticanza: dicevo che ne parla Nuria, quando dice che viviamo nei ricordi di chi ci ama (ma erano parole di Juliàn), e visto che la sua vita è stata un po' sprecata (da lei stessa, che sembrava aver trovato il suo scopo di vita nel non vivere veramente per se stessa, ma semmai per l'amore), chiede a Daniel di non dimenticarla mai del tutto, in modo che così possa continuare (o iniziare?) a vivere. Ma anche in altri punti del romanzo, e a proposito di altri personaggi, si parla del fatto che, indipendentemente dalle vette che hanno scalato in vita, le persone che non son riuscite a farsi amare, una volta morte o anche solo dopo essere partite, vengono presto dimenticate, come se non fossero mai esistite. A Juliàn invece non succede: è sparito, nessuno sa nulla di lui, Daniel impiega tanti anni a cercare di ricostruire la sua storia, eppure quelle poche persone che l'hanno conosciuto non si sono mai dimenticate di lui. Ed io mi trovo d'accordo: il ricordo è legato al piacere, la rimozione al dispiacere, e la vita continua nel ricordo che lasciamo.

Anche a me, dopo tante città e persone, succede di ricordare meglio solo le persone che hanno lasciato sin da subito una buona impressione, di averle addirittura mitizzate, nonché assillate in molti casi con le notizie di me, dei miei dentini, dei miei primi passi, della mia prima volta senza pannolino per un giorno intero, fino a costringerle ad odiarmi, a non rispondere e a cambiare numero.
Ma è sempre meglio della fine di Jacinta, che nonostante il suo tanto amore incondizionato, viene chiusa in manicomio e poi all'ospizio.

Elle

lunedì 23 luglio 2012

Una relazione privata

"con lui era tutto facile, nessun fraintendimento, nessuna menzogna.."

"all'inizio notavo quanto era bella, poi ho incominciato a vederne i difetti, poi i difetti sono spariti, ed ho inizato ad abituarmi a lei..."

"Era una relazione privata, semplicemente e specificatamente pornografica".



"Lui", "Elle" e basta.
Della loro vita non conosceremo mai nulla, niente sulla loro professione, non sapremo mai neppure i loro nomi.
Tutto pare molto semplice: si incontrano grazie ad un annuncio su di una rivista pornografica, una fantasia erotica che vuole diventare realtà, una storia soltanto di sesso, une liaison pornographique.
Ed invece il sentimento, quello vero, arriva inaspettato a complicare tutto.
Tra loro due si insinua qualche cosa di così subdolo e potente da andare oltre il corpo, e da fare per questo molta paura.
"Una relazione privata" è un diamante grezzo delicato e sensuale, un film pieno di pudore eppure incredibilmente erotico.
Noi non conosceremo mai la natura della fantasia che li ha fatti incontrare, le porte di quella camera d'albergo resteranno per lo spettatore sempre chiuse.
O meglio, si apriranno soltanto quando tutto comincerà a cambiare, quasi a farci capire ciò che loro due non riusciranno mai a dirsi.
Magnificamente interpretato, Nathalie Baye, premiata con la Coppa Volpi a Venezia, e Sergi Lopèz sono a dir poco perfetti,"Una relazione privata" racconta con garbo ed intelligenza una storia forse non così inverosimile.
La paura di un amore forte e non previsto, il timore di lasciarsi andare e di capire tutto dell'altro, anche solo guardandosi.
Il rimpianto delle occasioni perdute.
Alla fine resta appiccicata addosso quella malinconia chiamata "blue", forse per il colore del mare,  per il sale del ricordo che fa bruciare le nostre piccole grandi ferite.

Newmoon

sabato 21 luglio 2012

E' ARRIVATO TOPOLINO !



Il tempo scorre inesorabile, si modifica l’asssetto geopolitico del mondo, l’umanità progredisce grazie a tecnologie sempre più sofisticate, i ritmi della nostra vita si fanno frenetici e urgenti. In questo vortice di cambiamenti in cui veniamo risucchiati quotidianamente, fa bene sapere che certe cose restano immutabili, mantengono intatta la loro magia, non smettono di essere punti di riferimento dei nostri giorni. Questa è la storia di Topolino, che non è solamente un fumetto, ma soprattutto un compagno fedele che ha vinto il logorio del tempo per restarci a fianco. Topolino c’è stato,  c’è e ci sarà. La sua sagoma inconfondibile, il tondo del volto e le simpatiche orecchione a sventola, hanno scandito gli anni della nostra vita, ci hanno sorriso nella culla quando ancora non sapevamo parlare, ci hanno divertiti quando eravamo bambini, ci hanno formato da ragazzi e ci rilassano ancora oggi, da adulti, quando cerchiamo una boccata di freschezza e serenità che ci salvi dal logorante stress.

