Gioann Brera fu Carlo è stato e
rimane, il più grande giornalista sportivo italiano; Fausto Coppi
era “il Campionissimo”: cosa può nascere da un incontro di due
numeri uno? Una storia di altri tempi, in bianco nero e seppia, di
prepotenti ascese e di violente cadute; con la guerra a fare da
sfondo; una favola bella ma senza lieto fine. Una “autobiografia
impropria”, scritta da Brera raccogliendo le testimonianze dalla
viva voce di Coppi.
Si parte da Castellania, il paesino in
provincia di Alessandria dove il Campionissimo nacque nel settembre
del 1919: le sue origini, la sua famiglia, sono gli elementi
indispensabili per capire tante cose di quest’uomo, nato per stare
in bicicletta, con quel torace enorme, fatto per ospitare un cuore e
due polmoni fuori del comune.
L’origine contadina accomunava questi
due straordinari, due “principi della zolla”, come diceva Brera,
impareggiabile creatore di definizioni (onomatopeicamente splendido
il suo “rombo di tuono”, coniato per Gigi Riva). Forse per questo
motivo quel piemontese timido, dal profilo (e le fragili ossa) da
airone decise di aprirsi e raccontare “al Gioann” la sua vita.
Diario di un ciclista, dei suoi esordi,
delle gare, delle squadre, dei gregari, degli avversari ma anche e,
soprattutto, direi, vita di un uomo che diventa il Campionissimo.
Famoso, ricco, ma sempre fragile, insicuro, di quelle insicurezze di
chi, in realtà, non si trova mai, veramente a suo agio. La sua
voglia di riscatto (ma da che? Dall’essere nato contadino?!!)
espressa nello sfoggio di opulenza fatta ai tempi della sua storia
con Giulia Occhini (la tanto vituperata Dama Bianca); il suo essere
avversario per tutti (Koblet, Bobet, van Loy e quanti altri) ma
comunque, sempre invidiato; fino alla perenne contrapposizione a
Bartali, l’uomo probo, il buon cattolico, monogamo, per bene.Coppi, nella sua semplicità, elegante,
amante delle cose belle: avulso dallo stereotipo del ciclista un po’
sempliciotto che “sono contento che sono arivato uno, ringrasio il
mio papa e la mia mama”, no, Coppi era uno che pedalava “per la
micca e per il caviale”: era il Campionissimo, lui.
La lettura scorre come sulle strade di
una Roubaix, tortuosa, sul pavé infangato dei contenuti ma sempre
liscia e pulita come il legno di un velodromo per quanto concerne la
scrittura e la narrazione. Si sta li, a bocca semi aperta, quando c’è
una caduta, un infortunio e si sorride, ci si rilassa quando si
arriva vincitori, a braccia alzate sul traguardo. Fino all’ultima
volata, la più brutta, quella persa, con la malaria che ha vinto sul
Campione, uccidendolo a quarant’anni.
4 commenti:
A proposito... buon giro d'Italia a tutti!
ll post voleva proprio rappresentare questo augurio: Che sia davvero un bel Giro !!!
Sono affascinato dallo sport, che è uno dei pochi in cui vedo splendere la parola sacrificio. Poi, mi viene da pensare che questi sono quasi tutti dei tossici all'ultimo stadio.E nemmeno si salva il ciclismo amatoriale, che forse è messo peggio di quello professionista.Resta comunque l'aurea e la leggenda.
Ecco. Io non voglio pensare a storie come quella di Armstrong (l'ultima, la piú clamorosa, alla fine della quale ho brindato stappando una bottiglia di Ferrari......;-) ma piuttosto a quelle più piccole, agli enfant du pays, agli eroi di una tappa: quelli per cui quella vittoria ripaga i sacrifici di una vita.
Ho tantissime immagini negli occhi, dal gruppone che passava rapido dalle parti di casa mia e con gli amici a cercare la Maglia rosa che invece era ben protetta nella pancia del gruppo...a quel ragazzino un po'pelato dalle orecchie a sventola che dopo una défaillance di capitan Chiappucci ebbe il permesso dal ds della Carrera di andare all'attacco: lo chiamavano Elefantino ma si trasformò ben presto in un Pirata...
Ma anche la scivolata, la botta e poi il silenzio di Fabio Casartelli in quel caldo pomeriggio di luglio alla Grande Boucle.
Sarò una nostalgica, vecchia romantica Black, ma per me il Ciclismo è ancora sentimento e fatica, al di lá di tutto.
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