Quella mattina mi svegliai molto presto, bevvi un caffè, mi infilai i pantaloncini, le scarpe da footing, una t-shirt ed uscii di casa che ancora era buio. L’aria era fresca e secca. Lentamente presi a correre in salita. Nei primi due chilometri mantenni un’andatura costante per permettere ai muscoli di scaldarsi, poi aumentai gradualmente. Mi piaceva correre in salita, provavo quel gusto sottile della sfida con me stesso che in qualche modo placava la mia aggressività. Mentre arrancavo, sentii l’odore della terra e dell’erba arata da poco. Continuai ad arrampicarmi con veemenza. Poi la strada scollinò e ci diedi dentro per qualche chilometro, fin quando da dietro una curva sbucarono delle mucche che mi guardavano con superiorità. Mi portai a ridosso del guardrail e continuai la mia corsa solitaria. Mentre correvo, riuscivo a mettere ordine alle cose e a scarabocchiare i ricordi. Quando arrivai in cima grondavo di sudore, avevo i polmoni che mi bruciavano, mentre il sole si alzava da dietro la montagna e filtrava sulle chiome degli alberi. In quel momento mi sentii appagato e vivo come non mai.
Vivo, talmente vivo, come solo certo
rock’n’roll sapeva esserlo, prima che lo mandassero in pensione tra
galline e maiali, fienili e sterco di vacca. Il rock sta diventando noioso.
Quel rock che è nato e germogliato per la strada, nelle cantine umide e
gocciolanti di pioggia, grezzo e volgare, diretto come un pugno allo stomaco,
quel rock che era rivolta dei giovani contro i vecchi é finito in fattorie con
parquet, svuotato della sua vera natura di ribelle dissacrante. Un combattente
che sta invecchiando malamente da non essere più così importante nella vita
della gente, perché semplicemente non lotta più, non rompe più i coglioni al
potere.
Il rock è stato affidato all’industria, ai
suoi manager, a certi produttori e non vive più senza limiti e confini. Ma quel
rock sta rintanato da qualche parte e chiede, ne sono certo, di essere
nuovamente suonato senza compromessi, integro e puro. Di farsi nuovamente
portatore della rabbia di una generazione. Il rock come è stato per Jim
Carroll. Il “Catholic Boy” drogato e omosessuale, dimenticato dai
più, che ha dedicato la sua vita alla causa suonando duro e usando parole
taglienti e poesia da strada. Portavoce di una generazione di sbandati con un
ago in vena. Benedetto da Jack Kerouac, William Burroughs e Allen Ginsberg per
la sua prosa. Un rocker che faceva ballare e inginocchiare gli angeli ha
ricevuto indietro meno di nulla se non quella sensazione di appagamento per
avere fatto ciò che ha sempre voluto, con una dignità che non ha uguali, senza
trucchi, senza inganni, schietto e diretto, in una società umiliata dal
qualunquismo e incapace di ribellarsi. Dove, usando le sue parole, presente e
futuro diventano cenere, e forse fulgida fiamma.
I miei fratelli bastardi. Sono stati loro a
prendersi cura di me, quando tutto mi precipitava addosso, quando rincorrevo la
vita e nascondevo l’inferno sotto la camicia. Ma andavo dritto, come un
bisonte impazzito, per la mia strada, per ritrovarmi alla fine solo,
all’alba di un nuovo giorno, a vagare appeso alle canzoni dei Senders di
“Return a’l’Envoyeur”. Quattro gatti randagi delle
banlieue francesi, terra di rock per antonomasia, di una generazione perduta
nei sogni di rock’n roll. Veri e autentici i The Senders! Delinquenti
prestati al rock per salvarsi la pelle; una meteora di quelle che non ricorda
nessuno ma, chi in quei giorni li ha incrociati sa che suonavano canzoni
ispirate da Willy “il gatto blu”, canzoni che erano come battiti
del cuore.
Willy mi manca maledettamente. Saperlo in giro mi
rassicurava. Non tutto era perduto. Un musicista a 360 gradi come non ne
esistono più. Uomo dal cuore immenso che ha vissuto il rock come pochi altri,
una stella per chi è cresciuto nelle ultime file e ha dovuto sgomitare per
farsi largo. Un artista che non si è mai piegato di fronte a nessuno, un
esempio per tutti.
Ebbi la fortuna di incrociarlo l’hanno
prima che morisse in un festival blues a Mascalucia in provincia di Catania, un
paesino sotto le pendici del grande vulcano. C’era un atmosfera magica
che colpi molto anche lo stesso Willy ,e lo disse biascicando le parole in una
pallottola di fumo. Quando sbucò da dietro il palco, accompagnato dalle note di
un blues secco come un chiodo, con i suoi lunghi capelli, mi parve uno dei
cavaliere della tavola rotonda. Lo guardavo ipnotizzato, avevo la bocca
asciutta per l’emozione. Lui invece era rilassato e a suo agio. Non
ricordo null’altro se non che quando imbracciò la Fender e si piazzò
davanti al microfono e parti Savoir Affair mi fiondai sotto il palco e non capi
più nulla. Mi sentii come se fossimo al CBGB’s e mi ricordai dei miei
giorni disperati, di quando ero debole ed indifeso mentre lui mi cullava tra le
sue braccia, insieme ad altri fratelli nati alla periferia dell’impero.
