mercoledì 27 marzo 2013

Battistrada scolpiti a mano sulla propria pelle

“Dunque, tesoro, eccoci qua a New York e anche se non ti ho detto proprio tutto quello che avevo in mente quando attraversammo il Missouri e specialmente nel momento in cui siamo passati davanti al riformatorio di Booneville che mi ricordava il mio problema carcerario, ora è assolutamente necessario posporre tutte quelle cose sorpassate concernenti i nostri personali affari amorosi e cominciare immediatamente a pensare a specifici progetti di vita lavorativa…”
Sin dall’incipit viene presentato Dean, che sarebbe l’unico protagonista di questo romanzo, se non fosse presente anche Sal, la voce che ne narra le gesta e ne riporta i discorsi. Dean arriva a New York nell’inverno del 1947, Sal aveva sentito parlare di lui e ne era incuriosito e una sera finalmente fa la sua conoscenza. Sin dall’incipit io questo romanzo non riuscivo a capirlo, Sal e Dean due scapestrati, Dean che fa discorsi strani e poi parte, e Sal che finalmente riesce a partire anche lui, senza soldi, con l’autobus poi con l’autostop: mi sembrava un romanzo troppo estivo da leggere a cavallo fra dicembre e gennaio, con la neve sotto il naso come ero messa io.
Ecco infatti che “nel mese di luglio del 1947, avendo messo da parte circa cinquanta dollari della mia pensione di reduce, fui pronto ad andare nella costa occidentale”, dice Sal; andare nel West era suo sogno, e scopre che lo era anche di Dean, il quale, una volta ricongiuntosi con lui, e divenuto vero e proprio protagonista della narrazione, risulta essere uno a cui non è necessario ripetere due volte certe proposte, perché al “che ne diresti” è già salito in macchina pronto a partire. E come guida! Come corre, quale resistenza per ore alla guida attraverso gli Stati Uniti!
Pensavo che il motivo per cui non capivo il romanzo fosse che io i miei lunghi viaggi in macchina alla scoperta del mondo li ho sempre fatti in estate, frase poeticissima ma fasulla, non scoprivo proprio nulla, in realtà andavo in ferie, e mentre guidavo ascoltavo musica e pensavo, quindi cosa c’entra tutto questo con Sal e Dean che invece partono alla scoperta del mondo?


Pensavo che il motivo, dicevo, che il motivo per cui non capivo il romanzo fosse che io i miei lunghi viaggi in macchina li ho sempre fatti in estate, invece mentre leggevo era inverno, la stagione del raccoglimento, del riscaldamento acceso (sfatiamo il mito del camino, ché non ce l’ha più nessuno), dei lebkuchen, della musica classica. Non del viaggio.
Invece presto mi sono dovuta ricredere: non solo lo potevo capire, ma potevo addirittura immedesimarmi nell’atteggiamento sconclusionato dei due, nel loro vivere alla giornata, nella loro profonda curiosità di tutto, nella voglia di nuove conoscenze, nella facilità con cui alcune se le lasciano dietro, e pure in certa parte della loro particolare goliardia.