Per questi motivi L’Orablu, in collaborazione con Insport, ha deciso di onorare l’eroe di tante letture ospitando nei locali della pizzeria, a far data da lunedì 23 luglio ( via Dante 67, Bollate ), la mostra “Quel Topolino di carta e fantasia”, allestita dalla Fondazione Franco Fossati e da WOW Spazio Fumetto.

La mostra, che consiste in venti pannelli stampati dedicati alla “vita” a fumetti del personaggio Topolino, sarà suddivisa in tre distinti blocchi. 

Nel primo, più propriamente storico, vengono raccontate con l’aiuto di numerose immagini le vicissitudini editoriali dal 1930 ad oggi: cambi di editori (Nerbini-Mondadori-Disney), problemi di diritti, passaggio dal formato giornale al libretto che ancora oggi troviamo nelle nostre edicole.


Il secondo blocco mostra i contenuti del giornale nei vari periodi, concentrandosi soprattutto su alcune rubriche “storiche” utili a dare l’idea di come fosse strutturata la rivista 20, 40 o 60 anni fa. Alcuni esempi notevoli sono la rubrica della posta curata da Mike Bongiorno o il glossario di slang “paninaro”.


La terza parte invece si occupa di tutto l’indotto che ha tratto origine dal personaggio. Topolino è una vera icona del XX secolo, e come tale ha generato un vasto merchandising ed è stato “testimonial” di numerose campagne pubblicitarie, soggetto di francobolli e figurine. Inoltre vengono presentate le copertine di giornali di tutto il mondo, tra cui Francia, Germania, Stati Uniti, Cina, Giappone e Brasile.

In definitiva, “Quel Topolino di carta e fantasia “ sarà un’imperdibile occasione di approfondimento per tutti coloro che amano il personaggio di Walt Disney e il fumetto di qualità.


NB: L'ingresso alla mostra è gratuito.

Blackswan, sabato 21/07/2012

venerdì 20 luglio 2012

Gram Parsons - GP



Il rock, si sa, è anche letteratura. C'è la musica, ci sono i dischi e i concerti. Ma ci sono anche le leggende, tramandate di generazione in generazione, i miti di dannazione, la cronaca nera, e storie, a volte vere, altre palesemente inventate, che hanno comunque contribuito ad amplificare le suggestioni attorno alla vita di un artista o di una band. Credo abbiate presente di cosa parlo: Jim Morrison ancora vivo, Kurt Cobain ucciso dalla moglie, Paul McCartney morto nel 1966 in un incidente d'auto, i riti satanici di Plant e Page, l'omicidio di Peter Tosh e quello di Marvin Gaye, le crisi epilettiche di Ian Curtis, l'aereo di Buddy Holly e Ritchie Valens. Di quanti misteri, aneddoti, tragedie e inquietanti pettegolezzi è costellata la storia del rock? Un'infinità, direi, tanto che se vi venisse voglia di fare un salto in libreria, trovereste una più che discreta bibliografia in materia.
Una delle storie che più di altre è capace di accendere la fantasia è quella che riguarda Gram Parsons, chitarrista sublime, musicista rivoluzionario, membro di band storiche come Byrds e Flying Burrito Bros. Gram, detto "faccia d'angelo", per i tratti delicati del viso e l'eterea bellezza, morì a soli 27 anni per un overdose di eroina, non prima di lasciare ai posteri almeno un paio di dischi epocali, capaci di riscrivere la cifra stilistica del roots americano e di aprire il futuro alle avanguardie dell'alt-country. Parsons, chi era costui? Un giovane infelice, soprattutto, che nella musica trovò la propria redenzione e il proprio riscatto da un'esistenza marchiata da miserie morali e affettive. Il padre suicida, la madre alcolizzata, i difficilissimi rapporti con il cinico padrino, furono stigmate di dolore che incisero profondamente l'anima dell'angelo Gram, fino a condurlo in un baratro di dipendenze e stravizi che gli bruciarono la giovinezza e la vita. Morì in un albergo presso il The Joshua Tree, dopo un festino a base di alcol, sesso e droga, in uno di quei deliri orgiastici a cui se sopravvivi hai storie da raccontare agli amici per il resto della vita. Questa è la storia, sono i fatti incontrovertibili.



