venerdì 19 aprile 2013

Ogni fiume o a delta o a estuario sfocia in un’interpretazione.

Quando studiavo all’università, avevo messo a punto un delicato e geniale metodo per spendere soldi in libri. Poco male, verrebbe da dire, i libri son cultura, son soldi spesi bene. Se se ne hanno in quantità dimostrabili, sì. Il mio metodo aveva dalla sua una semplicità che non era visibile a occhio nudo, perché sottostava a complicati calcoli inutili, infatti a me bastava leggere il programma per innamorarmi di un corso e decidere di comprare subito tutti i libri in bibliografia, dopo aver opportunamente calcolato se in quei giorni a quell’ora avrei potuto frequentare le lezioni, e se fosse possibile scegliere orari solo pomeridiani, salvo scoprire che quel corso era assolutamente incompatibile col mio piano di studi, per meri motivi burocratici, o che quell’esame avrei potuto darlo non prima del terzo anno, tanto valeva aspettare il terzo anno e la pubblicazione del nuovo programma del corso, con conseguente nuova bibliografia. E così ben presto mi ritrovai con un bel po’ di testi interessantissimi, complice non tanto l’Amore per i libri, personcina volubile, quanto il Senso del Dovere, compagno di bevute da sempre, che mi porta ancora oggi a prevenire anziché aspettare conferma, e conseguentemente a fare acquisti non necessari di interessantissimi testi che però finora non avevo mai letto, scippata del tempo necessario sempre da qualcosa di più importante a cui dedicare la mente. In altri casi mi son trovata invece a depennare un insegnamento dal mio piano di studi ad un passo dal dare l’esame, perché purtroppo il docente di cui seguivo il corso, programma allettante a parte, era risultato essere quanto di più fossilizzato e noioso il sottobosco universitario potesse offrire, impossibile anche solo pensare di preparare un esame con lui, anzi per lui, perché è questo che distingue un docente in cattedra da uno in gamba,  cosa che però si può scoprire solo seguendo le lezioni, comprando il libro, leggendolo, e notando che quelle lezioni un po’ fredde, sì, e impostate, è vero, non sono altro che il riassuntino liceale, con le stesse parole, ma in numero inferiore, dei capitoli del libro, peraltro l’unico in bibliografia, ovvero: 25 euro di libro, per non parlare della tassa universitaria, per farmi fare i riassuntini dalla docente, una tipa laureata in Lettere, e pertanto convinta del fatto che noi studenti universitari, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per il sistema scolastico scadente che ci fa arrivare impreparati all’università, non siamo in grado di riassumerci un libro da soli, cosa peraltro inutile ai fini dell’apprendimento. Il programma allettante offriva anche la possibilità di costruire il proprio esame scegliendo un testo per ogni genere da una lista di romanzi, racconti, novelle e poesie della letteratura tedesca, di per sé ingovernabile, per quanto riguarda il gusto macabro per le periodizzazioni, le quali a loro volta, per quanto riguarda il mio gusto, sono il motivo per cui a me in fondo la letteratura da studiare non andava molto a genio, preferivo leggere romanzi, racconti, novelle, e poesie per il piacere di leggerle e non per quello di riuscire ad etichettarle, ma così funzionano gli studi, e se uno vuole laurearsi, deve accettare le etichette, io infatti non mi sono laureata, ma ho con me un bel bagaglio di libri. Perciò, dopo anni da questo episodio, mi sono ritrovata in casa un libro di Heinrich von Kleist, del quale so solo che, se lo comprai, fu perché in qualche modo mi aveva affascinata più di altri presenti nella lista, spingendomi a sceglierlo per il mio esame, che mai diedi. Nel libro di Kleist in mio possesso sono contenuti due racconti, La marchesa di O… e Michael Kohlhaas. Ora, io dei sue protagonisti, la marchesa e Kohlhaas, non so chi sia il più sfigato, ciò che so è che, se si vuole leggere sul treno mentre si va e si torna dal lavoro, questo non è il libro adatto, perché non c’è un punto in cui tenere il segno, allo stesso tempo credo che se l’avessi letto a casa nel mio giorno di riposo, forse non avrei fatto caso alla sua caratteristica più importante: è scritto tutto d’un fiato, con pochi accapo, punti sì, ma senza esagerare, virgole e punti e virgole a iosa, nessuna divisione interna in paragrafi, nemmeno un capoverso che sia uno, naturalmente nessun discorso diretto a meno che non sia mescolato all’indiretto, ossia: il discorso inizia coi due punti, a volte seguiti da virgolette, ma è riportato alla terza persona come discorso indiretto, almeno nel Michael Kohlhaas, perché ne La marchesa di O… nemmeno questo, insomma nemmeno aperte virgolette, via una frase dopo l’altra a botta e risposta dove è lecito supporre chi abbia detto cosa, come anche sbagliarsi e dover rileggere d’accapo, perché neanche la punteggiatura classica, punto pausa forte, virgola pausa debole, viene in aiuto, punto dove capita, virgola se va bene, punto all’interno della stessa voce, virgola a separare domanda della madre e risposta della figlia, quasi fosse un tentativo maldestro di stenografare in tempo reale un dialogo, nonostante la situazione sia così