Valentino è comparso
per caso
nella mia vita, era un pomeriggio di due mesi fa, forse tre,
pensavo di andare
in un museo, perché avevo finito presto di lavorare, faceva un
freddo cane, e
per niente al mondo mi sarei tolta i guanti, non prima di essere
al caldo del
museo. Lungo la strada, la solita bancarella domenicale di libri
usati, mi sono
fermata a darle uno sguardo, la voglia di comprare c’è sempre, la
possibilità
quasi mai, ma i libri usati hanno sempre ottimi prezzi tre per due
ai quali è
difficile resistere, e sapere che non sono propriamente una
divoratrice di
libri, quando questi sono in tedesco, finora non mi ha mai
scoraggiata. Ad un
tratto ho visto alcuni titoli in spagnolo, vuoi vedere che c’è
qualcosa anche
in italiano?, mi son detta, e così ho proseguito spedita, uno
scatolone di
banane dietro l’altro, finché ho trovato quello che conteneva i
libri in
italiano, e ho subito iniziato a seguire col dito guantato di
triplo pile rosa
i titoli sul dorso. Non ne conoscevo nemmeno uno, non a prima
vista, ma qual è
il problema?, si può sempre scoprire qualcosa di nuovo, mi son
detta, tu leggi
troppi blog di recensioni, non sempre si comprano libri di cui si
è già letto,
ho aggiunto cattiva, puoi osare come facevi una volta, ho pensato
anche,
incoraggiata però da alcuni autori conosciuti. E proprio mentre
ero lì, con le
mani nella scatole delle banane a frugare tra i libri usati,
pronta a togliere
i guanti per prendere le monetine dal portamonete, a costo di
congelarmi le
mani in un nano secondo, quindi decisa a trovare almeno due libri
da prendere
per usufruire del primo scaglione di sconto, quello del due per
uno, è stato
proprio allora che ho visto Valentino.
Uno sconosciuto, ma
sua mamma la
conoscevo già, perciò mi sono fidata di lui.
Valentino è viziato,
vanitoso ed
egoista, non si sa cosa faccia di preciso, perché quando è in
presenza di
qualcuno non fa una mazza. Studia, dice, all’università, e
diventerà un gran
dottore (questo lo dice suo padre), sarà ricco e famoso. Ha tante
fidanzate,
dice, e ogni tanto ne porta una in casa, e la famiglia la accoglie
in pompa
magna, perché in fondo, forse, si sente già la famiglia di un
dottore, quindi
si comporta di conseguenza. Sua sorella Caterina lo osserva, non
c’è altro che
lui, tutto il resto rimane sullo sfondo, almeno finché Valentino
non incontra
Maddalena, che lo vuol sposare, dice, che lo manterrebbe agli
studi, aggiunge,
che aiuterebbe tutta la famiglia, promette. La famiglia non vede
la cosa di
buon grado, ma non importa, ciò che importa è che questo racconto
è narrato dal
punto di vista di Caterina, in maniera scorrevole e infantile
finché Caterina è
piccola, un po’ meno quando Caterina cresce e inizia a lavorare
eppure il suo
sguardo resta, in qualche modo, sempre innocente, subisce sempre
la presenza
ingombrante, benché nullafacente, di suo fratello Valentino. Hanno
anche una
sorella, sposata con prole, che sta ancor più sullo sfondo, perché
nelle
famiglie a volte succede così, no?, che una parte si allontani,
con varie
motivazioni, in questo caso Clara non può soffrire quell’egoista
viziato di suo
fratello, a cui vanno tutte le energie, e i soldi, dei genitori,
che quasi non
si occupano delle figlie femmine. Un classico d’anteguerra.