Da quella notte di settembre in poi nascerà però anche un'incredibile leggenda, i cui dettagli, confusi  e contraddittori, sono il sale di avvenimenti che sembrano usciti dalla penna di un romanziere. Qualche tempo prima, ai funerali dell'amico Clarence White, Gram esprime un desiderio e ne fa partecipe il manager, ed amico fidato, Philip Kaufmann: "Se mi capitasse di morire, non voglio un funerale così. Portatemi al Johsua Tree, ubriacatevi in nome della mia memoria e date fuoco al mio cadavere ". Kauffman promette che lo farà, più per blandire l’amico, che per convinzione. Gram però muore davvero e il suo padrino, assetato di denaro e spinto dal desiderio di sfruttare al meglio la morte del famoso figlioccio, impone che Parsons venga sepolto in Lousiana, dove pensa di fare soldi facili allestendo un mausoleo alla memoria. Kaufmann si ricorda della promessa fatta e decide di mantenerla. Con una serie di espedienti riesce a trafugare il corpo dell'amico e inseguito dalla polizia, a bordo di un finto carro funebre, conduce il feretro dell’amico, non senza difficoltà, fino al deserto di Joshua. Dopo una sbronza notturna epocale, il corpo di Parsons viene dato alle fiamme, rendendo così onore ai desiderata del chitarrista.



Sarà vero? Pare di si, anche se le versioni sulla vicenda sono assai confuse e ben poco esaustive. Resta comunque la suggestione del mito, e una pagina di storia del rock che tratteggia mitizzandolo, il desiderio di immortali tà inseguito da tanti artisti. Parsons ha incarnato nel modo più epico possibile
l'antico brocardo che recita "Chi muore giovane è amato dagli dei". Perfetto per una rockstar, perfetto per chi pensa che la vita vada bruciata subito, prima che la ruggine faccia il suo corso. La musica e la morte vanno spesso a braccetto. L'eternità, la fama imperitura, sono talvolta figlie di un decesso prematuro o cruento. Nel caso di Gram, c'è anche un sogno di libertà, un sogno di capelli al vento, di cavalli sbrigliati nelle praterie del Paradiso. E' il rock che scrive la sua pagina più leggendaria: ceneri che si perdono nella silenziosa notte desertica come le note di un assolo di chitarra improvvisato dal destino. Ci sono musicisti pessimi che hanno trovato gloria in leggende come questa, senza avere avuto un briciolo di caratura artistica (un esempio per tutti è Sid Vicious).



La leggenda di Parsons però vive anche nei suoi dischi, nella sua idea rivoluzionaria di country, nella sua visionaria ed eclettica creatività. "Cosmic American Music", amava definirla. La tradizione musicale del proprio paese resa universale, alla portata di tutti. GP parte dal country, ma ne modifica completamente le coordinate. Non è solo la contaminazione con il rock ed il blues. Parsons ha una visione prematuramente indie, che influenzerà in seguito generazioni di musicisti, dai Wilco a Beck fino a Micah P.Hinson. Gram semplifica, scarnifica, elimina ogni retorica espressiva dalla propria idea di musica, che concepisce su un retroterra espressivo minimalista, e per questo di almeno due decenni all'avanguardia. Il chitarrista riprende i classici della musica rurale (Streets of Baltimore, That's all it took) e scrive ex novo canzoni che lasciano senza fiato, per intensità e ispirazione. Su tutte,  A song for you, dedicata alla madre, la delicata e nostalgica The new soft shoe, e il capolavoro  She, che anticipa di un anno il soliloquio intimista del Jackson Browne in  Late for the sky. Un disco visionario, a tratti dolcissimo (grazie anche alla performance vocale di Emmylou Harris, pigmalione artistico e affettivo del chitarrista), che a distanza di quasi quarantanni riesce ad incantare anche quelli che come me, il country lo masticano poco e lo digeriscono anche meno.