I “nati perdenti”, con la strada
sempre in salita. E quando arrivava la notte ci si scaldava con
quell’urlo disperato che era Born Too Loose di Johnny Thunders, un altro
che macinava rock’n roll a mille. Un “Keith Richard dei
poveri” che non si è fatto mancare nulla nella sua esistenza fino ad auto
distruggersi; troppo innamorato del rock per capire che la sua non era
finzione. E dopo tutta quell’energia si restava da soli, perché alla fine
si resta sempre soli, e ci si accarezzava il cuore con “Devon Song”
degli Only Ones di Peter Perrett, un cantante che sembrava un incrocio tra
Dylan e Lou Reed. Saliti e subito scesi dal podio grazie ad una canzone
“Another Place, Another Planet “che ancora oggi resta bella e
malata, figlia di quei fiori selvaggi, di quel bianco calore che erano i sogni
di velluto. Musica schietta, sincera, cosi sincera da farti male, molto male se
avevi il cuore a pezzi e gli occhi gonfi.
E’ stata la musica che mi ha protetto dalla
pazzia ed è venuta a stanarmi fin dentro la mia stanza anonima della mia
anonima casa di periferia. Quella che bussava alla porta era una generazione
cresciuta ascoltando Hendrix, Jim Morrison, Stones, Velvet , Mott The Hopple,
Who, Kinks. Una generazione che prendeva in prestito la poesia di Baudelaire e
di Rimbaud e la trasformava in energia, in rock’n’roll. E tutti
prendevamo coscienza, per emanciparci, per crescere. La sacerdotessa del rito è
stata lei, Patti Smith, la prima cantante donna che non doveva niente a nessuno,
che risplendeva come una divinità anche se era vestita tutta di nero. Quando
arrivò Horses le regole furono infrante, l’anarchia in musica prese per
la prima volta forma e il rock ‘n roll fu libero da qualunque legame,
come non era riuscito di fare neanche a Jim Morrison .
Poi a Londra accadde il miracolo.
Inaspettatamente, tutto in una notte. Potevi ascoltare una miriade di gruppi
punk nati dopo aver visto i Sex Pistols. Gente come i Vibrators , Stranglers,
Ian Dury, i Damned, Slaughther &the Dogs, ragazzi emarginati, senza
prospettive, senza futuro: unica certezza il rock’n’roll. Quei giovani
proletari erano come migliaia di altri ragazzi sparsi per il mondo. Con le loro
canzoni denunciavano il vuoto esistenziale e la sofferenza di un’intera
generazione. Ed arrivò Joe Strummer e i Clash, e fu come vedere la luce.
Finalmente uno che lottava contro la miseria e l’alienazione, uno che
aveva la morale comunista e lo spirito socialista. Il mio “Che
Guevara”. Finalmente qualcuno che ti faceva sentire orgoglioso di essere
un proletario, che ti spingeva ad uscire dal guscio, che ti parlava sostenendo
che era possibile farcela, anche se non avevi opportunità. Quelle te le dovevi
prendere, ti toccavano in un modo o nell’altro. Eri un Sandinista, un
guerriero di strada, un indomabile. Anche se avevi perso la tua battaglia
andava bene lo stesso, avevi lottato, avevi dato tutto te stesso. Perché, da
quel momento in poi, non saresti stato più un ribelle senza causa. Troppo
comodo, aveva fatto questa storia del ribelle senza causa al Potere. Ora avevi
un identità ben precisa e una Band che ti sosteneva. E’ grazie ai Clash
che molti di noi non sono finiti a rubare autoradio per comprarsi la dose.
E’ grazie a loro, ed anche agli Stiff Little Fingers, che abbiamo
imparato che la musica non é solo divertimento, ma può essere anche
qualcos’altro. Grazie anche ai fratelli Severini (l’unica vera Gang
italiana ) che nel tempo hanno mantenuto quella fiamma sempre accesa; gli unici
e soli che possono andare ad Hyde Park e cantare “London Calling”
con i pugni alzati e il fazzoletto rosso al collo .
Adesso lo sento questo vento che sta cambiando.
La gente che torna ad occupare le strade, a chiedere giustizia e libertà, pane
e lavoro . E il sogno di un nuovo ordine mondiale continua. I ragazzi hanno
riattaccato la spina. Gli amplificatori ronzano e le cantine sono piene di
gente che scrive, che parla, che lotta. Il rock, come per magia, si è rimesso
in sesto ed è arzillo è vivo nuovamente. Pronto per una nuova rivoluzione.
Contiamoci, siamo in tanti. Fratelli Bastardi.
Bartolo Federico
Bartolo Federico
4 commenti:
Ehi, Fede, che bello leggerti anche qui!
grazie evil,è da un pò che ci sono.
Clash, Stiff Little Fingers e Fratelli Bastardi.
Mi piace.
Fede, mi puoi tranquillamente inserire nella conta: io ci sono.
sapere che ci sono ancora in giro, tanti bastardi dal cuore d'oro.mi rende felice.un abraccio.
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