martedì 12 giugno 2012

Black Country Communion
Black Country




Joe Bonamassa (miglior chitarrista blues dell’ultima generazione) alla chitarra elettrica; Glenn Hughes (Deep Purple) al basso e alla voce; Derek Sherinian (Dream Theatre) alle tastiere; Jason Bonham (figlio del compianto John) alla batteria. Non è uno stralcio da un compendio di storia della musica, ma la formazione dei Black Country Communion, supergruppo di fenomeni alle prese con l’hard rock anni ‘70 e suoi derivati. Chi ha amato Deep Purple e Led Zeppelin si cominci a sfregare le mani e a farsi venire l’acquolina in bocca: questo è il disco che far per lui. Chi invece pensa a una penosa operazione commerciale dei soliti dinosauri che non si rassegnano alla pensione, resterà deluso. Black Country è una bomba che una volta innescata non smetterà di deflagrare dalle casse del vostro stereo. L’hard come si suonava una volta, con qualche spunto psichedelico e la bella, puntuale e precisa chitarra di Bonamassa a irrorare il tutto di tonnellate di blues. Brividi che hanno percorso la schiena di tre generazioni e tornano prepotenti ai giorni nostri come se il tempo si fosse fermato a 40 anni fa. Impossibile non godere come ricci, soprattutto perchè queste undici canzoni (tutte inedite a parte la cover di Medusa dei Trapeze) profumano di fresco e scintillano al sole come spade appena forgiate. Per rendersene conto è sufficiente la title track, piazzata all’inizio come una martellata degli dei: up tempo tiratissimo sorretto dal basso di Hughes vibrante come ai bei tempi e da un assolo fulmicotonico di Bonamassa, che tira a lucido la gloria che fu di Blackmore. “I’m a messenger, listen my prophecy!”, canta Hughes con la voce di un sessantenne mai cresciuto, che prende acuti, uno dopo l’altro, con tecnica e precisione, con una tensione sempre massimale, con una passione che nasce dallo stomaco e si arrampica in cielo. Basterebbe questa canzone a giustificare l’acquisto del disco. Arrivederci e grazie. Invece, i pezzi, clamorosamente belli, si susseguono senza soluzione di continuità, e non vorresti mai spegnere lo stereo. Il singolo  One last soul  col suo approcio melodico, l’inarrivabile Down Again, con Bonamassa cheintreccia riff e assoli in un unico grande affresco purpleiano, l’acidissima Beggerman con Hughes in grandissimo spolvero, tanto da far pensare addirittura ai fasti di Burn. Una dietro l’altra, ad allungare un immaginario tappeto rosso per la passerella decisiva di Song of Yesterday, capolavoro del disco, otto minuti abbondanti in cui si fondono Zeppelin, Purple, la chitarra blusey di Bonamassa,l a voce nervosa di Hughes e un tappeto melodico quasi impercettibile a far da fondamenta. Una di quelle canzoni che gli amanti del genere terranno stretta al cuore, nei secoli a venire, come anni fa fecero con Baby i’m gonna leave youChild in time. Chiude il disco Too late for the sun, jam session di undici minuti, in cui i quattro, se ce ne fosse bisogno, ci dimostrano quello di cui sono capaci con in mano rispettivi strumenti. Black Country non solo rispolvera i gloriosi anni in cui il rock si faceve con zeppe e basettoni, ma si candida a diventare, segià non lo è, un classico dell’hard rock moderno.

Blackswan

2 commenti:

Elle ha detto...

Ci vorrebbero più dinosauri così, e meno fossili rivisitati.
Mi piacciono questi progetti, l’unione di idee e di competenze. No, non parlo dell’Orablù, parlo dei Black Country Communion.
E i numeri (i minuti) mi affascinano tanto quanto le note e la forza, che te lo dico a fa' :D

Blackswan ha detto...

Sono d'accordo con te cara Elle.Soprattutto so che la lunghezza dei brani ti procuri un brivido lungo la schiena :) Ma immagino anche quanto il mio amico Cherotto abbia faticato a mettere un post dedicato a un gruppo di dinosauri che quando suonano sudano :)