Blackswan

mercoledì 18 luglio 2012

The Slumber Party Massacre



The Slumber Party Massacre
(USA 1982)
Regia: Amy Holden James
Cast: Michelle Michaels, Robin Stille, Michael Vilella, Debra Deliso, Andree Honore, Gina Smika Hunter, Jennifer Meyers, David Millbern, Pamela Roylance
Genere: slasher
Se ti piace guarda anche: Grindhouse - A prova di morte, Scream, Halloween, Patto di sangue

The Slumber Party Massacre non è un film cult e non è un film scult. Troppo poco conosciuto e venerato per rientrare nel circolo dei culti assoluti, sebbene abbia avuto ben tre sequel, e non completamente trash per essere davvero scult. Anche se, tra le due categorie, direi che potrebbe rientrare più nella seconda che nella prima.
Come racconta la leggenda, o anche come racconta il collega blogger Frank Manila (http://frank-manila.blogspot.it/2012/02/slumber-party-massacre-amy-holden-jones.html), la nascita del progetto di questo film è alquanto singolare e merita di essere rinarrata.
Dunque, la sceneggiatrice Rita Mae Brown, da brava femminista, ha scritto il copione come se fosse una parodia dello slasher, sottogenere particolarmente estremo e maschilista dell’horror, genere di per sé già tradizionalmente parecchio maschilista. Un sottogenere che all’epoca stava andando alla grande grazie a film come Halloween (1978) di John Carpenter, Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham, Maniac (1980) di William Lustig e Il giorno di San Valentino (1981) di George Mihalka (quest’ultimo definito da Quentin Tarantino the best slasher movie of all times). La Mae Brown ha così disseminato la sua sceneggiatura con tutta una serie di riferimenti fallo-centrici volti proprio a parodiare il caz… ehm il fallo-centrismo degli horror.
Ci troviamo dunque a una parodia del genere, a una sorta di Scream o di Scary Movie ante-litteram o magari persino a una variante horror de L’aereo più pazzo del mondo, uscito nel 1980?
Niente di tutto questo, perché i produttori, inconsapevoli oppure ignorando i riferimenti parodistici presenti nello script, hanno deciso di realizzare una pellicola seria. Un classico horror slasher che si prende maledettamente sul serio.

Il risultato è quindi stridente. Da una parte c’è una serie di tette, tette, tette, discorsi sul sesso, sangue, docce e ancora tette, tette, tette, pigiama party, massacri e sempre tette, tette, tette. Dall’altra parte, il sottotesto femminista emerge qua e là anche grazie alla regia della donna messa dietro la macchina da presa, Amy Holden Jones, eppure non riesce a essere del tutto uno slasher femminista.
In pratica? È un pasticcio.
Non un pasticciaccio brutto, ma un pasticciaccio con qualche spunto di interesse e qualche motivo (volontario o meno, non lo sapremo mai) di risate.
La prima voce che si sente nel film è un urlo. Sembra di terrore, ma in realtà è una tipa che urla alla radio perché ha appena vinto un premio. La scena è fortemente simbolica, perché anche il resto del film resta tutto in bilico così, tra il sembrare un film de paura tradizionale e l’essere qualcosa di diverso, di più umoristico eppure non proprio.
La costruzione della tensione in alcune scene è notevole e le atmosfere 80s tra John Carpenter e Wes Craven danno quel “non so che” in più che rende gli horror di quel decennio superiori agli altri a prescindere. Anche quelli riusciti solo in parte, persino quelli (in?)volontariamente e clamorosamente non riusciti come questo.


Un film strano, combattuto, diviso tra due tendenze opposte, che si ferma giusto a un passo dall’essere mitico. Pur con tutti i suoi limiti e difetti (la recitazione ad esempio è persino sotto la non altissima soglia di guardia di questo tipo di film), per gli amanti del genere teen-horror The Slumber Party Massacre è comunque un caposaldo da recuperare. Il pubblico principale a cui si rivolge però è un altro: gli appassionati di tette-horror. Se rientrate nella categoria, e se avete letto questo post fino alla fine so che rientrate nella categoria, non perdetevelo!
(voto 6,5/10)

martedì 17 luglio 2012

Metodi di sopravvivenza alla morte

Un ragazzo "riceve" una lettera del padre morto undici anni prima; quando suo padre è morto aveva 4 anni, e da allora ha vissuto senza di lui, con nessun ricordo a parte quelli fittizi delle foto e dei video. La sua vita era continuata.