Valentino è un libro degli anni Cinquanta, l’ho
letto sul risvolto
dopo averlo immaginato da tante piccole paroline, soprattutto alla
fine, ho
trovato termini e ortografia da groppo in gola per la nostalgia,
perché mi
hanno ricordato la mia infanzia, come:
cinzanino, ponche,
rabarbaro (al
bar)
Italgas, denari,
anticamera (quella
fisica, che oggi chiamiamo “sala d’attesa”)
water closet (quello
della casa,
scritto in corsivo come forestierismo)
telefonare dalla
panetteria (sì,
un tempo c’era chi non aveva il telefono nemmeno in casa)
asilo infantile (la
scuola
materna, e magari oggi è la scuola primaria o un altro nome
altrettanto burocratico)
noialtre due (il
“noialtri” mi
ricorda mio zio di Torino, che era tutto un noialtri e voialtri)
presto (nel senso di
“veloce”, in
“parlava così presto”).
Valentino è un libro composto da tre racconti: Valentino è il primo, l’ultimo è il più bello, al
centro c’è La madre. In
ognuno dei tre racconti
muore qualcuno tragicamente.
Ne La madre, il punto di vista è quello dei due figli,
che vivono a
stretto contatto fisico con lei, perché condividono la stessa
stanza e lo
stesso letto, eppure la sentono lontanissima, estranea, e benché
questo secondo
racconto, il più breve, non mi abbia appassionato come l’ultimo, o
come Valentino (che
all’inizio però mi ha
preoccupata col suo stile perché mi pareva, ma non lo è, uguale a
Lessico famigliare), ho
incominciato già
qui ad ammirare le strategie della scrittura: il punto di vista
infatti è
quello dei due bambini. Contemporaneamente. Che due bimbi abbiano
lo stesso
parere sulla madre, ci sta, anche se loro non parlano mai l’uno
con l’altro
della madre; ma ad un certo punto, quando necessario, il parere si
sdoppia e
uno pensa una cosa, l’altro ne pensa un’altra, eppure entrambi
vengono
presentati come aventi parere. Il parere è chiaro comunque già dal
titolo: non
“la mamma” bensì “la madre”, e ogni volta che questo termine
riappare, si
avverte tutta l’estraneità dei due bambini, che addirittura si
chiedono come
sia stato possibile nascere proprio da lei, perché non dalla
nonna, invece, o
dalla serva, che sono molto più accoglienti “con quei loro corpi
caldi che
proteggevano dalla paura, che difendevano dai temporali e dai
ladri”. Che il
punto di vista è quello dei due bambini, è chiaro.
Anche in questo
racconto, quindi,
il linguaggio è abbastanza infantile, non ci sono dialoghi, come
invece poteva
accadere in Valentino,
vengono
riportati solo pochi scambi, ad esempio quelli tra il nonno
esasperato e la
madre. Abitano tutti assieme e lei fa un po’ come le pare. E le
viene lasciato
fare quello che vuole, d’altronde ha acquisito la sua capacità
legale di
intendere e di volere col matrimonio, ma rimasta vedova ha perso
l’appoggio
della persona per antonomasia con la testa sulle spalle: un
marito. Il punto di
vista dei bambini è fortemente influenzato dai commenti dei nonni
e della
serva, che naturalmente non approvano il comportamento della
madre, ciononostante
non intervengono molto, perché dopo il matrimonio, è chiaro, è il
marito che
deve occuparsi dell’educazione di una donna, peccato lei sia
rimasta vedova
tanto presto. Il nonno ogni tanto tenta di riprendere il suo
antico ruolo di
custode d’una figlia, ma finisce ogni volta con un grosso litigio
che, per
amore dei bambini, si cerca di quietare, finisce che la madre si
chiude in
camera, si mette a letto, dove sono anche i suoi figli che hanno
sentito tutto,
e piange. Finisce che i bambini ancora di più si sentono a
disagio, la sentono
lontana e incomprensibile, perché danno ragione ai nonni,
qualunque cosa sia
successa (non l’hanno capito, e siccome il punto di vista della
narrazione è il
loro, non lo sappiamo con certezza neppure noi), perché in fondo
sono i nonni
(e la serva) le persone che si occupano di loro, loro non
potrebbero mai dar
ragione ad un’estranea.
