giovedì 6 giugno 2013

Un amore che richiede dedizione: il pane/2.

Seconda parte del racconto di Elle sul pane (qui la prima parte)

Viene infornato due volte, la prima per cuocerlo e la seconda per tostarlo, e grazie a questa particolare procedura trattiene l'umidità e mantiene inalterata la propria fragranza anche per diversi mesi, per questo motivo veniva preparato per i pastori transumanti: vi ricordate che pane è? È il pane carasau, bravi. Oggi viene preparato solo di grano duro, e si può mangiare con la nutella per merenda, ma fino ad un centinaio d’anni fa questo era il pane d’uso giornaliero delle famiglie benestanti, mentre le famiglie più modeste lo alternavano al pane d’orzo, che veniva preparato anche dalle famiglie benestanti ma per i domestici, i pastori e i contadini alle loro dipendenze.

Per la preparazione del pane carasau era necessaria la presenza di almeno tre o quattro donne, perciò si chiedeva aiuto alle vicine di casa, a comari o a parenti e c’era l’usanza di regalare un po’ del pane preparato ad ognuna di loro. Gli uomini di solito non partecipavano a questa attività che era considerata tipicamente femminile ma, se erano liberi da impegni, si offrivano per la prima lavorazione della pasta, che richiedeva una notevole forza fisica.



Il pane carasau quindi poteva essere preparato con due farine diverse  e la differenza principale fra i due procedimenti era nella lievitazione: mentre il lievito per il pane bianco veniva sempre chiesto in prestito, infatti, quello per il pane d'orzo veniva preparato qualche giorno prima con un procedimento particolare che doveva facilitare la successiva lievitazione del pane, molto più difficile e lenta: la maggior parte del lavoro di panificazione consisteva nel tenere sotto controllo la lievitazione dei pani, e anche la cottura era più lenta, a causa della consistenza che la farina d'orzo dava all'impasto. I preparativi per il pane di grano cominciavano la sera, in modo da iniziare la cottura la mattina seguente. Tradizionalmente si iniziava con la preparazione del lievito, ottenuto da un pezzo di pasta chiesto in prestito a una vicina di casa o a una parente che aveva appena panificato, e che veniva lasciato inacidire. L'origine di questo prestito era considerata sacra: la legenda narra che le janas, piccolissime fate che abitavano in buchi scavati nelle rocce, da cui uscivano solo di notte, osservassero da lassù la vita delle donne comuni ed invidiassero la bellezza del loro pane; infatti, pur essendo le janas specializzate in qualsiasi lavoro domestico, che accompagnavano con canti melodiosi, il loro pane non lievitava, perciò un giorno scesero dalle loro case per chiedere un po’ di pasta alle donne comuni, nella speranza di scoprire il segreto del loro pane; con la pasta prestata anche le janas riuscirono a produrre dei pani buoni e da quel giorno ogni volta che dovevano fare il pane si facevano prestare un po’ di pasta da aggiungere al loro impasto: le janas furono le prime a chiedere in prestito un po’ di pasta, e il lievito era considerato un bene prezioso da conservare e da prestare.


Le famose domus de janas. Delle janas invece non abbiamo foto, nemmeno col flash.