straordinaria che mi è lecito dubitarne. Io giuro, poiché ciò nonostante c’è bisogno di una dichiarazione, che la mia coscienza è pura come quella dei miei figli; la vostra, onoratissima madre, non può essere più pura. Tuttavia vi prego di lasciarmi chiamare una levatrice, perché io mi convinca di ciò che è e poi mi tranquillizzi, indipendentemente da che cosa sia. Una levatrice! esclamò la signora di G… avvilita. Una coscienza pura e una levatrice! e la voce le mancò. Una levatrice, madre carissima, ripeté la marchesa, inginocchiandosi davanti a lei, e in questo stesso istante, altrimenti diventerò pazza. Oh, molto volentieri, ripeté la moglie del comandante; solo ti prego di non partorire in casa mia. E con questo si alzò e fece per lasciare la stanza. […] Non abbandonatemi in questo momento terribile! Che cosa ti inquieta? chiese la madre. Non è nient’altro che il verdetto del medico? Nient’altro che una sensazione interiore? Nient’altro, madre mia, replicò la marchesa, e si portò la mano al petto. Niente, Giulietta? continuò la madre. Rifletti. E noi che leggiamo riflettiamo concentrati, almeno per capire chi è la stessa persona di chi, cioè abbiamo la marchesa, la signora di G, Giulietta, la moglie del comandate, la madre e la figlia, che in totale fanno due persone che parlano dello stato interessante della figlia, che è davvero interessante perché lei stessa non saprebbe dire come sia rimasta incinta, eppure di figli ne ha già due, dovrebbe sapere come si fanno i bambini, anzi è proprio perché lo sa, che crede di diventare pazza, la mamma non è che le creda molto, ma è così, intanto discutono e poi fanno pace e oltre a costruzioni classiche delle frasi ce ne sono altre che, per forma e significato, sono ancora attuali, anche se il materiale che le compone è d’epoca: la marchesa cercava di consolarla con implorazioni e carezze senza fine: ma giunse la sera e batté mezzanotte prima che le riuscisse, da cui si può notare anche l’uso dei due punti dove una virgola andava bene, e da cui si immagina che non sia il caso di ripetere all’infinito i loro botta e risposta, passiamo al giorno dopo. Nell’insieme infatti, questo stile senza sosta apparente, è la quintessenza del riassunto veloce ma esaustivo, che fa passare i giorni e le notti, snocciolando uno dopo l’altro gli avvenimenti senza perdersi in chiacchiere o, se sì, senza perdersi in due punti aperte virgolette. Altre espressioni, altrettanto esaustive, colgono di sorpresa, perché non sembra un racconto che possa contenere un po’ di poesia, nonostante non arrivi mai ai livelli di un giuramento davanti al giudice, per questo, il loro cuore batteva talmente forte che se il fruscio del giorno avesse taciuto, lo si sarebbe sentito, giunge inaspettato nel bel mezzo di un resoconto. La storia ha di bello, a parte questo, che quando finisce lascia aperta la via non al finale, perché quello c’è, ma all’interpretazione che, se non avessi letto quella bastarda di prefazione, io non so se avrei condiviso perché credo che a me sarebbe sembrato altro, o forse senza suggerimento, semplicemente sarei stata più attenta. Per evitare di ripetere l’errore, non ho letto la postfazione relativa al secondo racconto prima di leggere il secondo racconto, quello che parla di un certo Kohlhaas e delle sue disavventure che, devo dire, una dopo l’altra ad un certo punto cominciavano a sembrare troppe anche a me, che verso Kohlhaas ero ben disposta, certo un po’ se le andava a cercare ottusamente, un altro po’ si aggiungevano quasi a voler dire che ad esagerare poi si paga e agli occhi di tutti si diventa cattivi, ma così sfioro l’interpretazione scolastica e moralista che avrebbe fatto la docente liceale laureata, quindi passo oltre perché gli spunti interessanti non mancano, e non si tratta della mancanza di “colori allusivi e simbolici […] tipici della prosa romantica tedesca” come dice nelle prime righe la postfazione, quella che sono riuscita a trattenermi dal leggere giusto in tempo, ma è semmai il carattere buono e buonista del protagonista ad attirare l’attenzione, dell’aspetto buono del suo carattere ci viene detto chiaramente, l’aspetto buonista lo supponiamo noi perché si parla di scandali e ingiustizie per cose che potrebbero sembrare da poco, eppure anche al mercante di cavalli Kohlhaas può salire il sangue alla testa, e gliene fai una e gliene fai due, e gli ammazzi i cavalli e gli ammazzi la moglie, alla fine al mercante il cuore batteva contro la giubba. Aveva voglia di gettare lo spregevole trippone nel fango e di premere il piede sulla sua faccia di bronzo. Ma il suo senso della giustizia, che assomigliava al bilancino di un orefice, esitava ancora; e sbuffare è facile, fallo, dagli almeno un pugno, verrebbe da urlargli, ma niente, finché il gran giorno arriva, quello in cui Kohlhass, il mercante di cavalli, riscatta tutti gli sfigati che nella vita hanno avuto a che fare con colleghi coglioni, che chiamarli colleghi è un’offesa al mondo del lavoro onesto, infatti entrando nella sala Kohlhaas prese per il petto un nobiluomo, che gli andava incontro e lo scaraventò in un angolo della sala così che battendo contro la pietra il cervello