Un padre, saputo di dover morire presto (per una malattia), scrive una lettera al figlio di 4 anni, un bimbo che spesso gioca davanti a lui mentre lui gli scrive, ma si rivolge al suo figlio futuro, adolescente, anni dopo, quando (spera) il ragazzo troverà la lettera (che lui nasconde). Immagina suo figlio già adolescente, in grado di capire molte cose ma non ancora tutte, inizia con questioni pratiche sul cambiamento del mondo in dieci anni (ad esempio: il vecchio computer del padre, con il file originale della lettera, è un vecchio fisso con ms-dos come sistema operativo), e per arrivare a cosa? Cosa racconta un padre a un figlio?
Gli racconta di sé, proprio come farebbe un padre col figlio, solo che lui non ha avuto questa occasione. Non solo non l'ha visto crescere, ma non gli ha nemmeno raccontato i suoi aneddoti. O meglio: non solo sa che non lo vedrà crescere, ma sa anche che non potrà raccontargli i suoi aneddoti, indirizzarlo e incoraggiarlo e sostenerlo e raccontargli tanti episodi della sua vita prima che lui nascesse. Però può ovviare almeno al secondo inconveniente: con una lettera di una quarantina di pagine.

E così un ragazzo che non ha mai conosciuto suo padre, che considera la sua morte come un elemento fisso della casa alla stregua di un quadro o di un soprammobile, finalmente ne fa la conoscenza, lo sente parlare personalmente con le sue parole di sé, esprimere i propri pensieri e le proprie idee; lo sente parlargli da padre a figlio, o da adulto ad adulto, di argomenti apparentemente poco importanti o poco determinanti per un adolescente, ma in cui lui incredibilmente si riconosce.
E così il ragazzo si riscopre figlio di quell'uomo nelle foto e nei video, ritrova un padre e un rapporto con lui, e somiglianze. E si sente più grande e maturo, all'improvviso, perché risalendo a parte della sua origine, ha ritrovato parte della sua identità.

E così io mi sono ritrovata a riflettere sul fatto che la morte non impedisce di (soprav)vivere ancora nel futuro in qualche modo, ad esempio nel ricordo di chi ci ha conosciuto, o nell'assenza, per chi non ci ha conosciuto, soprattutto se ci vengono dati sei mesi di tempo per scrivere una lettera. Un giorno qualcuno leggerà anche le mie pagine (molte più di una quarantina) e capirà: capirà me e le mie idee, forse i miei pensieri, ed io sarò, per quella persona, finalmente qualcuno. Postuma.

Elle

domenica 15 luglio 2012

BITCH MAGNET - UMBER




Dominare la furia degli elementi, indirizzarla e convogliarla nell'alveo di un progetto, produce sempre notevoli vantaggi per l'umanità. Mi si passi quindi il paragone tra progresso e musica per questo disco dei Bitch Magnet, capolavoro misconosciuto, ma influente come pochi, nel quale la violenza primordiale dell'hardcore trova organizzazione e forma composita in un'opera strutturalmente assai complessa e nel contempo avvincente. 


Se l'idea di partenza è appunto sviluppare i moduli dell'hard core ( odore di Big Black nell'aria ), lo svolgimento del tema implica una sintassi innovativa ed eterogenea, che rielabora espressioni musicali del passato e semina le idee che qualche anno più avanti prenderanno definitivamente forma. L'iniziale " Motor ", ad esempio, ha un incipit rumoristico e disturbante carico di feedback, si sviluppa su coordinate post hard core che saranno care ai Fugazi e si schiude in un'apertura melodica che rielabora le coordinate melodiche pop-core degli Husker Du e dei Pixies. "Navajo ace " è math-rock quadrato e rigoroso, basato su una ritmica dal sapore funky e vagamente controtempo e violentato da furibonde sciabolate chitarristicheche si muove all'interno di una struttura circolare, la cui anima trova radici in un'equazione geometrica. La matematica ritorna nella monumentale " Joan Of Arc ", in cui un vigoroso hard-core è sorretto da un chitarrismo obliquo, distorto e saturo di feed back, che richiama alla mente le cose migliori dei Sonic Youth. "Douglas Leader " e "Americruiser " portano in scena il post core, in una digressione chitarristica dolente e dilatata, elogio alla lentezza che conoscerà il suo apice e la perfezione nell'innarivabile " Spiderland " degli Slint o nelle dilatazioni destrutturate dei Codeine. Con " Punch and Judy ", invece, i Bitch Magnet si spingono ancora più oltre, arrivando a creare il perfetto crocevia  fra pulsioni core, l'avant noise a la Sonic Youth e l'industrial in fase germinale: è genialità allo stato puro, condensata in 2 minuti e 54 secondi in cui si racconta la storia della musica che sarà. L'edizione rimasterizzata del cd contiene anche l'EP " Star Booty " ( precedente ad "Umber" ), abbozzo preparatorio di questo piccolo ma incredibile gioiello della musica rock . 