La pasta presa in prestito veniva mescolata con un po’ d'acqua tiepida salata, impastata e lasciata fermentare per tutta la notte, avvolta in coperte calde dentro un canestro di asfodelo; man mano che inacidiva la pasta si gonfiava, e al momento di preparare l'impasto veniva sciolta in acqua tiepida salata, poi veniva aggiunta alla farina. All’impasto veniva sempre aggiunta anche la semola, perché lo rendeva più elastico, cioè più facile da stendere, durante la prima cottura si gonfiava meglio ed era più facile dividere le due sfoglie senza danneggiare la forma del pane, poi una volta tostato, non era così fragile da sbriciolarsi quasi completamente come il pane di sola farina.Non solo la preparazione del lievito, ma anche la stesura della pasta richiedeva meno tempo rispetto alla pasta di farina d’orzo: una volta formate le palle, la pasta di semola poteva essere stesa con il mattarello in sfoglie sottili pochi millimetri e con un diametro di circa 40 centimetri. Anche la cottura avveniva in pochi minuti ed era possibile introdurre nel forno anche due pani per volta, ma in ogni caso l'infornatrice doveva essere una delle donne più esperte perché una volta infornato anche il pane di grano doveva essere tenuto sotto controllo.
Per il pane d'orzo la procedura di base era simile a quella del pane di grano ma con alcune attenzioni in più, perciò era necessaria la presenza di almeno quattro donne oltre all'infornatrice, e il processo era talmente lungo e travagliato che esisteva un modo di dire, un'espressione usata come malaugurio scherzoso: che ti facciano come all’orzo!
Il lievito per il pane carasau d'orzo non si chiedeva in prestito, ma veniva preparato il giorno prima della panificazione: la farina più grossa veniva lavorata non molto a lungo con acqua tiepida salata, fino ad ottenere un grosso pane morbido e nero; questo pane veniva cotto per quasi due ore, in base alla sua grossezza, solitamente nel forno di una vicina che quel giorno stava panificando; una volta cotto veniva avvolto in un panno di orbace (un tessuto di lana grezza lavorato a mano e utilizzato anche per il pane, perché molto più adatto a mantenere il calore rispetto ai teli di cotone o di lino), e lasciato riposare per un giorno e una notte, e costituiva il lievito per il pane carasau d'orzo.
La sera del giorno dopo (e i tempi non erano mai casuali) si scioglieva questo lievito in acqua tiepida e salata dentro un recipiente di rame, finché diventava una pasta morbidissima, quasi liquida; a questo punto poteva essere mischiato alla farina nella preparazione dell'impasto. Le donne addette a questa fase disponevano tutt'attorno alla madia dei teli di sacco sui quali si inginocchiavano per impastare ma, prima di toccare la farina e il lievito, si facevano il segno della croce. Siccome una panificazione mal riuscita costituiva un danno molto grave, sopratutto per le famiglie più povere, anche le persone che entravano nella casa durante la panificazione si facevano il segno della croce; si credeva poi che alcune portassero sfortuna pur senza volerlo, in questo caso il pericolo era scongiurato se entrando saltavano il sale grosso posto davanti alla porta di casa, oppure se appena entrate o comunque prima d'andar via toccavano il pane o l'impasto.
Dopo queste precauzioni, si iniziava una prima lavorazione all'interno della madia, una sorta di tavolo molto basso ma dotato di sponde alte circa venti centimetri, in cui venivano messi la farina d'orzo, il lievito e all’occorrenza acqua tiepida sempre salata; due o tre donne lavoravano inginocchiate attorno alla madia, ed era questa la fase a cui, anche se molto raramente, partecipavano gli uomini che, più forti, riuscivano a rendere l'impasto elastico e liscio in modo omogeneo; terminata la lavorazione, l'impasto veniva lasciato a lievitare in un recipiente di sughero per almeno sei ore.
La panificazione vera e propria iniziava verso le tre del mattino e per prima cosa veniva pulito e acceso il forno, contemporaneamente l'impasto veniva messo di nuovo nella madia dentro la quale, dopo il solito segno di croce, veniva lavorato ancora un po’ fino a togliere il gonfiore provocato dalla lievitazione, interrompendola. Quando le donne finivano di impastare ed erano pronte per stendere, la meno esperta del gruppo iniziava a creare delle porzioni di circa sette centimetri di diametro. In realtà, se di solito non si lavoravano meno di 50 chili di farina, poteva capitare di dover fare molto più pane, e in questi casi si iniziava a preparare le porzioni prima che fosse impastata tutta la farina, le palle venivano quindi avvolte con i panni di orbace e lasciate in un canestro.