Poi arriva Sagittario, il terzo racconto, anche qui c’è una
mamma, anche qui
la voce narrante è quella di una figlia. Stavolta le figlie sono
due, c’è pure
un genero e vari altri personaggi. Questo racconto è un
capolavoro. Racconta la
figlia, racconta la storia di sua mamma, la racconta con una sorta
di intreccio
di punto di vista interno laterale con indiretto libero esterno
onnisciente. Insomma,
la figlia sa tutto, ma proprio tutto ciò che succede alla mamma,
come se fosse
lei stessa la protagonista, e non la mamma, sa tutto come se fosse
sempre
presente, ma lo racconta con le parole della mamma, che sono
spassosissime, l’è
veramente un personaggio. E per di più un personaggio d’altri
tempi, donna che
si crede super intraprendente ed è superattiva, almeno quando si
tratta di
chiacchierare delle proprie iniziative (ma dovrei dire “idee”),
una
neo-cittadina decisa a dare una svolta alla propria vita
(attualissima, questa
donna). C’è prima una presentazione della donna, e qui sembra
normale che sia
la figlia a descriverla, ma poi la storia entra nel presente
storico, seguiamo
la donna passo passo nelle sue attività e, se da un lato il punto
di vista è
quello di chi segue con la telecamera la protagonista, dall’altro
è chiaro che
la figlia riporta gli avvenimenti con le parole della mamma,
esattamente come
se la mamma glieli avesse raccontati e lei, nel riferirceli
fedelmente, le
facesse un po’ il verso. Fino al colpo di scena delle prospettive,
che si
mischiano un po’ e si intuisce che da un certo punto in poi,
invece, tutto ciò
che è accaduto era rimasto un segreto, la mamma non l’aveva
raccontato a
nessuno, nemmeno alla figlia: sembra che il racconto sia
successivo ai fatti,
ma viene raccontato man mano fedelmente così come si è svolto,
allo stesso
tempo è così preciso che sembra che la figlia sia sempre lì, ed è
così pervaso
di dialoghi in stile indiretto libero che sembra che la figlia non
sia mai lì,
ma sappia sempre tutto solo per voce della mamma.
La voce della mamma,
come ho
detto, è uno spasso, i suoi commenti, i suoi giudizi, i suoi
pareri su tutto, e
il suo cambiare idea sulle cose, e poi tornarci, il suo seguire le
mode, il non
volerle seguire, o il suo fissarsi su certe cose, il suo sguardo
critico
sull’abbigliamento delle altre donne o sulle figlie che non ne
azzeccano una
(una parla poco, l’altra si veste male, una non s’è sposata,
l’altra ha
sbagliato marito). Quando poi fa la conoscenza di Scilla, abbiamo
un personaggio
in più di cui sentir parlare, dalla bocca della figlia che a sua
volta riporta
le parole uscite dalla bocca della mamma. Ogni tanto viene il
dubbio che la
figlia racconti ciò che ha visto coi suoi occhi, talmente siamo
dentro la
storia con lei, ma niente, poco dopo si scopre ancora che era il
parere della
mamma, fedelmente riportato, e che la figlia non c’era, e anzi
quando le verrà
raccontato tutto sarà di tutt’altro parere. In questo racconto
dialoghi e
virgolette proprio non ce ne sono, il discorso è costantemente
indiretto e
fedelmente riportato: la figlia dice quello che la mamma dice che
Scilla ha saputo
da una sua amica; oppure quello che la mamma ha pensato quando
Scilla le ha
detto quello che le aveva raccontato la sua amica.
