Ho
sempre pensato che Rufus Wainwright fosse un musicista che vive fuori
dal tempo, come quelle nonnine che seppur lucidissime, preferiscono
nutrirsi di ricordi ,della nostalgia dei giorni in cui tutto aveva un
sapore migliore, un profumo più intenso. Quando le vai a trovare, tirano
fuori la tovaglia di pizzo, l’argenteria buona, ti preparano il tè con
un goccio di latte e ti rimpieno la pancia con quei biscotti al burro,
tanto calorici quanto deliziosi. E intanto, ti raccontano storie
antiche alle quali inizialmente presti poca attenzione, ma che presto
finiscono per intrigarti, e quando poi ci ripensi, capisci di averle
già infilate nel tuo bagaglio per la vita, perché in qualche modo ti
hanno segnato. Le canzoni di Wainwright fanno un po’ lo stesso
effetto:so che non hanno alcuna attinenza coi miei interessi musicali,
le ascolto con una preconcetta predisposizione allo sbadiglio e poi,
quando ci ripenso, non riesco più a levarmele dalla testa.
Perchè Rufus
è un artista di atemporale coerenza, perché possiede la sensibilità di
un poeta, perché ha un tocco glamour che strabiglia, perché, diciamola
tutta, ha acquisitoi cromosomi del genio per trasmissione ereditaria.E
quindi può permettersi di abbinare un pop leggiadro a derive
sperimentaliste, la torch song alla grandeur del musical, languori
nazional popolari di musica classica a sonorità più convenzionalmente
rock. E può rilasciare con la stessa disarmante semplicità, un disco
come All days are nights , le cui note di pianoforte potrebbero
risalire nel tempo fino agli inizi del secolo scorso o rappresentare il
manifesto di una corrente neoclassica che nascerà fra qualche
centinaio d’anni quando una palingenesi musicale avrà sepolto per
sempre il nostro modo di produrre e ascoltare musica.
Queste dodici
canzoni ( uso impropriamente il termine “canzone” ), costruite
eslusivamente sull'interplay fra pianoforte e voce, rappresentano il
confine estremo a cui Wainwright porta la propria concezione di
musica. Abbandonata ogni sensazione pop e la consueta complessità degli
arrangiamenti, Rufus crea con All days.. un disco apparentemente
scarno, concepito come un monologo teatrale, sicuramente notturno e
cupo, di certo più melodrammatico che malinconico, riuscendo a fondere
con naturalezza elementi intellettuali ( la rilettura di tre sonetti di
Shakespeare, il risalto di un pianoforte suonato con la fisicità e la
tecnica dei grandi ) agli struggimenti e al disagio per la perdita
recente della madre, palpabile in tutti, gli intensi, passaggi vocali.
Un lavoro di difficilissima assimilazione, che richiede una
predisposizione anche fisica all’ascolto, e che produce
nell’ascoltatore un lento ma progressivo coinvolgimento: si passa
dall’incomprensione iniziale (inizialmente il disco mi ha disturbato ),
allo stupore per melodie che si fanno magicamente sempre più liquide,
per giungere alla consapevolezza finale di essere innanzi ad un‘opera
sofferta, priva di compromessi e traboccante di spiritualità. Così
intensa, nella propria voluptas dolendi e nel proprio abbacinante
respiro vitale, da rapirci, anima e corpo, in un’esperienza sonora che
ci apparirà ( quasi ) definitiva.
Blackswan, venerdì 06/07/2012
2 commenti:
Perfetta similitudine!!!
La saggezza che regna sovrana nelle persone di una certa età sposa bene la profondità del brano.
Ottimo l'ascolto per una terapia yoga, concilia la concentrazione sul respiro.
Un saluto
Ma sai che hai ragione? :)
Grazie, non lo conoscevo!
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