La pasta di farina d'orzo era troppo morbida per poterla stendere con i mattarelli, perciò la stesura veniva eseguita completamente a mano. Anticamente non si utilizzava nemmeno il tavolo: sul pavimento venivano disposti i teli di sacco su cui sedevano le donne a gambe incrociate, ognuna aveva davanti a sé una tavoletta tonda di legno del diametro del pane da ottenere, sulla quale stendeva le palline di pasta schiacciandole con la mano. Le donne addette alla stesura del pane d'orzo non erano mai meno di tre, e sedute vicine fra loro si passavano la formella a partire da quella meno esperta (se vi capita di vedere dei video su internet noterete che c’è sempre una ragazza dalle movenze un po’ imbranate, beh, fa parte anche lei del ciclo produttivo del pane): questa schiacciava la pallina fino ad ottenere una piccola spianata di dieci centimetri di diametro, poi sollevava la sua tavoletta e lasciava scivolare la pasta sulla tavoletta della vicina che la lavorava ancora, fino a circa venti centimetri di diametro, prima di passarla a sua volta alla vicina che la lavorava per allargarla ancora un po’, e così di seguito fino alla completa stesura della pasta; era importante che di quest'ultima fase si occupasse la persona con più esperienza perché la sfoglia doveva essere non solo sottilissima, ma anche il più uniforme possibile, in modo che durante la cottura si gonfiasse in maniera omogenea; solitamente quindi questo compito era affidato alla stessa infornatrice, che con gesti veloci e precisi delle sole mani sapeva ottenere una sfoglia perfetta, di circa quaranta centimetri di diametro (ma questo varia ancora oggi da paese a paese), e naturalmente un po’ meno sottile di quella che poteva ricavarsi da un impasto di grano duro lavorato col mattarello.
Dopo aver sistemato i bordi della sfoglia, questa veniva fatta scivolare sulla tavoletta della donna che aveva il compito di riporre i pani pronti: poiché la consistenza del pane d'orzo impediva di maneggiarlo senza romperlo, ogni operazione di spostamento veniva svolta con le pale e le tavolette infarinate, lasciando scivolare la pasta dall'una all'altra con gesti esperti. I pani stesi venivano messi su una tavola anch'essa di legno, delle dimensioni della tavoletta ma di forma più squadrata, sulla quale veniva sistemato un lembo del panno di orbace, una tela rettangolare lunga alcuni metri e larga poco più della sfoglia di pane carasau: una volta poggiato il primo pane sul panno, questo veniva ripiegato a coprire il pane, sopra il panno ripiegato veniva messa un'altra sfoglia e anche questa veniva coperta col panno, e là sopra un'altra sfoglia, fino a tutta la lunghezza del panno, che solitamente bastava ad avvolgere una decina di pani messi uno sull'altro; il pane veniva lasciato al caldo della lana per circa due ore per finire la lievitazione già iniziata la sera precedente, e ogni pila, che era formata da non più di venti pani, veniva numerata man mano che veniva preparata perché l'infornata doveva seguire l'ordine di lievitazione.

Solo il pane di grano veniva steso col mattarello, quello d’orzo invece veniva lavorato completamente a mano.
Durante la preparazione del pane una donna si dedicava solo al forno. Il forno sardo tradizionale era in genere di mattoni, a cupola con la base quadrata, era posto all'interno della cucina o del camino, l'apertura si trovava a meno di mezzo metro dal livello del pavimento, perciò l'infornatrice stava sempre seduta, su uno sgabello o sul pavimento; il fumo dei forni più antichi spesso non aveva altro sfogo che le fessure dell'incannicciatura che costituiva il soffitto della cucina. Come ho già detto, per il pane carasau d'orzo il forno veniva acceso quando si iniziava a impastare la seconda volta, in modo da riscaldare l'ambiente e favorire la lievitazione; allo scopo venivano utilizzati tronchi grossi aggiunti man mano fino a poco prima della cottura, quando venivano lasciati bruciare completamente, la brace rimasta veniva spostata sulla sinistra del forno, mentre quella in eccesso veniva donata ai poveri che passavano nelle case in cui si panificava per chiederne un po’. La parte destra del forno invece veniva ripulita dalla cenere con una scopa fatta di erbe aromatiche, di solito malva, lentisco o sambuco, e nel frattempo si continuava ad aggiungere legna, ma più piccola: il pavimento del forno, infatti, a quel punto era già caldo, ma per cuocere il pane carasau era necessario che la fiamma fosse sempre viva perché era il calore diretto che permetteva al pane di gonfiarsi in due sfoglie sottili; perciò l'infornatrice aveva accanto a sé una catasta di tronchi più piccoli e all'incirca ogni due infornate aggiungeva un tronchetto affinché la fiamma rimanesse sempre viva.
Quando le donne stavano per terminare la messa in forma di tutti i pani, e si avvicinava il momento di infornare, veniva fatta una prova di cottura: un pane veniva messo nel forno e se si gonfiava in due sfoglie di spessore diverso significava che la lievitazione non era conclusa; per agevolarla veniva allora riscaldato un panno di lana e due donne vi trasferivano molto velocemente tutti i pani delle prime due pile, mentre quelle restanti venivano semplicemente avvicinate al forno. Dopo una seconda prova, se il pane risultava ben lievitato si iniziavano le infornate, partendo dalla pila di pani preparata per prima e seguendo la numerazione. Era chiaramente un lavoraccio, ma a quei tempi certe procedure non venivano considerate perdite di tempo, facevano parte della vita delle persone e compito di ognuna era imparare il prima possibile ogni passaggio e ogni trucco.