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Le piaceva questa sua nuova vita senza pensieri, senza scadenze, senza fretta, senza preoccupazioni; le piaceva organizzare poco per volta il suo tempo e il suo futuro, pur avendo una regolarità di base; fino a poco tempo prima diceva, quasi per scherzo, che non poteva programmare a lunga scadenza il suo futuro, che non poteva sapere dove sarebbe stata di lì a un anno, e ogni volta che lo diceva il suo pensiero andava subito all'anno precedente: esattamente un anno prima dov'era? Cosa faceva? Sapeva già che ora sarebbe stata proprio qui dove era? La risposta a quest'ultima domanda era “no”. La risposta alle altre domande, era “a Siena”. Un anno prima era a Siena, stanca di starci, stanca di avere una vita monotona, stanca di non avere niente da fare o di non potere fare niente; era a Siena ma sapeva già che ci sarebbe rimasta solo fino a maggio, aveva infatti preso casa per sei mesi soltanto; era a Siena ma sapeva già che a metà maggio se ne sarebbe andata, aveva forse già fatto il biglietto, o forse aveva solo visto le date e i prezzi; era a Siena e voleva andare da qualche altra parte e non tornarci mai più: programmava di cambiare lavoro, di cambiare una vita che ancora la affascinava, eppure non la rendeva più entusiasta come avrebbe fatto se solo fosse stato quello che davvero voleva per sé; invece si era rivelato essere solo un ripiego facile da ottenere, e col quale ottenere facilmente approvazione. Ma ora, in questa sua vita senza scadenze e senza pensieri, era arrivato il momento di decidere. Infatti non poteva dire ancora che la sua vita fosse completamente senza pensieri e senza scadenze, né che ora fosse diventata una che si lasciava scivolare le cose addosso senza prendere le relative decisioni, una che aspettava che le cose succedessero; ed effettivamente non si poteva parlare di cose che succedevano quando le suddette cose le si andava a cercare sul sito, si compilavano i moduli relativi, li si spediva a tempo debito, si scrivevano le e-mail di conferma ricezione o di risoluzione problemi, si attendeva con ansia il verdetto. Quando infine il verdetto arrivava, ed era positivo, significava solo una cosa: altre scadenze, altre decisioni, ma lei, ormai disintossicata dallo stress cittadino, nonostante non avesse mai abitato in una vera città, riusciva a fare tutto con calma; laddove il verbo "riuscire" era riferito al fatto che lei, disintossicata da quello stress, riusciva finalmente "a stare calma", e non che lei, disintossicata da quello stress, riusciva "a fare tutto"; infatti lei, calma come un girasole in un campo estivo, riuscì facilmente a far passare la scadenza, l'ultima, quella importante, e spedì la documentazione che era richiesta per il giorno prima entro le 12, solo quel giorno con calma verso le dieci e mezza del mattino, poco prima del caffè in piazza con gli amici che prontamente aveva contagiato con la sua calma da bradipo nel dì di festa, infatti la loro pausa di 15 minuti durò quel giorno tre volte tanto, così rientrarono un po' in ritardo; lei invece, sempre calma, tornò a casa, a piedi, godendosi quel fantastico sole che, alla temperatura di 17 gradi, cercava di difenderla dalle raffiche di vento a 26 chilometri orari proveniente da nordest; invece non si preoccupò più di tanto dell'umidità dell'aria al 54% perché quando non aveva appena fatto la piega liscia la considerava un dettaglio superfluo.

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A lungo, e per la maggior parte del romanzo, Sal racconta del suo amico Dean, un “pazzo” che ha un suo modo di vivere, ma che non sta lì a spiegarlo, a giustificarsi; Sal invece sta nel mezzo, diviso tra l’esser “normale” (ovvero come la maggior parte delle persone) e l’esser “pazzo” come Dean, che lui adora, e coinvolge e segue in tutto e dappertutto. Si godono la vita senza pensieri.
“Ti dirò, Sal, chiaro e tondo,” dice Dean quasi alla fine, riassumendo così la sua filosofia di vita: “non importa dove io abiti, il mio baule spunta sempre di sotto il letto, sono pronto a partire o a venir buttato fuori. Ho deciso di lavarmi le mani di tutto. Tu m’hai visto tentare di rompermi il culo per farcela e tu sai che questo non ha importanza e che noi sappiamo il valore del tempo: come rallentarlo e camminare e guardare e solo fare delle scatenate baldorie vecchio stile, che altro genere di baldoria esiste? Noi lo sappiamo.”
Si spostano, tirano a campare, si divertono, incrociano molte altre persone, e su queste riflettono, come su sé stessi, entrambi sanno di essere simili in qualche modo e, per questo, di capirsi. Se escludo le baldorie, e la profonda amicizia, io ci ho visto il riassunto nei miei ultimi dieci anni di vita (quelli che ora mi sembrano passati dieci anni fa), perché in questo romanzo ognuno dei personaggi “tutte queste cose le faceva esclusivamente a scopo di esperienza”, non ci hanno guadagnato altro, anzi forse qualcosa (e qualcuno) per strada l’hanno perso.

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Al lago le ragazze aprirono il giornale, trovarono gli annunci di lavoro, la guardarono e le chiesero: "Tu che lavoro vuoi fare da grande?". Era di certo una battuta, per quel "da grande", ma forse anche una domanda seria, considerato che ora faceva la tirocinante mal pagata in un negozio lontano chilometri e chilometri da casa sua: una volta concluso il tirocinio, e quando sarebbe stata grande abbastanza per lavorare, cosa avrebbe voluto fare? Rispose che non aveva ancora deciso, ma cosa avrebbero detto le ragazze se avessero saputo che quella fase lei credeva di averla già superata e che viveva in uno stato di beatitudine in cui non era alla ricerca del lavoro ideale, quello per la vita, quello che faceva uscire dalla giovinezza per far entrare nell'età adulta e responsabile, quello che dava soldi e ferie e un futuro? Quella fase era superata e fortuna che nella vita non si tornava mai indietro, perché non avrebbe voluto rivivere quell'agitazione e quella paura del futuro. Lei il suo lavoro da fare da grande per ora l'aveva trovato: quello che stava facendo ora; e  capì che le ragazze, simpatiche o noiose che fossero, non erano interessanti per lei, altrimenti avrebbe tentato di spiegar loro che avrebbe voluto che nella sua vita ci fossero cose più importanti della pagina degli annunci del giornale locale.