Il termine usato
dalla voce
narrante per parlare della protagonista indiscussa è sempre “mia
madre”, mai
“mia mamma”, eppure è come se ci fosse simbiosi tra la figlia che
narra e la
mamma di cui parla. Se sostituissimo “la donna” o anche “la madre”
a tutti i “mia
madre” del testo otterremo un risultato poco diverso, dal punto di
vista
dell’esposizione grammaticale dei fatti, ma diversissimo per
quanto riguarda le
implicazioni di conoscenza dei fatti stessi: è l’intreccio di
punto di vista
interno laterale con indiretto libero esterno onnisciente a
complicare le cose.
Insomma ‘sta figlia c’era o non c’era? lo sapeva già o non lo
sapeva ancora?
Non è mera curiosità, è il fascino che ne ricava la lettura a
spingerci a voler
districare il punto di vista.
“Si sentiva stanca e turbata, con la testa confusa; e
s’annoiava un
po’…”: fin qui una descrizione dall’esterno di ciò che è
successo al
tavolino del bar, ma può anche essere il resoconto che fa la mamma
alla figlia
successivamente, no?
“…e s’annoiava un po’, come sempre quando c’era un altro
che parlava
invece di lei”: ed ora un commento della figlia sul modo di
essere della
madre, in conclusione dell’inizio di cui sopra. Metà frase esterna
ma
soggettiva della protagonista, l’altra metà esterna e soggettiva
della
narratrice.
“In seguito, guardando Barbara più attentamente, mia
madre notò che
aveva qualche lentiggine..”: la madre ha senz’altro
raccontato alla figlia
cosa aveva notato di Barbara, e la figlia ce lo riporta
fedelmente.
Molto fedelmente: “…il naso un po’ a patata e i
seni troppo
grossi; a trent’anni, quei seni sarebbero stati cadenti. Chissà
cosa succedeva
di quei seni, a trent’anni.” Fino a “sarebbero stati” è la
figlia che riporta
le parole della madre (indiretto), con quel “succedeva” è come se
la madre ci ripetesse
le sue stesse parole (indiretto libero), la coniugazione non
mente.
E con l’ultima
frase, la figlia ci
rivela che tipino è la madre, la possiamo facilmente immaginare
nel pieno del
discorso diretto in cui racconta alla figlia di quell’incontro,
che a noi è
stato offerto in un discorso indiretto (e libero): “Si sentiva stanca e turbata, con la testa confusa; e
s’annoiava un po’,
come sempre quando c’era un altro che parlava invece di lei. […]
In seguito, guardando
Barbara più attentamente, mia madre notò che aveva qualche
lentiggine, il naso
un po’ a patata e i seni troppo grossi; a trent’anni, quei seni
sarebbero stati
cadenti. Chissà cosa succedeva di quei seni, a trent’anni.”
Solo una volta, o al
massimo due,
la narratrice racconta di sé, quasi una parentesi dopo un
pomeriggio passato
con la madre (quindi di quel pomeriggio possiamo credere di avere
senz’altro
una testimonianza di prima mano), torna a casa e ci racconta un
po’ di sé,
lasciando la madre a casa dell’amica Scilla. Poi aggiunge “Seppi poi che quella sera mia madre se n’era dovuta
andar via col
quadro”, e sembra di sentire la madre dirle: “me ne sono
dovuta andar via
col quadro”, ma anche la stessa figlia potrebbe raccontarcelo con
queste parole,
se venisse a saperlo da qualcun altro.
Anche le parole di
Scilla,
vengono riportate dalla figlia allo stesso modo: “Ma certo non bisognava dimenticare, disse Scilla,
nemmeno la galleria
d’arte: e conveniva scegliere un locale che si prestasse ad
essere trasformato
più tardi in una galleria d’arte: occorreva un locale spazioso,
illuminato
bene. […] Quale nome dare al negozietto? […] Mia madre non
approvava che fosse
un nome francese: negozi di quella specie, con nomi francesi, ce
n’erano anche
per i poveri della parrocchia”: alla fine i due punti
simulano un discorso
diretto, ma rimaniamo nell’indiretto, e nell’onniscienza della
figlia. “I
poveri della parrocchia”, ci avverte la figlia, è un’espressione
che alla madre
piace molto, e che torna spesso, ricordandoci così che tutto ciò
che viene
raccontato da lei è a sua volta un racconto della madre (che
talvolta è a sua
volta un racconto di Scilla).