I pani lievitati e pronti da cuocere venivano maneggiati solo dall'infornatrice, l'unica capace di sollevarli dal loro panno, con le due mani delicatamente, e di metterli sulla sua pala senza romperli; li infornava uno alla volta, sistemandoli in fondo al forno con una pala di legno, delle dimensioni del pane e dotata di un lungo manico che permetteva di infornare il pane e di spostarlo all'interno senza avvicinarsi troppo alla bocca del forno. La cottura del pane carasau era abbastanza veloce, dopo pochi minuti iniziava a gonfiarsi in tante bolle, e l'infornatrice doveva allora intervenire con un'altra pala, in ferro, di forma un po’ ovale e di diametro più piccolo, che infilava sotto il pane per rivoltarlo, in modo che cuocesse anche dall'altro lato; a questo punto se la fiamma era buona il pane gonfiava completamente e in modo uniforme e l'infornatrice doveva essere pronta ad infilarvi sotto la pala per tirarlo fuori; nel caso del pane d'orzo poteva succedere che nonostante la fiamma buona il pane non gonfiasse uniformemente, perciò l'infornatrice interveniva di nuovo con la pala, appoggiandola leggermente sul pane in modo da favorire la diffusione del vapore caldo e quindi un rigonfiamento omogeneo; se il pane non gonfiava bene, infatti, era molto difficile dividere le due sfoglie senza romperle. Normalmente i pani d’orzo venivano infornati uno alla volta, ma se l'infornatrice era dotata della destrezza necessaria potevano essere cotti due pani contemporaneamente (ma non di più). 



Man mano che i pani venivano tolti dal forno ancora gonfi, una donna li divideva in due sfoglie seguendo il confine fra i due rigonfiamenti: questa operazione veniva svolta su un tavolino apposito, tondo e grande quanto il pane, dove si trovavano tutti gli strumenti necessari; prima puliva il pane dalla cenere o da pezzetti di brace con una spazzola piatta e molto morbida, poi con la punta di un coltello lo apriva lungo i margini fino ad ottenere due dischi di egual misura; se il rigonfiamento era uniforme quest'operazione era abbastanza facile e veloce. A questo punto il pane d'orzo richiedeva un lavoro che non era necessario per il pane di grano, quest'ultimo infatti appena diviso in due sfoglie veniva messo da parte in attesa della tostatura, ma poiché il pane d'orzo veniva steso in dischi meno sottili rispetto a quello di grano, conteneva all'interno un leggero strato di mollica che veniva eliminato velocemente con le mani, e raccolto in un canestro, perché questa mollica veniva sempre riutilizzata; dopo una panificazione di 50 chili di farina, la mollica tolta dall'interno dei pani era tanta, veniva setacciata da eventuali briciole, impastata con un po’ di acqua salata e stesa in dischi leggermente più piccoli e più spessi del pane carasau; una volta cotto e diviso in due parti, anche questo pane conteneva un po’ di mollica ma questa veniva rimpastata e cotta solo nei periodi di maggior povertà e carestia, modellata in forma di piccoli rombi, e fritta per darle più sapore, altrimenti costituiva il cibo per gli animali.