Blackswan, domenica 15/07/2012

giovedì 12 luglio 2012

L'ODIO



L’odio
(Francia 1995)
Titolo originale: La haine
Regia: Mathieu Kassovitz
Cast: Vincent Cassel, Hubert Koundé, Saïd Taghmaoui, Abdel Ahmed Ghili, Benoît Magimel, Cut Killer, Karin Viard, Vincent Lindon, Mathieu Kassovitz
Genere: hip-pulp
Se ti piace guarda anche: Polisse, Il profeta, Trainspotting, American History X, This Is England

“Ci si sente proprio bene dopo una bella cacata.”

Come si fa a non amare un film come L’odio?
L’allora promettente regista Mathieu Kassovitz, all’opera seconda dopo Meticcio, è riuscito a raccontare le banlieue parigine ribollenti di rabbia come mai prima e come mai dopo. Da un punto di vista sociale, un documento importante, okay. Quello che però è riuscito ancor più a creare è un’opera cinematografica che è puro realismo rifuggendo dalle regole del neorealismo.
Il Kassovitz gioca con il mezzo filmico con grande abilità e grande divertimento, kasso! Un numero di prestigio che poi non gli è mai più riuscito. Fino a qui, tutto bene, si poteva dire di lui ai tempi de L’odio. Dopo, non tanto bene. La (forse) più grande promessa del cinema francese anni ’90 è infatti passato dalle sirene del sound of da police de L’odio a quelle più lusinghiere e ben retribuite di Hollywood, con risultati certo meno esaltanti, si veda il pasticciato horror Gothika.

L’odio resta però un piccolo saggio di bravura registica e un cult assoluto dei 90s. Per quanto risulti un ritratto ancora oggi decisamente attuale e insuperato della vita per le strade meticce della Francia, è infatti una pellicola profondamente e simbolicamente figlia di quel decennio. A partire dalla scelta del bianco e nero, tra π - Il teorema del delirio di Darren “Dio” Aronofsky, Clerks di Kevin Smith e Dead Man di Jim Jarmush una scelta soprattutto allora di gran tendenza, per poi passare al citazionismo (la strepitosa cover del monologo di Taxi Driver in versione Vincent Cassel, la roulette russa come ne Il cacciatore), ai momenti quasi videoclippari, ai dialoghi in pieno stile post-tarantiniano infarciti di riferimenti alla pop-culture, parolacce e storielle grottesche, come quella raccontata dal vecchietto in bagno.


Se penso ai film che possono essere letti come simboli precisi del cinema anni Novanta, non necessariamente i migliori, anche se in parte lo sono, di certo L’odio rientra nel gruppo insieme ai vari Trainspotting, Pulp Fiction, l’horror Scream e l’accoppiata fincheriana Seven/Fight Club. L’odio si differenzia però dai suoi “colleghi”, oltre per la sua francesità, comunque non troppo accentuata, per il ritmo: laddove gli altri film citati ballano su note electro/rock’n’roll, quella di Kassovitz è una pellicola che ondeggia la testa a base di hip-hop.



Non è un caso allora che sia diventata una delle pellicole più amate, oltre che da Puffo Brontolone, dalla comunità hip-hoppara, forse la più idolatrata giusto dopo Scarface, e sia citatissima da parecchi rapper nostrani, dai Club Dogo al Piotta, da Amir a Frankie HI-NRG, per arrivare a Marracash che ha perfino intitolato un suo album Fino a qui tutto bene, proprio in riferimento alla celebre frase iniziale (e finale) del film:

“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: "Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene." Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.”

A ciò va aggiunta la scena in cui il dj Cut Killer remixa il classico della musica francese Non, Je ne regrette rien di Édith Piaf con Sound of da police di KRS One, uno dei momenti hip-hop più belli nella storia del cinema.



L’odio yo non è solo una pellicola molto hip-hop, ma anche è un atto d’amore per il cinema tutto. Una pura gioia per gli occhi, così come pure uno sguardo su un mondo, su un realtà dura, riflessa però con ironia. Reality e fiction che fanno all’amore insieme. Alla faccia dell’odio.
(voto 9/10)


CANNIBAL KID, Giovedì 12/07/2012