ne schizzò fuori. Come se non bastassero la carenza di punti fermi, l’assenza di accapo e di paragrafetti, ecco che anche la sintassi ci giura che la vita non aspetta e non è semplice, il principe elettore, che a quelle parole il nobiluomo aveva guardato sgomento, si volse arrossendo in tutto il volto e andò alla finestra, dove le parole che provocano sgomento nel nobiluomo sono del principe elettore, al quale si rivolge appunto lo sguardo sgomento del nobiluomo, non lo stesso che prima è stato scaraventato a terra, perché con il cervello di fuori non avrebbe potuto indirizzare uno sguardo sgomento a chicchessia, è chiaro. Da un certo punto in poi si discute appunto di questa violenza inaudita, e dell’opportunità di lasciar circolare Kohlhaas liberamente, e a tal proposito giunge una risposta governativa del seguente tenore: “la sua richiesta di lasciapassare per Kohlhassenbrück sarebbe stata sottoposta al serenissimo Principe Elettore; non appena giungesse la di lui altissima autorizzazione, gli verrebbero inviati i lasciapassare”, dove il contenuto indiretto è presentato formalmente come diretto, tramite i due punti aperte virgolette che ogni tanto, in questo secondo racconto, fanno capolino, cosicché appena ci si abitua a questa forma, la lettura prosegue liscia e senza pause, come previsto dall’assenza di accapo. La presa di distanza verbale all’interno del discorso riportato, nonché la stessa forma del discorso riportato sono segnali che ci insinuano il dubbio che si tratti di una storia che l’autore semplicemente riporta così come l’ha sentita, come quando gli spedì un uomo con una lettera del seguente tenore, scritta in un tedesco appena comprensibile: “Se voleva venire nell’Altenburg a riprendere la guida della banda…” e così via, e alla forma si aggiungono aperte dichiarazioni a ricordarci che il racconto è vero, “da un’antica cronaca”, diceva infatti il sottotitolo!, ma poiché non sempre la verosimiglianza cammina al fianco della verità, accadde che si era verificato quello che adesso racconteremo: ma dobbiamo concedere la libertà di dubitarne a chiunque lo desideri: il ciambellano aveva commesso il più terribile degli errori, frase che conferma che Kohlhaas era sfigato all’inverosimile, però non preoccupiamoci di dove si recasse effettivamente e se si fosse diretto a Dessau, perché le cronache che abbiamo messo a confronto per questa relazione su questo punto si contraddicono e si annullano reciprocamente in modo singolare, affermazione, questa, che diventa più frequente più avanti nel racconto, come dire che mentre Kohlhaas faceva il bello e il cattivo tempo, abbiamo dati certi, immagino i racconti popolari, quando si tratta di ricostruire i passaggi storici, prevalgono invece i dubbi, infatti Kohlhaas incontra la Storia, nella persona di Lutero, che entra in contatto con lui con una lettera autografa, senza dubbio molto notevole, che però è andata perduta. Nell’ultima parte del racconto, infine, arriva un elemento magico e misterioso a spezzare l’avventura rocambolesca di Kohlhaas, e attorno a questo mistero, che non sto a dirvi se valesse la pena svelare oppure no, si attorcigliano gli ultimi fili del racconto, portandoci fino ad un passo dalla conclusione con un ulteriore lettera che ci lascia col fiato sospeso, e una scena che molti film a colori hanno copiato, ossia quella in cui qualcuno in fin di vita sta per rivelare un grande segreto, ma muore prima di finire la frase: nei film di solito dà inizio alle peripezie del protagonista, oppure, nel mezzo del film, gliele complica, oppure, nelle telenovele, aggiunge un migliaio di puntate e non verrà mai svelato perché nel frattempo ci si dimentica di quella mezza frase, con buona pace degli autori che in realtà la fine non l’avevano mai pensata, in ogni caso non sarebbe servita perché la persona morta a metà della frase resuscita almeno due volte nelle mille puntate successive, mentre in questo racconto nessuno muore a metà della frase, anche se forse qualcuno resuscita, perciò Kohlhaas, girandosi estremamente turbato verso il custode, gli chiese se conoscesse la strana donna che gli aveva consegnato il biglietto. Tuttavia il custode rispose: “Kohlhaas, la donna…” e si fermò stranamente in mezzo alla frase, egli, trascinato via dal corteo che in quel momento si mise in moto, non poté capire cosa disse l’uomo, che sembrava tremare in tutto il corpo, cioè dopo pagine e pagine di cavilli giudiziari, pendenze, amnistie, pene e colpe, ecco un piccolo tocco di vita che viene bloccato sul nascere, e siccome si tratta dell’unica volta, a parte un racconto lungo che fa Kohlhaas in risposta ad una domanda, in cui le virgolette indicano un discorso in cui l’interrogato risponde direttamente al suo interlocutore a parole sue, chiamandolo addirittura per nome e arrivando al dunque, credo che Kleist si sia preso paura di questo azzardo e non abbia concluso la frase per pura ansia da prestazione, il racconto continua pertanto in terza persona, ma a quel punto Kohlhaas e l’uomo che aveva visto la donna vengono separati dalla folla, e anche se un’idea ce la siamo fatti, noi ancora non possiamo esser messi a parte del segreto.