Al lago, in generale, l'atmosfera era borghese, anche se non sapeva bene cosa potesse significare questa parola, né quale significato potesse attribuirgli lei: vide le classiche famiglie di turisti, con bambini piccoli e medi, o gruppi di ragazzini grandi che passavano le loro prime domeniche soli al lago; vide macchine costose, almeno per lei, e altrettanto costose case, case per famiglie, carine, ordinate, com’eran sempre piaciute a lei, e le sembrarono noiose; aveva sempre sognato una famiglia, una casetta, un marito con il fuoristrada, due bambini un maschio e una femmina che non le davano grosse preoccupazioni, un giardino curato e una cucina accessoriata, le vacanze al mare in estate e in montagna in inverno, e magari una televisione da 36 pollici per continuare a guardare quei film che le avevano messo così tante cazzate in testa; da piccola sognava tutte queste cose, ma ora che era grande temeva fossero noiose, non riusciva ad immaginare altro quando ci pensava; da piccola, ossia un anno prima, le dispiaceva non averle ancora, da grande, ossia ora, sapeva che non le voleva avere; sapeva che in futuro avrebbe potuto ancora cambiare idea, ma per ora le piaceva la vita che stava facendo ora: non aveva una casa sua, e nessun diritto su quella in cui abitava, la macchina l'aveva avuta, anche se non costosa, ma anziché fare il passo successivo logico, ossia comprarne una più grande e più bella, l'aveva venduta e ora aveva una bicicletta di seconda mano; non aveva mai avuto davvero in mano elementi validi per costruire una famiglia, ma aveva smesso di desiderarli o di cercarli, se mai li aveva cercati, e finalmente si accontentava davvero, nel senso che era davvero contenta di quello che aveva e non riusciva più ad immaginare, cosa che un tempo faceva in continuazione, la sua vita in una casetta con il numero di camere giusto, due macchine sul viale, lo scivolo e l'altalena sul prato, le vicine davanti alla sua porta con la torta per il tè, i vicini che annaffiavano le piante il sabato e lavavano la macchina la domenica, per andare al lavoro con la carrozzeria lucida il lunedì, il lavoro in centro e il panettiere di fiducia dietro l'angolo. Il panettiere di fiducia lei ce l'aveva in ogni zona che frequentava, per non restare mai senza pane o croissant, cosa che ultimamente la mandava nel panico più totale, e se proprio avesse dovuto immaginare un uomo nella sua vita, ora lo immaginava pedalare a fianco a lei, su una bicicletta di seconda mano sgangherata quanto la sua, ma di un altro colore, senza marce e senza cestino, con la catena e il lucchetto ma chi è che se la ruba, il fanale storto e le ragnatele fra i raggi; se lo immaginava che pedalava a fianco a lei anche per la gita della domenica all’Heiligensee, sulla ciclabile verso il lago, lungo la sponda opposta, quella senza villette, senza ombrelloni, senza bagnino, senza chiosco che sfornava wurst a tutte le ore, senza coppie di pensionati sdraiati con la spremuta in mano, solo altri sfigati che in realtà erano gli unici che si godevano la vita, laddove "godersi la vita" non significava spendere la domenica i soldi guadagnati durante la settimana per pagare l'affitto di una casa al lago, ma assaporare in bocca il sapore che ogni giorno aveva, e che era diversissimo dal sapore del giorno precedente; e continuava a pensare che le sarebbe piaciuto avere un figlio, eppure per la prima volta nella sua vita non lo voleva davvero, non ora che non aveva nemmeno il cestino per la bici.

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Certi pensieri, legati a certe persone, li ha avuti anche Dean, e mentre leggevo mi sono resa conto che sono più frequenti nelle persone abituate a viaggiare per lunghi periodi, perché queste persone acquisiscono una capacità di osservare e di valutare le altre persone che differisce da quella di chi da casa sua si sposta solo una, due volte all’anno, per le ferie comandate e non perché spostarsi faccia parte della sua concezione del mondo; e nelle persone che conducono una vita irregolare o nomade, ma che pure hanno occasione di osservare da abbastanza vicino anche chi ripudia il nomadismo come simbolo di arretratezza, come una condizione di vita inferiore da esorcizzare, quelli che “hanno preoccupazioni, contano i chilometri, pensano a dove devono dormire stanotte, quanti soldi per la benzina, il tempo, come ci arriveranno… e in tutti i casi ci arriveranno lo stesso, capisci. Però hanno bisogno di preoccuparsi e d’ingannare il tempo con necessità fasulle o d’altro genere, le loro anime puramente ansiose e piagnucolose non saranno in pace finché non riusciranno ad agganciarsi a qualche preoccupazione affermata e provata […]”, come fa notare Dean a Sal.
E certi pensieri, legati a certe persone, li ha avuti anche Sal: “Io attaccai discorso con una splendida ragazza di campagna che portava una camicetta di cotone molto scollata e rivelata la sommità abbronzata del suo bel seno. Era ottusa. Parlò di serate in campagna passate a fare il popcorn sotto il portico. Un tempo ciò mi avrebbe rallegrato il cuore ma poiché il cuore di lei non se ne rallegrava mentre lo diceva, capii che in esso non c’era altro che l’idea di ciò che si dovrebbe fare.”