Il pane appena diviso, sia quello d'orzo sia quello di grano, risultava all'interno sempre poroso, per questo motivo non veniva tostato subito, ma si aspettavaqualche ora che raffreddasse: la parte interna si distendeva e dopo la tostatura appariva meno ruvida; un po’ di questo pane poi non veniva tostato ma mangiatoin giornata, era un pane morbido che si conservava bene solo qualche giorno e in piccole quantità, poi muffiva. Tutto il pane cotto e da tostare, invece, veniva rimesso sulla tavoletta squadrata, in pile anche di sessanta pezzi ma senza ilpanno di orbace tra un pane e l’altro, perché pur essendo ancora molto morbido non c'era più il rischio che si attaccasse, perciò veniva solo coperto con un telo per proteggerlo dalla polvere. Alla fine di tutte le infornate, e mentre il pane raffreddava, le donne si concedevano finalmente una pausa, sia per rigovernare la cucina e pulire il forno, sia per mangiare qualcosa.





La tostatura del pane era meno complicata della cottura: per carasare, i pani potevano essere infornati anche fino a cinque pezzi per volta, perché il pane già cotto era più facile da gestire, inoltre si potevano infornare più pani leggermente sovrapposti, perché ormai non c'era più il rischio che si attaccassero l'uno all'altro. Appena un pane iniziava a dorare, l'infornatrice vi infilava sotto la pala e con gesti esperti lo faceva roteare per rivolgere il lato meno dorato verso la fiamma sempre viva; quando il primo pane era tostato, con la pala sollevava il secondo, lo avvicinava alla fiamma, e lo metteva sul pane già cotto interrompendone la cottura, e così via con tutti i pani: la tostatura era molto più veloce, perciò in pochi minuti i pani erano già tutti uno sull'altro, venivano tolti dal forno tutti assieme, e consegnati ad un'altra donna; questa li sistemava ancora una volta sulla tavoletta squadrata, con la parte meno liscia rivolta verso l'alto. Man mano che i pani venivano tostati venivano aggiunti alla pila che subito veniva coperta con una tavoletta la quale, col suo peso, impediva il passaggio dell'aria tra un pane e l'altro, e questo li manteneva croccanti; quando la pila di pani raggiungeva i cinquanta pezzi, l'ultimo pane veniva messo con la parte meno liscia rivolta verso il basso, come a chiudere la pila, questa veniva avvolta in un telo, e sopra il telo si metteva definitivamente la tavoletta: questo peso sulla pila avvolta è il metodo di conservazione del pane carasau, che in questo modo si conserva anche per due o tre mesi senza ammorbidirsi e senza perdere il suo sapore particolare.

Il lungo e travagliato procedimento di produzione del pane d’orzo cadde in disuso rapidamente non appena le condizioni economiche mutarono, nel secondo dopoguerra (tutte le foto che ho trovato su internet, infatti, mostrano la panificazione con farina di grano); ancora oggi però, ci sono famiglie barbaricine che, almeno due volte all’anno, si concedono il piacere del pane carasau fatto in casa, e in molte case della Barbagia, e più in generale delle regioni interne della Sardegna, ancora è presente nei locali adibiti a cantina o a soffitta il tradizionale forno a legna, a cupola, ancora funzionante.

Elle

Bibliografia: la stessa de Il primo amore non si scorda mai: il pane/1. Invece per i dettagli della produzione domestica di pane carasau d'orzo in Barbagia, così come avveniva fino ai primi anni Cinquanta del XX secolo, mi sono rifatta ai racconti di famiglia.
 


2 commenti:

Alligatore ha detto...

Che Storia dietro ad un pane... e che belle immagini (l'ultima sembra da un film di Pasolini).

Elle ha detto...

A me piace di più la penultima.. ma solo perché non sono esperta di cinema ;)