La marchesa di O… / Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, tradotto da Silvia Bortoli (introduzione di Dacia Maraini, postfazione di Silvia Bortoli)

Citazioni dai due racconti.
da La marchesa di O…:
1) “nonostante la situazione sia così straordinaria che mi è lecito dubitarne. Io giuro, poiché ciò nonostante c’è bisogno di una dichiarazione” ecc.. fino a “rifletti”;
2) “la marchesa cercava di consolarla con implorazioni e carezze senza fine: ma giunse la sera e batté mezzanotte prima che le riuscisse”;
3) “il loro cuore batteva talmente forte che se il fruscio del giorno avesse taciuto, lo si sarebbe sentito”;
da Michael Kohlhaas:
4) “al mercante il cuore batteva contro la giubba” ecc.. fino a “esitava ancora”;
5) “entrando nella sala Kohlhaas prese per il petto un nobiluomo, che gli andava incontro e lo scaraventò in un angolo della sala così che battendo contro la pietra il cervello ne schizzò fuori”;
6) “il principe elettore, che a quelle parole il nobiluomo aveva guardato sgomento, si volse arrossendo in tutto il volto e andò alla finestra”;
7)giunge una risposta governativa” ecc.. fino a ”gli verrebbero inviati i lasciapassare”;
8)spedì un uomo con una lettera del seguente tenore, scritta in un tedesco appena comprensibile: ‘Se voleva venire nell’Altenburg a riprendere la guida della banda…’”;
9)ma poiché non sempre la verosimiglianza” ecc.. fino a ”il più terribile degli errori”;
10) “non preoccupiamoci di dove si recasse” ecc.. fino a “in modo singolare”;
11) “con una lettera autografa, senza dubbio molto notevole, che però è andata perduta”;
12) “Kohlhaas, girandosi estremamente turbato” ecc.. fino a “sembrava tremare in tutto il corpo”.
Elle

4 commenti:

Alligatore ha detto...

Sei una lettrice forte, nel senso che leggi molto e lo leggi in modo profondo ...ma per farlo, leggi il testo più volte? ... o ti fermi e prendi appunti durante la lettura? Io faccio in questo ultimo modo.

Elle ha detto...

No, leggo solo una volta, fermarmi non mi piace, mi toglie il gusto di immergermi nella storia,; entre leggo sottolineo qualche frase che mi colpisce, che trovo particolare per i più svariati motivi (la lingua, i contenuti, i ricordi o le riflessioni che mi stimolano), e parto da lì per scrivere cinque pagine di null.. di recensione ;)

albaincucina ha detto...

Sei sempre in gamba, complimenti!

Elle ha detto...

E tu sei sempre gentile, grazie!