Per tutto il romanzo la musica Bebop non li abbandona mai. Sal e Dean frequentano diversi locali, in diverse città, spesso ci incontrano loro amici musicisti, ma anche sorprendenti sconosciuti: “Saltammo fuori nella notte calda, selvaggia, sentendo un indiavolato sax-tenore che faceva ululare il suo strumento dall’altra parte della strada, in questo modo: ‘ii-iah! ii-iah! ii-iah!’ mentre delle mani battevano a tempo e la gente urlava: ‘Dài, dài, dài!’[…] Stava suonando sull’onda di un meraviglioso soddisfacente motivo improvvisato, una frase ripetuta che si alzava e ricadeva e andava da ‘iiiah!’ fino a un più indiavolato ‘ii-di-li-iah!’ […] era in istato di grazia e tutti lo sapevano […]. Era una folla di pazzi. Stavano tutti a incitare il sassofonista, con urli e stralunar d’occhi, perché tenesse duro e continuasse, e lui si sollevava sulle ginocchia e si abbassava di nuovo col suo strumento, lanciandolo in alto in un chiaro grido contro il furore. Tutti si dondolavano e ruggivano. […] il sax-tenore saltò giù dal palco e stette in piedi tra la folla, suonando in tutte le direzioni; aveva il cappello sugli occhi; qualcuno glielo spinse all’indietro. Lui indietreggiò e batté un piede e soffiò una nota rauca ululante, e tirò il fiato, e alzò lo strumento e lanciò una nota alta, larga e stridula nell’aria […], e finalmente ricadde fra le braccia di qualcuno e si diede per vinto e tutti gli si accalcarono intorno e gridarono: ‘Sì! Sì! L’ha suonato come un dio!’.”


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Quel giorno al lago si rese conto che ora finalmente si sentiva "grande", lo era diventata otto mesi prima, quando aveva lasciato tutto ed era partita. Quando aveva conosciuto la povertà, la fame, e la disperazione di non avere una vita, era diventata grande, e ora che aveva un lavoro, una stanza e una bicicletta, ora che cominciava a sentire di avere una vita sua, non sarebbe voluta mai tornare indietro, su quella strada comoda e asfaltata che portava, con un ponte logico, alla strada successiva: lavoro, soldi, macchina, casa, famiglia e vacanze al mare in estate e in montagna in inverno. Apparentemente il suo era un inizio, lo dimostrava la domanda delle ragazze su ciò che avrebbe voluto fare "da grande", cioè in futuro, ma per lei era questo il "da grande", perché si sentiva cresciuta dentro.
Era scappata da tutto ciò che costituiva lo svolgimento lineare di una vita, e quando, anni dopo, ci sarebbe tornata, non sarebbe stata pronta a ritrovarlo, perché nel frattempo l’avrebbe scordato, nonostante quel giorno al lago avesse avuto l’impressione che quella vita lineare si affacciasse dal balcone di ogni villetta per invitarla a salire. Eppure si sarebbe lentamente ripresa da quel primo scoramento e sarebbe riuscita a dimostrare che non si trattava necessariamente di due vite contrapposte e parallele. Anni dopo, ripensandoci, si sarebbe resa conto che viaggiare e spostarsi non erano il presupposto ideale per crescere senza radici, al contrario: perché ogni città in cui aveva vissuto (e, in certa misura, anche quelle in cui aveva soggiornato solo per brevi vacanze, se nel momento giusto della vita) erano state punti di svolta da cui era ripartita diversissima da com'era appena vi era arrivata, e avevano smesso col tempo di essere luoghi fisici, per diventare "il luogo in cui era diventata così" o il "luogo in cui aveva smesso di essere in questo modo" o "in cui aveva imparato questa cosa di sé". In ognuna di queste città aveva messo una radice diversa, che faceva di lei il fiore che era.



Sulla strada di Jack Kerouac, tradotto da Magda Maldini de Cristofaro

Elle

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