Ed ora un riassunto
dei vari
salti di punti di vista di cui si può godere nel racconto Sagittario, stavolta segnalati dalla punteggiatura:
nel brano
seguente prima la figlia è presente dichiarata, e con quel “si
capisce” sembra
esporre quindi un suo parere su Jozek, invece no, riportava quello
della madre,
quindi il “si capisce” assume il ruolo di segnalatore di parole
raccontatele da
sua madre, nonostante la figlia sia lì presente; un punto e
virgola separa la
risposta di Jozek dalla frase della madre; poi la figlia descrive
obiettivamente quando accade (la mamma va su tutte le furie) e
aggiunge i due
punti a segnalare indirettamente il successivo botta e risposta
diretto tra
Jozek e la madre, botta e risposta che poco prima era indiretto
punto e basta;
infine la figlia nomina il malumore della madre guardandolo da
fuori (lo nota
lei che è lì e la vede), e la decisione della madre guardandola
dall’interno
(sua madre lo pensa, ma
potrebbe
essere di nuovo un discorso indiretto che, reso diretto, sarebbe
“penso che non
lo inviterò più”); subito dopo però la decisione viene motivata
scopertamente
con un indiretto libero colorito come solo sua madre: “Mia madre rientrando trovò il solito Jozek, ed era un
sabato e così
c’ero anch’io; come sempre Jozek indugiava speranzoso di un
invito a cena; e
mia madre, ricordando che la signora Fontana aveva sempre ospiti
a tavola,
bruscamente lo invitò. Durante
la cena
mia madre raccontò dell’incontro; e Jozek, si capisce, affermò
di conoscere la
signora Fontana, lui voleva sempre saper tutto e conoscere
tutti; ma sì, la signora
Fontana, una con le gambe corte e la vita lunga. […] Abitavano,
l’anno prima,
di casa vicino a certi amici suoi; la madre, una matta
intrigante; la figlia,
una giovane troia. A queste parole di Jozek, mia madre andò
sulle furie: Jozek
era una lingua maligna, un serpente. […] Mia madre rimase di
malumore tutta la
sera, e pensò che mai più avrebbe invitato Jozek a cena; era un
maleducato, e
s’era tirato nel suo piatto tre grosse fette di carne: e così
non ce n’era più
per domani.”
Insomma, sciogliere
l’enigma non
è una necessità, il piacere di leggere è salvo, semmai è una sfida
a scoprire
non tanto l’assassino quanto almeno, ma è la parte più difficile,
quali e
quanti punti di vista racchiude in sé la figlia.
4 commenti:
noialtri che seguiamo "lo spirito" prendiamo nota del suggerimento.
non ho letto "valentino", ma sono in un periodo in cui le atmosfere e i sapori delle vite raccontate alla ginzburg mi piacciono un sacco.
ciao elle :)
Zio Metiu devi leggerlo allora, perche` nonostante i giochi di stile e` marcatamente ginzburghiano. Di' pure che ti manda lo spirito. Ciao Metiu :)
Mai letto nulla di Natalia, ed è un vero peccato. Il primo racconto, che ha dato il titolo al libro, sembra buono per un film (magari di Marco Bellocchio, con il gusto di raccontare "il male", "il decadente" dentro la famiglia)... fantastica la tua anilisi nei dettagli di Saggitario, si vede cha hai amato il libro, che ami i libri.
Io dopo questo libro, ne vorrò leggere altri, Lessico famigliare mi era piaciuto tanto, ti direi di iniziare da lì, se vuoi conoscere la Ginzburg, lei sì che si sa raccontare.
E mi è piaciuto tanto anche Valentino son contenta che si veda.
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